David Bowie & Pat Metheny Group, “This Is Not America”, 1985

bowie-metheny-this-is-not-americaMi piace da matti questa canzone, sarei capace d’ascoltarla per un giorno intero! Si chiama This Is Not America ed è una collaborazione tra David Bowie e il Pat Metheny Group. Il singolo, tratto dalla colonna sonora del film “The Falcon And The Snowman”, è stato pubblicato nel 1985.

Film a parte, è bellissima l’atmosfera di questo brano: il ritmo morbidamente percussivo lo rende adattissimo all’ascolto in macchina. La voce (anzi le voci, in più punti raddoppiate e sovrapposte) di Bowie è incredibilmente bella, senza dubbio una delle sue prove vocali migliori, mentre la musica ha un tono dolcemente malinconico che strugge e dona un senso di magnificenza che solo le grandi melodie sanno infondere.

This Is Not America… una canzone da undici e lode! – Matteo Aceto

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John Deacon

john-deacon-queen-immagine-pubblicaMi è appena arrivata una e-mail dal sito ufficiale dei Queen che pubblicizza un libro di Brian May, il celebrato chitarrista della nota band inglese. Ora tutti conoscono Brian May, ha suonato con numerosi altri artisti di fama internazionale, a più riprese ha anche partecipato al Pavarotti International. Negli ultimi anni s’è rimesso in pista come Queen insieme al batterista storico del gruppo, Roger Taylor, dando vita ad una lunga ed acclamata tournée internazionale con tanto di divudì finale ultracelebrativo.

Vabene, ma dov’è finito John Deacon? Il buon John (classe 1951, il più giovane tra i componenti dei Queen) è il bassista che ha partecipato a tutti gli album del gruppo, da “Queen” del 1973 a “Made In Heaven” del 1995, suonando in tutti i concerti della band quando chiamarsi Queen con alla voce quel mito che è Freddie Mercury aveva certamente molto più senso. Dopo aver omaggiato il compianto leader dei Queen a Wembley, nel corso del Freddie Mercury Tribute (aprile 1992), John Deacon ha detto basta alla musica. Vi è tornato brevemente per l’ultimo omaggio a Freddie con l’album “Made In Heaven” (anche se le sue linee di basso potrebbero essere ben più vecchie delle parti di chitarra e di batteria del diabolico duo May-Taylor) e per l’ultimo video dei Queen (stavolta ridotti a trio), No-One But You del 1997.

John Richard Deacon, ammogliato dal 1975, si è ormai ritirato a vita privata, in compagnia della numerosa prole, e si dedica alla piccola imprenditoria a tempo perso. Per il resto, presumo, campa alla grande coi diritti incassati durante la sua carriera stratosferica coi Queen: sì perché il nostro sarà anche stato il membro meno prolifico tra i quattro ma comunque in quel periodo lui se n’è uscito con due hit galattiche, Another One Bites The Dust (1980) e I Want To Break Free (1984). E che dire del suo fantastico giro di basso che s’è inventato per Under Pressure (1981), la suprema collaborazione tra i Queen e David Bowie?

A me dispiace che questo gentile musicista, sempre sorridente, sia oggi poco ricordato, come se il fatto che May & Taylor se ne vadano in giro facendosi chiamare Queen abbia oscurato del tutto la figura e l’importanza storica di John Deacon nella band. Voglio così ricordare che il buon John è l’unico componente dei Queen che, dopo la morte dell’inimitabile Freddie Mercury, ha avuto la dignità e il buon gusto di chiamarsi fuori dalle successive reinterpretazioni di una band che ha già detto tutto, ha scritto pagine importanti nella storia del rock e dello spettacolo e che non merita di riscritture attuali da parte di metà della band originale. Insomma, cari Brian Harold May e Roger Meddows Taylor, fate attenzione ad utilizzare il marchio Queen per i vostri loschi piani, potreste offendere la sensibilità di moltissimi ammiratori. – Matteo Aceto

Bee Gees

bee-gees-immagine-pubblica-blogIo i Bee Gees li ho sempre amati. La loro musica ha attraversato cinque decenni e ognuno di essi li ha visti protagonisti con grandi album e bellissime canzoni. Negli anni Sessanta, ad esempio, se ne uscirono con I’ve Gotta Get A Message To You, Words , World, I Started A Joke e First Of May, nei Settanta con le ormai immortali You Should Be Dancing, Stayin’ Alive, How Deep Is Your Love, Night Fever, More Than A Woman e Tragedy, negli Ottanta con You Win Again e Wish You Were Here, nei Novanta con For Whom The Bell Tolls e Alone, e nel nuovo millennio con This Is Where I Came In.

Ma di canzoni a dir poco memorabili, i tre fratelli Gibb ne hanno tirate fuori a bizzeffe in tutti questi anni, sia come gruppo, sia come solisti ma anche come autori / produttori di altri artisti, gente del calibro di Barbra Streisand, Diana Ross, Céline Dion, Kerry Rogers, Dionne Warwick, Elton John, tanto per dire i primi nomi che mi sovvengono.

Il nome Bee Gees sta per B e G, ovvero Brothers Gibb, dove i fratelli in questione sono Barry, Robin e Maurice (questi ultimi due sono gemelli). C’era anche un quarto fratello, il più giovane, Andy Gibb, il quale ha avuto anche lui un certo successo commerciale a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. Purtroppo Andy morì nel 1988 per complicazioni cardiache dovute ai suoi eccessi, mentre nel 2003 fu la volta di Maurice, stroncato da una malformazione congenita all’intestino. Ma non è di morte che voglio parlare perché i Gibb ci hanno sempre proposto delle canzoni straordinariamente vitali, e tuttora attuali, anche quelle incise all’inizio della loro carriera.

Una carriera che, incoraggiata dal padre Hugh, inizia in Australia nella seconda metà degli anni Sessanta, col singolo Spicks & Specks che vola già al 1° posto della classifica. Poi i Gibb tornano nella terra natìa, la Gran Bretagna, e si preparano a conquistare le classifiche mondiali con brani come Massachusetts, To Love Somebody, How Can You Mend A Broken Heart, Run To Me, Jive Talking, Nights On Broadway e tante altre, e con album come “Bee Gees’ First” (1967)”, “Horizontal”, “Idea” (entrambi del ’68), “Odessa” (1969), “Cucumber Castle” (1970, coi Bee Gees ridotti a duo dopo la breve defezione di Robin), “2 Years On” (sempre nel ’70), “Trafalgar” (1971), fino a quello che per molti è il miglior disco dei Gibb, “Main Course” (1975).

Nel 1976 esce “Children Of The World” che anticipa quella svolta disco che si compirà alla grande l’anno dopo, con le canzoni scritte ed interpretate per la colonna sonora de “La Febbre del Sabato Sera”. Musiche e film strafamosi in tutto il pianeta. I Bee Gees si ripetono nel 1979 con “Spirits Having Flown”, poi negli anni Ottanta la loro produzione sarà meno prolifica: preferiranno assumere un profilo più basso per scrivere/produrre per altri artisti, con Robin che ottiene un discreto successo come solista (il singolo Juliet del 1983 è famosissimo). Qualche anno prima anche Andy iniziò ad ottenne grandi riconoscimenti, grazie all’album “Flowing Rivers” (1977) e a fortunati singoli quali Love Is Thicker Than Water, Shadow Dancing e An Everlasting Love.

Negli Ottanta gli album veri e propri dei Bee Gees sono soltanto tre, “Living Eyes” (1981), “E.S.P.” (1987) e “One” (1989), mentre nei Novanta escono altri tre da studio – “High Civilization” (1991), “Size Isn’t Everything” (1993) e “Still Waters” (1997) – e un album live, “One Night Only” (1998). Tutto materiale che non fa che confermare un’impressione già netta: passano gli anni, passano le tendenze, cambiano gli stili, ma i fratelli Gibb non perdono nulla della loro innata classe. Nel 2001 i Bee Gees tornano con l’ottimo “This Is Where I Came In”, seguìto dall’eccellente “The Record/Their Greatest Hits” (2002), un doppio ciddì antologico da urlo.

Attorno alla metà del decennio, i Bee Gees hanno finalmente ottenuto il pieno controllo artistico-editoriale sul loro catalogo discografico: una libertà che ha già dato alcuni frutti nel corso del 2006, con le splendide ristampe rimasterizzate dei loro primi tre album, seguita nel 2009 dal nuovo remaster di “Odessa” con tanto di cofanetto, tutte ad opera della Warner Bros. Negli anni successivi, tuttavia, complice probabilmente un cambiamento di management alla Warner, ma anche alcuni dissidi tra Barry e Robin, le uniche pubblicazioni ufficiali dei Bee Gees sono state soltanto raccolte. Nel 2012, infine, anche Robin è venuto a mancare, mentre era nel bel mezzo della composizione di nuovo materiale e nella riproposizione del catalogo storico, stavolta della sua produzione solistica. Un nuovo passaggio di consegne tra case discografiche, dalla Warner alla Capitol, annunciato sul finire del 2016, lascia tuttavia ben sperare per una nuova valorizzazione del catalogo storico dei Bee Gees, magari proprio in concomitanza, nel 2017, del quarantennale de “La Febbre del Sabato Sera”. Resto in fiduciosa attesa. (

Pink Floyd, “The Wall”: i mattoni sparsi

pink-floyd-the-wall-film-alan-parker-immagine-pubblicaEccomi qui alle prese con l’ultimo post dedicato a “The Wall” dei Pink Floyd, una pietra miliare del rock… o meglio, un muro miliare del rock!

Dunque, tra il dicembre ’79 e il gennaio ’80, l’album volò al vertice della classifica in molti Paesi, tra i quali la nativa Gran Bretagna e gli Stati Uniti: oggi, coi suoi venticinque milioni di copie vendute, “The Wall” è il disco degli anni Settanta più venduto al mondo, una cifra ancora più straordinaria se si pensa che si tratta d’un doppio. Ora però procediamo con la storia, che i record e i numeri non mi hanno mai affascinato troppo.

Uno dei temi portanti di “The Wall” è la dimensione alienante tra artista ed audience sperimentata in prima persona col tour “In The Flesh” del 1977: Roger Waters è assolutamente contrario a portare lo spettacolo di “The Wall” negli stadi. Sono così previsti degli show in arene con un massimo di quindicimila posti, dove tutti possano godersi la musica e gli straordinari effetti visivi appositamente preparati: la costruzione effettiva da parte d’una squadra di operai d’un muro di cartone alto oltre quattro metri e lungo oltre i dieci; dei montacarichi per permettere agli operai di muoversi ma anche alla band di seguire alcune ambientazioni della storia; il classico schermo circolare tipico dei concerti dei Pink Floyd dove proiettare gli incredibili cartoni animati realizzati dalla squadra di Gerald Scarfe; ultimi ma non ultimi, gli effetti scenici degli enormi pupazzi gonfiabili, con tanto di luci accessorie, che rappresentano i vari protagonisti della storia narrata in “The Wall”.

Mentre la band ed i propri collaboratori progettavano questo nuovo spettacolo si era pensato anche di creare di volta in volta una speciale arena da montare in ogni città attraversata dal tour. La struttura era caratterizzata esteriormente da una forma a lumaca nuda che infine, per complicanze logistiche, si decise di accantonare: si scelsero invece quattro arene dove replicare più volte lo stesso spettacolo. E così, partita dalla Los Angeles Sports Arena nel febbraio ’80, la rappresentazione dal vivo di “The Wall” continuò per un anno per poi concludersi alla Wastfallenhande di Dortmund (Germania) nel febbraio ’81. Le altre due arene ‘intermedie’ erano il Greater Nassau Coliseum di New York (febbraio ’80) e la celebre Earl’s Court di Londra (agosto ’80 e giugno ’81).

Un’eccellente sintesi di queste quattro lunghe performance nelle quali i Pink Floyd eseguivano per intero “The Wall” costituisce l’album “Is There Anybody Out There?/The Wall Live“, pubblicato nel 2000. In due CD viene così riproposto lo spettacolo completo (solo audio però) della rappresentazione di “The Wall” da parte dei nostri: molte delle canzoni acquisiscono più spessore dal vivo, alcune sono invece estese per permettere nel frattempo agli operai di completare la costruzione effettiva del muro (l’ultimo mattone veniva posto appena Roger finiva di cantare Goodbye Cruel World, terminando la prima parte dello spettacolo). La cosa più interessante è però l’inclusione di parti che per ragioni di tempo e di sintesi narrativa erano state escluse dall’album in studio (il produttore Bob Ezrin convinse Waters a realizzare due LP da quaranta minuti l’uno): e così possiamo ascoltare canzoni escluse (la potente What Shall We Do Now? ma anche un grandioso medley strumentale chiamato The Last Few Bricks) o nella loro forma originaria (Empty Spaces e The Show Must Go On, entrambe più lunghe e con testi diversi). Da segnalare che in questi incredibili spettacoli dal vivo i Pink Floyd erano ben otto (!) più quattro coristi: otto perché Roger Waters (voce, basso, chitarra), David Gilmour (voce, chitarra, basso), Nick Mason (batteria) e il povero Rick Wright (tastiere) erano supportati dal bravissimo Snowy White (chitarra, già coi nostri dal vivo prima e dopo “The Wall”), da Peter Woods (tastiere), da Andy Bown (basso), da Willie Wilson (batteria) e da Andy Roberts (che sostituì White alla chitarra negli spettacoli del 1981). Tutte le altre informazioni su “The Wall Live”, comprese le note tecniche & i disegni & le foto del progetto & le interviste & tutto quello che più desiderate sapere su quest’affascinante rappresentazione rock-teatrale lo trovate nel cofanetto di “Is There Anybody Out There?” (2000), un disco che consiglio a tutti gli amanti sfrenati dei Pink Floyd come me.

Dopo i concerti, si passò all’ultima fase della multimedialità insita in “The Wall”, ovvero la realizzazione del film vero e proprio. Qui le cose si fecero notevolmente più complicate e, in definitiva, più stressanti: il film, chiamato semplicemente “Pink Floyd The Wall”, uscì nel corso del 1982 riscuotendo comunque un grosso successo. Diretto da Alan Parker (più volte in rotta di collisione con Waters, che scrisse la sceneggiatura), il film figura un giovane Bob Geldof – allora leader dei Boomtown Rats – nella parte principale, quella di Pink. C’è anche il bravissimo attore Bob Hoskins ma le cose che personalmente apprezzo di più in questo film sono le bellissime sequenze animate: davvero un’arte sopraffina, molto immaginifica e coinvolgente. E poi la musica… anche qui sono state incluse alcune canzoni che non avevano trovato spazio nell’album del 1979, ovvero What Shall We Do Now? e la versione lunga di Empty Spaces. Manca Hey You ma c’è una nuova composizione watersiana, When The Tigers Broke Free (pubblicata come singolo nell’aprile ’82), ci sono alcune riesecuzioni, come le nuove versioni di Mother, Bring The Boys Back Home e In The Flesh (quest’ultima gridata più che cantata da Bob Geldof), una In The Flesh? e una Stop! cantate ancora da Geldof, un breve interludio strumentale che anticipa Your Possible Pasts (completa nel prossimo album dei Pink Floyd, “The Final Cut“). Anche Outside The Wall, che accompagna i titoli di coda, è notevolmente diversa: oltre ad essere necessariamente più lunga, include anch’essa parti musicali che Roger Waters stava orchestrando con Michael Kamen e che vedranno la luce sul successivo “The Final Cut”.

Ora, questo legame tra “The Wall” e “The Final Cut” è molto stretto: inizialmente, Waters pensava di pubblicare gli scarti di “The Wall” (What Shall We Do Now?, Your Possible Pasts, The Hero’s Return, ma anche la nuova When The Tigers Broke Free) su un album dei Floyd chiamato “Spare Bricks”. Poi il nome cambiò in “The Final Cut”, tanto che quando uscì il singolo di When The Tigers Broke Free, sul retro copertina veniva chiaramente indicato questo titolo. Il nome alla fine restò quello ma il contenuto cambiò notevolmente: in quei giorni l’Inghilterra imperialista di Margaret Thatcher aveva dichiarato guerra all’Argentina di Leopoldo Gualtieri per quattro isolotti chiamati Falklands. Quest’inutile guerra suscitò la profonda indignazione di Roger Waters, tanto da spingerlo a scrivere del nuovo materiale e a far pubblicare il suo ultimo album con i Pink Floyd nell’aprile 1983… una commovente critica alla guerra dedicata al suo papà morto ad Anzio nel ’44. Ma questa è un’altra storia che sicuramente meriterà di essere raccontata in un altro post. – Matteo Aceto

Pink Floyd, “The Wall”, 1979

pink-floyd-the-wall-immagine-pubblicaE così, dopo tutta la fase preparatoria che abbiamo visto nel post precedente, il 30 novembre 1979 esce finalmente questo capolavoro dei Pink Floyd chiamato “The Wall”. Sono due elleppì racchiusi in una confezione apribile inconfondibile: mattoni all’esterno, personaggi della storia all’interno. In verità, l’album avrebbe potuto vedere tranquillamente la luce nel 1980 ma la casa discografica dei nostri forniva un sostanzioso anticipo se il disco fosse uscito entro Natale. Sembrerà assurdo ma in quel periodo i Pink Floyd avevano disperatamente bisogno di soldi: l’anno prima era fallita per bancarotta fraudolenta la società che curava i loro interessi e i Pink Floyd ci rimisero un sacco di quattrini. Ma veniamo alla cosa che più c’interessa, la musica: vediamo quindi di analizzare questo muro mattone per mattone.

1) L’album si apre con la potente In The Flesh?, uno dei brani più duri mai proposti dai nostri: a metà c’è un emozionante interludio corale dove emerge forte e sarcastica la voce di Roger Waters: è il benvenuto ad una nuova forma di show, ma anche un sentito invito ad andare oltre l’apparenza delle cose.

2) La roboante conclusione di In The Flesh? termina con l’inquietante fischio d’una bomba sganciata da un caccia… ma non ci sarà una deflagrazione come ci si potrebbe aspettare, bensì il pianto d’un neonato. Inizia quindi The Thin Ice, una ballata sostenuta principalmente dal piano dove David Gilmour canta la prima parte della canzone; nella seconda torna la sarcastica e tagliente voce di Roger, dopo la quale il ritmo si solleva e la chitarra di Dave produce un lancinante assolo (tipico Pink Floyd sound direi… magnifico!).

3) Il tutto sfuma in quella che è una delle mie canzoni preferite, Another Brick In The Wall, Part 1: cupa, intensa, sofferta, con Waters che grida ‘papà, cosa mi hai lasciato?, e poi quelle chitarre taglienti e avvolgenti insieme. Suprema!

4) Anche qui il ritmo sfuma nel brano successivo, introdotto da un minaccioso elicottero che si solleva sulle nostre teste: un imperioso insegnante ci grida (è sempre la voce di Roger, così come la maggior parte delle altre voci di sottofondo che si ascoltano in “The Wall”) di restare al nostro posto. Inizia così il pulsante dark-rock di The Happiest Days Of Our Lives, con il testo che è una tirata verso i metodi d’insegnamento oppressivi tipici dell’Inghilterra del dopoguerra.

5) La tematica si fa ancora più aggressiva ed esplicita nella successiva (e famosissima) Another Brick In The Wall, Part 2: il ritmo quasi disco, il basso funky, il coro dei bambini (una classe di ventitré studenti inglesi, poi moltiplicata in studio per dodici volte), l’assolo blues di Gilmour eseguito con una chitarra Gibson del 1959… quanto di più atipico i Pink Floyd dell’epoca avessero mai proposto ai loro ascoltatori. Ma oggi è uno dei brani più rappresentativi dei nostri, una canzone conosciuta anche da chi sente musica solo occasionalmente.

6) Poi è la volta di Mother, una grandiosa ballata perlopiù acustica, con la chitarra ritmica suonata da Waters, che dura oltre cinque minuti: Roger fa la parte dell’artista tormentato, Dave (nel ritornello) fa quella della madre che continua a vedere il proprio figlio come un pulcino indifeso, mentre Jeff Porcaro dei Toto tiene il tempo (a quanto pare, Nick Mason non sembrava riuscirci, e così…).

7) Segue un’altra ballata acustica, Goodbye Blue Sky, introdotta dall’inquietante rombo degli aerei da guerra che sovrasta il canto degli uccellini: l’atmosfera complessiva di questa canzone, con la sua coralità e la sua carica drammatica, è bellissima.

8-9) Andiamo oltre, all’atmosfera dark di Empty Spaces: in lontananza, su un minaccioso ritmo sintetizzato, un minaccioso assolo di chitarra si avvicina sempre più, per poi esplodere con tutta la sua carica drammatica (tipico stile gilmouriano, inconfondibile) e, dopo alcune voci misteriose di sottofondo (tutte di Waters), ecco il canto distorto ed alienato di Roger che funge da eccellente introduzione per la successiva Young Lust. Questa è un’altra grandiosa perla rock da parte dei nostri, con la voce urlante di Dave che ricorda molto The Nile Song, un brano dei nostri apparso dieci anni prima sulla colonna sonora del film “More”.

10) Una comunicazione telefonica dagli Stati Uniti che non viene accettata dalla nativa Inghilterra lega Young Lust alla canzone seguente, la straordinaria One Of My Turns. Qui l’inconfondibile voce di Roger canta l’amarezza per un amore che svanisce giorno dopo giorno: poi il tutto esplode rabbiosamente in un altro grande pezzo rock. Fantastico, fantastico davvero.

11) La successiva Don’t Leave Me Now è forse l’unica canzone di “The Wall” a contenere alcuni sprazzi di pura psichedelia, anche se il tono del brano è decisamente dark, con uno stralunato e irresistibile canto watersiano.

12-13) Al termine di Don’t Leave Me Now, i canali televisivi iniziano a scorrere compulsivamente uno dietro l’altro, dopodiché con un urlo di pazzia il protagonista della nostra storia, Pink, sfascia il tutto. Da questi botti si fa spazio prepotentemente Another Brick In The Wall, Part 3, un altro brano tirato e potente, con Roger che dà un’indimenticabile prova vocale, per quanto il brano sia di breve durata. Poi il suono sfuma efficacemente in quello che è l’ultimo brano del primo LP, la placida e cantilenante Goodbye Cruel World.

14-15) Cambiamo elleppì (o ciddì, anche questo è in doppio formato) ed eccoci alle prese con una delle canzoni più belle del mondo, la malinconica e sofferta Hey You. Inizia Dave, che suona anche quelle fantastiche linee di basso, dopodiché, dopo un interludio strumentale piuttosto viscerale,
eccoci alle prese con la sofferta voce di Roger (per la verità canta pure alcuni versi prima di questo interludio), il cui eco si tramanda fino alla successiva Is There Anybody Out There?. A questo punto si entra dall’altra parte del muro, dove Pink, recluso e profondamente solo nel suo hotel, affronta i suoi tormenti personali. ‘C’è qualcuno là fuori?’ si chiede più volte Roger, mentre Dave esegue dei lontani e strazianti interventi chitarristici (ricordano gli effetti che utilizzò nel 1971 per Echoes), poi la canzone si trasforma in un commovente interludio acustico, contrappuntato da un uso discreto dell’orchestra che ne fa uno dei momenti migliori del disco.

16) Alcuni rumori di sottofondo (“The Wall” ne è pieno, come l’intera produzione floydiana del resto) ci introducono la bellissima ballata per piano e orchestra di Nobody Home: qui l’esperienza personale di Waters (il cui canto, a tratti appassionato e a tratti desolato, è efficacemente arricchito con l’eco) si fonde con quella di Syd Barrett, a quel tempo il vero recluso tra i membri dei Pink Floyd.

17) Segue il terzo e conclusivo momento intimo dell’album, Vera, dove Roger si chiede che ne è stato della cantante Vera Lynn e dei suoi tempi. Si chiede inoltre, desolato, se qualcun altro prova ciò che prova lui.

18) I tamburi rullanti di Bring The Boys Back Home e il suo coro portentoso (ma sul canale destro degli speaker si sente chiaramente l’alta voce di Roger) sembrano riportarci alla realtà… riportate i ragazzi a casa, come dal fronte di guerra così come dai lustrini dello show-business.

19) Altri rumori, voci, effetti, ed eccoci poi ad un’altra stupenda canzone, anche questa senza ombra di dubbio tra le più belle del mondo: Comfortably Numb. L’idea originale della melodia venne a Gilmour mentre stava lavorando al suo album omonimo, l’anno prima. Roger Waters e Michael Kamen la arricchiscono, rispettivamente, con uno dei testi più suggestivi mai scritti da un cantante rock e con una grandiosa partitura orchestrale. Ma anche il buon Dave fa la sua parte: alla sua calda voce sono affidati i due ritornelli mentre gli assolo della sua inconfondibile chitarra sono l’elemento di spicco di questo brano. Comfortably Numb… che altro dire, un brano da urlo che non mi stanco mai d’ascoltare!

20) Ci riprendiamo con l’interrogativa e corale The Show Must Go On: la voce del protagonista della storia è affidata a Gilmour, mentre il tutto ci introduce alla fase finale di “The Wall”, l’esibizione di un nuovo Pink e della sua ‘banda surrogata’.

21-24) I Pink Floyd sono diventati cattivi, sembrano dei divi fascisti e le canzoni apostrofano pesantemente il pubblico: si inizia con In The Flesh (stavolta senza punto interrogativo) che ovviamente è una ripresa del brano iniziale dell’album; poi è la volta della tosta Run Like Hell, altro brano famoso dei nostri, con un’urlante ed indimenticabile voce di Waters; segue Waiting For The Worms, un rock solenne e suddiviso in più tempi, dove si intrecciano magistralmente i cori e le voci soliste di Dave e Roger. Ormai quello che nel canale sinistro degli speaker era una folla urlante ‘Pink Floyd’ ora è diventato sul canale destro un incitamento a picchiare, ‘Hammer! Hammer!’ e Roger grida Stop!. Ormai Pink è disgustato da tutto e l’unica cosa che chiede (su un lieve accompagnamento pianistico) è di togliersi l’uniforme per poter tornare a casa.

25) Qui, ancora una volta da solo e alle prese coi suoi demoni, Pink si sottopone ad un processo mentale, The Trial, con tanto di avvocato, accusa (preside della scuola prima, e moglie dopo), difesa (la madre) e giudice inflessibile. Tutte le voci dei personaggi sono magistralmente cantate da Roger (con il ritornello in prima persona nel quale afferma di essere ormai pazzo e di aver perso di vista la porta che gli ha dato accesso al suo muro), mentre la partitura orchestrale arrangiata da Bob Ezrin regge uno dei pezzi più teatrali ed emotivi dei nostri. ‘Abbattete il muro’ è la sentenza finale, e così un liberatorio crollo di mattoni, cemento e calcinacci invade le nostre orecchie d’ascoltatori.

26) La consolazione finale ci viene da quello che, inevitabilmente, è il brano più disteso del disco, Outside The Wall, la cui lieve melodia (contrappuntata dal flauto dolce) ci era stata proposta per qualche secondo già nell’iniziale In The Flesh?. In effetti, come la frase tagliata a metà che conclude il secondo elleppì e che continua nel primo, tale conclusione suggerisce la ciclicità di questa complessa e affascinante opera discografica che è “The Wall”.

Che altro aggiungere… un po’ di crediti compositivi: tutte le musiche ed i testi sono opera di Roger Waters, tranne le musiche di Young Lust, Comfortably Numb e Run Like Hell che sono di Gilmour e la musica di The Trial che è di Ezrin. Da segnalare un grandissimo James Guthrie, il tecnico del suono principale di “The Wall”, nonché co-produttore associato di quest’opera. Il buon James continua tuttora a lavorare per i vari membri dei Pink Floyd… squadra che vince non si cambia!
Waters scrisse anche altro materiale, una parte del quale verrà anche pubblicata in diverse forme… ma questo lo vedremo nel prossimo e conclusivo post dedicato a “The Wall”. – Matteo Aceto

Pink Floyd, “The Wall”: la genesi di un mito

pink-floyd-in-the-flesh-immagine-pubblicaE’ giunto il momento di parlare di quello che, secondo la mia modesta opinione, è il miglior disco rock che sia mai stato pubblicato, ovvero “The Wall” dei Pink Floyd. E’ il migliore per un insieme di fattori che ne fanno un lavoro artistico eccelso: le canzoni contenute, i testi, la strumentazione, gli arrangiamenti, la produzione, le tematiche affrontate, il grado artistico che vi è insito, il sentimento generale che suscita e, perché no, il coraggio e la costanza dimostrata dai nostri nel creare questa autentica leggenda della musica.

Questo doppio elleppì, uscito al termine del 1979, ha una storia affascinante che occupa ben cinque anni di storia floydiana… storia che suddividerò in tre post dei quali questo è il primo. Ebbene, nel gennaio 1977 esce un nuovo album dei Pink Floyd, “Animals”, che i nostri decidono di supportare con un tour, denominato “In The Flesh”, della durata di sei mesi. La novità è che per la prima volta i Floyd portano la loro musica negli stadi: l’esperienza, per quanto fortemente lucrativa, apparirà ben presto alienante ai nostri, soprattutto a Roger Waters, il bassista e cantante che in quel periodo stava assurgendo alla leadership incontrastata del gruppo. Alcuni stadi nordamericani raggiungevano la capienza di novantamila persone e Roger cominciava a provare la sgradevole sensazione di non riuscire più a comunicare col pubblico, come se una barriera fosse stata eretta tra esso e la band. Inoltre, pareva che buona parte di questo pubblico fosse lì soltanto per il gusto di esserci, tanto per dire di aver partecipato ad un grande raduno rock, del tutto indifferente alla musica proposta.

La frustrazione di Waters raggiunse un punto di non ritorno in giugno, mentre i Pink Floyd suonavano all’Olympic Stadium di Montréal, quando sputò in faccia ad uno spettatore della prima fila. Dopo aver concluso il tour, Roger si rifugiò nella campagna inglese per scrivere e comporre quella che nella sua testa si profilava già come una grande catarsi rock, un’epopea artistica unica che lo avrebbe condotto a concepire una straordinaria opera multimediale. Nel frattempo, gli altri tre componenti della band si dedicavano ad esperienze soliste: il batterista Nick Mason produsse il secondo album dei Damned, mentre il tastierista Richard Wright e il chitarrista David Gilmour pubblicarono un album solista a testa nel corso del 1978.

Nell’estate di quell’anno, Roger radunò i suoi compagni e propose loro ben due cicli di canzoni, “The Wall” e “The Pros And Cons Of Hitch Hiking”: chiarì che i Pink Floyd avrebbero potuto sceglierne uno mentre lui stesso avrebbe portato a compimento l’altro come disco solista. La band scelse “The Wall”, soprattutto per una maggiore identificazione con i temi trattati, mentre “The Pros And Cons” sembrava un discorso più personale. Con “The Wall” quindi archiviato come prossimo album dei Pink Floyd, Roger iniziò ad esporre il suo monumentale progetto: il materiale scritto avrebbe occupato tre LP, sarebbe stato proposto con un apposito spettacolo dal vivo (uno show che prevedeva la costruzione d’un muro nel corso dell’esibizione dei nostri) e avrebbe funto da colonna sonora per un film vero e proprio.

Tutta questa fase preparatoria durò quasi un anno, con la band finalmente pronta ad entrare in studio nell’aprile del 1979… ma le cose erano cambiate. Innanzitutto c’era il ‘caso Richard Wright’, tenuto nascosto ai più nei quattro anni successivi: Roger lo aveva praticamente messo alla porta, per cui Rick venne messo a stipendio fisso per tutte le fasi legate al progetto “The Wall”, al termine del quale avrebbe dovuto lasciare la band. Pare che Wright si fosse impigrito, o che comunque non fosse più in grado di fornire alcun supporto compositivo ai Pink Floyd. Secondo alcuni, invece, sniffava troppa cocaina e preferiva condurre una vita agiata tra le sue amate isole greche (aveva anche acquistato una villa a Rodi). Anche Mason sembrava meno capace del solito di contribuire attivamente al progetto, tanto che in studio si fece ricorso anche al bravissimo Jeff Porcaro, il versatile batterista dei Toto, fra i musicisti turnisti più apprezzati al mondo.

A questo punto il progetto ricadde completamente sulle spalle di Waters (ovviamente lui ha sempre ritenuto “The Wall” una sua creatura) e Gilmour… una collaborazione che diventava via via più tesa e traballante. Anche in funzione mediatrice, i due decisero d’ingaggiare il canadese Bob Ezrin (all’epoca ventinovenne, già al lavoro coi Lou Reed e Peter Gabriel) come terzo produttore e, di fatto, tastierista e collaboratore stretto di David negli arrangiamenti. Intanto Roger perfezionava la scrittura del suo materiale, tagliava o aggiungeva qualcosa e di lì a poco prese contatti col disegnatore Gerald Scarfe, in modo da preparare tutti i disegni e le bozze che la realizzazione visuale di “The Wall” necessitava.

La storia (molto autobiografica) scritta da Roger per il suo capolavoro era questa: nel 1943 un bambino chiamato Pink viene alla luce in Inghilterra; non fa in tempo a conoscere suo padre perché questi viene ucciso l’anno successivo ad Anzio, nel corso d’un bombardamento tedesco sulla testa di ponte alleata in Italia. La morte del marito induce la madre a soffocare di attenzioni il figlio, facendolo crescere nell’ansia e nel dolore della perdita. Sono i primi mattoni che il giovane Pink pone sul suo muro psicologico, creato per proteggere la propria sfera emotiva. Altri mattoni sul muro verranno posti quando Pink andrà a scuola: un istituto disumanizzante (pieno d’insegnanti pomposi e pedanti) che tende a produrre per lo più carne da macello. Pink troverà rifugio nella musica, divenendo una rockstar affermata. Ma il successo sembra divorargli la vita: troppa pressione, troppi mesi lontano da casa, troppa droga. Nel frattempo, mentre lui è in America con la band, la moglie lo tradisce. Pink inizia quindi a perdere il contatto con la realtà, vive per lo più come un recluso in lussuosi alberghi: qui, completamente alienato e con un televisore sempre acceso a fargli compagnia, confonde la realtà con le sue proiezioni interiori e i suoi traumi infantili. Da questo baratro Pink riemerge come un dittatore del rock, con tanto di saluto fascista e di teatralità marziale durante le successive esibizioni della band. Ma poi Pink si rende conto di essere andato oltre le sue contraddizioni e, tornato nel suo hotel, si sottopone ad un’autoaccusa (un processo mentale con tanto di avvocato, testimoni e giudice) che lo costringe a ripercorrere tutta la sua vita e ad affrontare ad uno ad uno i suoi demoni personali. E’ tempo di abbattere il muro e di accettare la propria condizione di artista sensibile nella società contemporanea.

Musicalmente parlando, tutta la storia si articola in ventisei canzoni (alcune, come What Shall We Do Now?, vengono escluse all’ultimo minuto), incise tra l’Inghilterra (negli studi di proprietà dei Pink Floyd, i Britannia Row), la Francia (negli studi Superbear, dove l’anno prima Wright e Gilmour avevano inciso i propri lavori solisti) e gli Stati Uniti (ai Producers Workshop di Los Angeles). Sempre negli Stati Uniti, ma sulla costa opposta, a New York, Michael Kamen dirigeva le partiture orchestrali delle canzoni. I musicisti maggiormente coinvolti sono quindi Roger Waters (voce, cori, basso e chitarra), David Gilmour (voce, cori, chitarra, basso), Bob Ezrin (tastiere e sintetizzatori), Peter Woods (tastiere e sintetizzatori), Nick Mason (batteria e percussioni) e Jeff Porcaro (batteria e percussioni). Tra i coristi aggiunti figura, inoltre, Bruce Johnston dei Beach Boys: pare che i Beach Boys al gran completo avrebbero dovuto contribuire ai vari e sofisticati cori di “The Wall” ma alla fine Waters optò per il solo Johnston.

A Bob Ezrin va il merito d’aver ridotto la storia in due elleppì, d’aver alleggerito la trama e d’averla resa più universale. Eliminò tutti i riferimenti al Pink trentaseienne, dato che ai teenager sarebbe sembrata un’età troppo avanzata con cui identificarsi. Ma soprattutto ad Ezrin riuscì di convincere i Pink Floyd a far pubblicare almeno un singolo, venendo meno alla tradizione storica della band (l’ultimo singolo inglese dei nostri, infatti, risaliva al 1968): fu così che la trascinante Another Brick In The Wall, Part 2 (unita al B-side One Of My Turns) divenne un istantaneo numero uno in classifica, nella seconda metà del novembre ’79, poche settimane prima della pubblicazione ufficiale di “The Wall”. Ci occuperemo da vicino di questo magnifico doppio elleppì… appuntamento al post successivo.

– Matteo Aceto

Strontium 90: fra i Gong e i Police

strontium-90-the-police-sting-gongStoria curiosa questa degli Strontium 90… certo il nome sembra un po’ ridicolo a noi italiani, per via dell’assonanza fonetica con un celeberrimo & strabusato insulto, ma tant’è.

Siamo nel 1977, c’è un nuovo trio musicale che sta autoproducendosi un singolo di debutto, si chiama The Police ed è composto dai seguenti tipi: Stewart Copeland (batteria, seconda voce e praticamente chitarra, poi capiremo perché…), Sting (voce solista e basso), Henri Padovani (apparentemente chitarra, poi capiremo perché…). Strano assembramento, nell’ordine, uno statunitense, un inglese e un corso. C’è un secondo strano assembramento in giro, la band anglofrancese dei Gong, che in quel periodo sta andando in frantumi. Il bassista di questi, Mike Howlett, vuole però dar vita ad una nuova band e per questo recluta alcune conoscenze: Copeland e Sting dei Police, più un chitarrista inglese da poco tornato in patria, dopo un periodo con gli Eric Burdon’s New Animals, un tale Andy Summers.

La nuova band adotta quindi il nome di Strontium 90 ed inizia a comporre e provare delle nuove canzoni; esegue dei concerti in giro per l’Inghilterra; suscita un minimo interesse discografico da parte di qualche etichetta; cambia nome in The Elevators; ma poi il tutto si ferma perché le etichette si fanno indietro e la parola d’ordine è ‘punk’. Ma la breve esperienza degli Strontium 90 sarà comunque fondamentale per i Police… di lì a poco il povero Padovani verrà fatto fuori in quanto incapace di suonare realmente ed il suo posto sarà preso proprio da Summers. Di lì a poco il rinnovato trio dei Police (Copeland, Sting e Summers) si conquisterà un posto strameritato nella storia del rock, debuttando con l’album “Outlandos d’Amour” (1978).

E quel materiale inciso dagli Strontium 90? Rimane ufficialmente inedito fino al 1997, quando viene selezionato per una bella ed interessantissima compilation pubblicata con l’appropriato titolo di “Police Academy”. Il disco contiene nove brani, tre dei quali in forma live, e si rivela essere un piacevole ibrido tra jazz, pop e rabbia punk. E’ bello perché Sting canta in tutti i brani, tranne un paio affidato a Mike Howlett, ma soprattutto rappresenta una straordinaria testimonianza dei Police che verranno: “Police Academy” include, infatti, una fantastica versione lenta di Every Little Thing She Does Is Magic (una hit storica dei Police, riproposta in tutt’altra forma nel 1981), una precedente versione di Visions Of The Night (brano che verrà rieseguito per un B-side del 1980) e 3 O’Clock Shot il cui testo e parte della melodia preannunciano una futura canzone di “Synchronicity” (1983), ovvero O My God. Insomma, un lato poco conosciuto ma affascinante della straordinaria carriera di Sting e dei Police. – Matteo Aceto

Un personale ritratto di Jim Morrison

Oggi ho finito di leggere la biografia di Jim Morrison scritta dal giornalista americano Stephen Davis. E’ un lavoro ben documentato e molto coinvolgente, quasi seicento pagine che ho letto in un soffio.

Desideravo conoscere la storia di Jim Morrison per due motivi principali: la musica dei Doors mi
piace sempre più e quindi volevo semplicemente saperne di più, e poi avevo un dubbio che covavo da almeno dieci anni… ma il ritratto che Oliver Stone ne ha fatto nel suo film del 1991 era reale?

Perché Stone ci mostra un Morrison (interpretato dal comunque bravissimo Val Kilmer) più coglione che artista: è sempre fuori di testa, sembra un perfetto idiota più che una grande rockstar. Anche perché la musica che i Doors hanno inciso durante la loro breve carriera discografica è molto professionale, abbastanza raffinata tecnicamente (soprattutto il lavoro alla batteria di John Densmore)… fuori di testa fino ad un certo punto, in studio bisognava adottare professionalità & precisione e Jim Morrison mi sembra molto partecipe nei suoi dischi.

E invece Stephen Davis conferma Oliver Stone: Jim era davvero un dissolutone, uno sballone, uno che ci andava pesantissimo con l’alcol e che, in quanto a droghe, le ha provate un po’ tutte. Tuttavia non era un coglione, questo decisamente no: era un artista in tutti i sensi, uno che se ne sbatteva alla grande delle regole e della disciplina… anche del buon gusto, se vogliamo. Ci sono numerose ombre sull’infanzia di Jim, nato l’8 dicembre 1943: fino a che punto essa è stata felice? Pare che abbia subìto degli abusi sessuali da bambino… e comunque è stato sempre restìo a parlare dei suoi genitori e della sua famiglia in generale.

La sua passione principale è stata (e sarà fino alla fine) la poesia: pare che Jim leggesse tantissimo, che divorasse i libri dei poeti maledetti francesi, ma anche di filosofi e psicologi. Oltre che di romanzi. Insomma, leggeva con avidità un po’ di tutto. Durante la sua vita ha pubblicato, sia privatamente che pubblicamente, diversi volumi con i suoi scritti… quelli che al momento mi ricordo sono “The Lords” e “The Creatures”. Per quanto Jim amasse la vita e se la godesse alla grande (faceva un sacco di baldoria con i suoi amici, se la spassava con un sacco di donne… pare anche con gli uomini, beveva & fumava & si drogava tantissimo), nei suoi lavori si riflette sempre una certa angoscia, una certa caducità della vita che è sempre imminente. In uno dei brani più famosi e notevoli dei Doors, quella Roadhouse Blues che conoscerete tutti, Morrison grida chiaramente che ‘il futuro è incerto e la fine è sempre vicina’.

Un’altra passione di Jim Morrison fu il cinema, tanto che studiò cinematografia e si diplomò all’UCLA di Los Angeles, la città che più di tutte amò e che contraddistingue il suo lavoro. In realtà lui nacque nella costa opposta, in Florida, da una famiglia di origini scozzesi. La storia raccontata da Davis è davvero imponente per mole e molto appassionante: la consiglio a chiunque voglia saperne di più, non solo sul mito di Morrison, ma anche sul lavoro in studio dei Doors.

E così il gruppo realizzò un demo nel corso dell’estate ’65, un demo dal quale sarebbero state tratte le canzoni per i primi due album, ovvero “The Doors” e “Strange Days”, pubblicati entrambi nel ’67. In quel demo, tuttavia, c’erano anche versioni primordiali di brani apparsi successivamente, come Hello I Love You e Indian Summer. Dal 1967 al 1970, inoltre, i Doors eseguivano un brano che non fu mai inserito ufficialmente negli album da studio, The Celebration Of The Lizard, una sorta di poema-catarsi in musica. Il lungo brano, che poteva durare dai dieci ai sessanta (!) minuti a seconda dei concerti, del periodo e dall’indole lunatica degli stessi Doors, sarebbe dovuto comparire sul terzo album dei Doors ma, alla fine, rimase inedito (comparirà però nelle edizioni postume, ufficiali e non).

Nel libro di Davis ho letto quella che per me, appassionatissimo & fissatissimo dei Beatles, è
un’autentica chicca: approfittando di una serie di concerti dei Doors, nel 1968, in Inghilterra, Jim fece visita ai quattro negli studi Abbey Road, probabilmente su invito di George Harrison. Pare addirittura che Jim partecipi ai cori di una versione di Happiness Is A Warm Gun poi rimasta in archivio. Un’altra cosa che mi ha molto colpito è che in una serie di interviste tra il 1969 e il ’70, Jim preannunciò la nascita del punk e della techno: Jim era evidentemente avanti sul suo tempo, e aveva chiara in testa l’evoluzione e la fruizione della musica contemporanea.

Approcciandomi alla lettura, nutrivo molta curiosità per il periodo parigino di Jim Morrison: il leader dei Doors si trasferì a Parigi nel febbraio 1971, restandoci fino al 3 luglio, giorno della sua morte per cause tuttora ignote. Sembra molto probabile, comunque, che Jim morì per un’overdose di eroina: non se la sparava in vena, come faceva la sua compagna ‘ufficiale’,
Pamela Courson (che di overdose morirà tre anni dopo, sconvolta, pare, dai sensi di colpa), se la fumava mentre, al tempo stesso, continuava a darci sotto con l’alcol. Insomma, Jim Morrison era ben avviato, almeno fin dal 1968, sulla strada per l’autodistruzione.

Il corpo di Jim venne tumulato qualche giorno dopo nel celebre cimitero Père-Lachaise di Parigi: al funerale parteciparono in pochi (ci fu il manager dei Doors ma curiosamente nessuno dei componenti della band) e la sua tomba è tuttora una delle mete più visitate della capitale francese. Jim lasciò un testamento dove cedeva tutti i suoi beni a Pamela; alla morte di lei, tuttavia, il tutto passò ai genitori della ragazza, i coniugi Courson. Nel corso degli anni, la famiglia Morrison si è vista riconoscere una grossa fetta della lucrosa torta (dopo varie cause legali) ma i Courson hanno comunque un certo controllo artistico sull’opera morrisoniana.

Ebbene sì, la vicenda umana e artistica di James Douglas Morrison è appassionante, ricca di fascino, di musica, di poesia, di eccessi e di mistero. Il tutto, che ci piaccia o no, ne ha fatto un mito di questi tempi [– Matteo Aceto

The Cult, “Love”, 1985

the-cult-love-immagine-pubblica-blog“Love” è l’album che mi ha fatto scoprire i Cult, una tosta band inglese della quale mi sto appassionando sempre di più negli ultimi mesi. Al momento ho soltanto questo disco ma credo che in breve tempo la mia collezione si arricchirà di altri titoli dei Cult. Ora però passiamo alla recensione di “Love”, pubblicato nel novembre del 1985 e comunemente inteso come l’album più celebre dei nostri.

Un breve e sommesso conteggio fino a quattro, scandìto da quattro colpi con le bacchette della batteria, e poi tutta la forza dei Cult prorompe dalle casse dello stereo. Inizia così la trascinante Nirvana, una decisa & pulsante canzone rock che già da sola merita l’acquisto di questo fantastico album! Segue Big Neon Glitter, con quel ritmo costruito attorno alla batteria di Mark Brzezicki che sembra fatto apposta per dare la possibilità al cantante Ian Astbury di liberare tutta la sua bellissima voce. Nella successiva Love, invece, la chitarra di Billy Duffy (l’autore insieme ad Astbury di tutti i brani del disco) la fa da padrona… e che padrona! Viscerale, tosta, avvolgente, mentre le sezione ritmica procede implacabile e Astbury canta come se stesse rendendo l’anima al demonio.
Le acque si placano con Brother Wolf, Sister Moon, un maestoso lento d’atmosfera che si apre con ben tre chitarre differenti (sono tutte suonate dal bravissimo Duffy) e procede in un crescendo emotivo liberato dal suono della pioggia che arriva. E arriva davvero con Rain, forse il pezzo più famoso dei Cult: brano nel quale tutta la strumentazione è in bell’evidenza, compreso il basso di Jamie Stewart che forse era rimasto un po’ in ombra nei brani precedenti, anche se è quel geniale riff di chitarra a sostenere il tutto. Il finale di Rain è incandescente, la sensazione generale è inebriante, Ian canta con intensità e padronanza, tutto è perfetto in questo perfetto brano rock.
Phoenix sembra un brano dei Jimi Hendrix Experience in chiave heavy: la chitarra di Duffy è tormentata e viscerale, anzi le chitarre sono due, sovrapposte e con effetti diversi. Roba tosta. La successiva Hollow Man è invece simile nella struttura all’iniziale Nirvana ma se la musica è più dolce, il testo è più teso. Poi è la volta della rilassata Revolution, il classico brano rock da sentire mentre si guida al tramonto, magari pensando che da qualche parte stia accadendo una liberatoria rivoluzione. Il trascinante rock (vagamente orientaleggiante) di She Sells Sanctuary è l’unico tra i brani di “Love” ad avvalersi del batterista originale dei Cult, Nigel Preston. All’epoca, Preston era troppo fuori per i suoi eccessi con le droghe e così, dopo aver pubblicato She Sells Sanctuary come primo singolo in maggio, la band continuò il lavoro in studio rimpiazzandolo col versatile batterista dei Big Country, il già citato Brzezicki. Infine, alla struggente ballata celtica di Black Angel viene affidato il compito di concludere quello che secondo me resta uno dei dischi migliori usciti negli anni Ottanta.

Una raccomandazione finale: ascoltare “Love” con lo stereo, possibilmente un buon impianto, possibilmente sparandolo a tutto volume. Questo non è un facile dischetto da ascoltarsi con le misere cuffiette di walkman, lettori mp3 o affini, ma un lavoro potente che si merita due generose casse acustiche.

John Lennon

john-lennonSessantasei anni fa a Liverpool, Gran Bretagna, nasceva John Lennon, l’uomo che con Paul McCartney ha ridefinito i confini della musica contemporanea.

Il più tormentato tra i quattro Beatles, il piccolo John crebbe con la zia Mimi dopo la separazione dei suoi genitori e, soprattutto, dopo la morte della madre Julia, un dramma che John si porterà dentro per sempre. Già da scolaro John Lennon dimostra il suo temperamento ribelle e votato all’arte ma è dall’incontro nel 1957 con Paul McCartney che la vita di John comincia a tingersi di leggenda. Passano solo sei anni e i Beatles già conquistano la Gran Bretagna: nel 1964 diventano popolarissimi anche negli USA e quindi in tutto il mondo. La beatlemania terminerà attivamente nel 1970, quando John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr decidono di prendere strade separate, anche se la beatlemania è una febbre che continua tuttora e che, molto probabilmente, durerà finché ci sarà musica in questo mondo.

Un anno saliente nella vita di John è il 1967, quando incontra l’artista giapponese Yoko Ono: la donna diventerà la seconda signora Lennon due anni dopo (la prima fu Cynthia, sposata nel 1962, la quale gli diede il figlio Julian) e, di fatto, cambierà inesorabilmente il corso della sua vita.

John Lennon pubblicherà con la Ono tre album sperimentali tra il 1968 e il ’69, ma è nel 1970, dopo l’ultimo album dei Beatles, “Let It Be”, che esce il primo vero album solista del nostro, ovvero un capolavoro chiamato “John Lennon/Plastic Ono Band”, al quale peraltro partecipa Ringo alla batteria. L’anno dopo è la volta dello straordinario album “Imagine”, la cui title-track è forse la canzone più amata al mondo. In quel periodo le convinzioni politiche di John e Yoko si radicalizzano in senso attivo verso ideali di giustizia e uguaglianza: da qui prenderà corpo l’album “Some Time In New York City” (1972) mentre i coniugi Lennon si trasferiscono definitivamente a New York.

John Lennon sarà molto attivo nel biennio 1973-75: pubblicherà tre album solisti, “Mind Games” (1973), “Walls And Bridges” (1974), “Rock & Roll” (1975) più la raccolta “Shaved Fish” (1975), parteciperà attivamente a due album di Ringo Starr, “Ringo” (1973) e “Goodnight Vienna” (1974), ad uno di Harry Nilsson, “Pussy Cats” (1974), contribuirà ad alcuni dischi di Elton John e David Bowie.

Il nostro, dopo un anno di separazione dalla Ono, avrà anche modo di riavvicinarsi a Paul ma, nel 1975, i coniugi Lennon si riuniscono mettendo momentaneamente la parola fine all’attività artistica di John: in quell’anno Yoko gli darà il secondo figlio, Sean, un bambino del quale John sarà disposto ad occuparsi pienamente rinunciando alle luci dello show-business. E così, dopo aver scritto un brano per l’album di Starr del 1976, “Ringo’s Rotogravure”, John Lennon si ritira dalle scene.

Nel corso del 1980 la prolificità artistica di John riprende vita: inizia a scrivere materiale valido per due album più alcune nuove canzoni per il successivo album di Ringo. A novembre esce “Double Fantasy”, un disco dove si alternano canzoni di John a quelle di Yoko ma tutti i progetti di John Lennon (compresa una probabile reunion dei Beatles) sono spazzati dalla follia di un fan squilibrato, la sera dell’8 dicembre.

Per me la morte di John Lennon rappresenta, insieme con quelle di Bob Marley e Freddie Mercury, le più gravi perdite per l’evoluzione della musica contemporanea. Non oso nemmeno immaginare come sarebbe stata la musica nel periodo 1981-2005, con questi tre grandi & amati artisti ancora protagonisti delle scene. – Matteo Aceto