Julien Temple, “Joe Strummer – The Future Is Unwritten”, 2007

joe-strummer-film-clash-immagine-pubblicaMiracolosamente, il docufilm di Julien Temple su Joe Strummer, “The Future Is Unwritten”, è arrivato anche in una sala cinematografica abruzzese, precisamente al Massimo di Pescara. La proiezione si è tenuta ieri sera e… non me la sono fatta scappare!

Antonella & io arriviamo per tempo, alle ventiettrenta, di fronte ad un botteghino già molto affollato: un quantitativo di gente che non mi aspettavo di trovare ma che mi ha fatto molto piacere di vedere. Quando entriamo in sala riusciamo per fortuna a trovare due comodi posti nelle file centrali ma entro le ventuno, ora d’inizio della proiezione, la sala è già piena.

Il docufilm di Temple parte già alla grande, con la storica ripresa (in bianco & nero) di Joe che registra la sua voce solista sulla base strumentale – che in quel momento ascolta solo lui, in cuffia – di White Riot, il primo singolo dei Clash. Poi entra prepotentemente & selvaggiamente il resto della musica, con le immagini che stavolta passano al cortile di casa Mellor (il vero cognome del nostro) dove troviamo il piccolo Joe a giocare col fratellino maggiore David. Queste immagini iniziali sono fra le poche che mi hanno veramente emozionato: non avevo mai visto quelle sequenze amatoriali (a colori) del giovane Strummer, così come le foto e le immagini dei suoi genitori. Tutto il film scorre cronologicamente, dall’origine nella middle-class inglese alla resurrezione artistica del nostro con la sua ultima band, The Mescaleros, passando per gli anni in collegio, il periodo da squatter a Londra, l’esplosione del fenomeno punk, il suo passaggio dagli 101ers ai Clash, l’epopea di questi ultimi, gli anni di smarrimento nella seconda metà degli Ottanta.

Una storia complessa & affascinante, narrata oltre che dalle stesse parole di Joe (prese dalle sue interviste radio e/o televisive) anche da quelle persone – musicisti o tizi comuni – che più sono state in contatto con lui, fra cui: i tre ex Clash Mick Jones (in ottima forma & a suo agio), Topper Headon e Keith Levene (ma non clamorosamente Paul Simonon, chissà perché…), Tymon Dogg, Steve Jones dei Sex Pistols, Don Letts, Courtney Love, amici d’infanzia e compagni hippy e/o squatter, le sue due mogli – Gaby e Luce – più una serie d’interventi di gente che a mio avviso c’entra ben poco, come quel ruffianone onnipresente di Bono Vox. Che cavolo c’entra Bono con Joe Strummer?! Altri interventi ci mostrano invece gli attori Matt Dillon, Steve Buscemi e Johnny Depp e il regista Martin Scorsese.

E’ molto bello che la maggior parte di questi interventi si svolga attorno ad un falò sulla spiaggia, come piaceva fare a Joe per ritrovarsi e confrontarsi con gli amici più cari. Uno dei pochi che non appare di fronte al caldo scoppiettare delle fiamme è Mick Jones, che parla del suo rapporto artistico e umano con Strummer dal grattacielo in cui viveva da solo con la nonna, nella seconda metà degli anni Settanta. Grande Mick, da sempre il mio Clash preferito! Anche il manager-mentore dei Clash, il controverso Bernie Rhodes, dice la sua, col suo classico taglio polemico & aggressivo, anche se i suoi interventi sono soltanto vocali (credo telefonici), su alcune immagini di repertorio.

“The Future Is Unwritten” è quindi un ottimo documento per conoscere la vita privata & artistica di Joe Strummer, non manca nessun aspetto: il dolore per la perdita del fratello David, gli anni giovanili errabondi, la storia dei Clash ovviamente, le colonne sonore realizzate per il cinema (come “Walker”), le parti che Joe ha recitato per lo stesso cinema (come “Mystery Train” di Jim Jarmusch, che anch’egli contribuisce coi suoi ricordi attorno al falò), i suoi programmi radiofonici condotti per la BBC a cavallo fra gli anni Novanta e Duemila (spesso come colonna sonora abbiamo proprio i pezzi che Joe sceglieva, introducendoli con la sua inconfondibile voce), fino alla sua esibizione coi Mescaleros nell’autunno del 2002, per supportare la causa dei pompieri in sciopero, un’esibizione che vide anche la partecipazione (a sorpresa) di Mick Jones per un paio di pezzi dei Clash. Altre sequenze davvero emozionanti!

A parte clamorose assenze – una su tutte, come detto, Paul Simonon, ma anche i produttori Mikey Dread (peraltro morto pochi giorni fa…) e Bill Price, nonché Martin Slattery dei Mescaleros – l’unico grande punto debole che ho trovato in “The Future Is Unwritten” è la sua verbosità. Una valanga di parole, da quelle dei già numerosi ospiti attorno al falò a quelle dello stesso Joe, con la musica che quasi sempre resta un mero sottofondo. Una valanga di informazioni che danno sì un profilo abbastanza completo di Joe Strummer ma che risultano eccessivamente compresse in due ore di visione. Insomma, va pure bene la prima volta che vediamo il film, ma le altre volte? Dov’è la musica? C’è da dire che, almeno nei titoli, essa è abbastanza rappresentativa dei vari periodi artistici di Joe: ascoltiamo quindi (anche se per pochi secondi ognuna) Keys To Your Heart dei 101ers, White Riot, London Calling, Magnificent Seven, Rock The Casbah e altri classici dei Clash, estratti dalle colonne sonore di “Walker”, “Permanent Record” e “When Pigs Had Flies” (non sono sicuro che quest’ultimo titolo sia esatto, la musica resta tuttora inedita), Tony Adams , Johnny Appleseed e Willesden To Cricklewood dei Mescaleros. Insomma, i titoli non mancano ma li si ascolta veramente per pochi secondi, quasi sempre come sottofondo alle parole.

Altri aspetti che ho gradito poco – e dei quali francamente non ho visto l’utilità – sono stati gli inserti di sequenze tratte dal bel cartone animato de “La fattoria degli animali” e del film “1984”, entrambi presi dalle notevoli opere letterarie omonime di George Orwell. Potrebbero anche fare scena ma per me sono inutili.

In definitiva, penso che “The Future Is Unwritten” sia un ottimo racconto per chi vuole conoscere Joe Strummer sapendone veramente poco, o per chi volesse avere una guida visuale della sua carriera. Ma per chi conosce già la storia di Joe e consuma da anni album quali “London Calling” e “Sandinista!” questo film rappresenta solo un simpatico & gradito diversivo. A tratti pure un po’ noioso. – Matteo Aceto

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Queen, “Hot Space”, 1982

queen-hot-space-immagine-pubblicaMolto probabilmente “Hot Space” è l’album più controverso e detestato dai fan storici dei Queen. Il motivo? E’ un lavoro pesantemente contaminato da ritmi elettronici, a discapito dei toni ben più rock ai quali i Queen del precedente periodo 1973-81 avevano abituato gli appassionati.

Ad essere sinceri, “Hot Space” non è affatto un disco malvagio – rappresentò comunque un successo commerciale, piazzandosi al 4° posto della classifica inglese – anzi credo che chi più ammira lo stile del Freddie Mercury solista lo troverà molto gradevole. A me è sempre piaciuto. Certo, paragonandolo ai precedenti “Jazz” (1978) e “The Game” (1980) o ai successivi “The Works” (1984) e “A Kind Of Magic” (1986), questo “Hot Space” suona decisamente come un lavoro minore, ma non per le sue qualità intrinseche quanto piuttosto per essere un disco di transizione, una estremizzazione d’un sound che i Queen avevano iniziato a sperimentare già con Fun It, funkeggiante brano tratto proprio da “Jazz”. Nel 1980 i Queen propongono Another One Bites The Dust ed è un successo strepitoso, facendone in poco tempo uno dei brani più rappresentativi dei nostri. Ovvio che i Queen, e soprattutto Mercury, volessero riprovarci con l’album in programma per il 1982.

In realtà il primo singolo tratto dall’album, quella magnifica collaborazione fra i nostri e David Bowie che è Under Pressure, uscì a fine 1981, ed era tutto fuorché un pezzo elettronico o disco o funky che dir si voglia. Bowie cantò alcune parti anche in un altro pezzo, Cool Cat, ma poi quella versione venne rapidamente sostituita con una versione ‘solo-Queen’ dopo poche centinaia di stampe di “Hot Space” (pubblicato in Inghilterra a maggio).

Il primo singolo che fece intuire i contenuti del nuovo album dei Queen fu invece Body Language (edito nell’aprile ’82), brano puramente mercuryano nel quale non mi sembra d’avvertire molto la mano del gruppo: insomma, la chitarra di Brian May non si sente per niente (giusto qualche tocco nel finale), la batteria di Roger Taylor è stata sostituita da una ritmica pre-programmata, così come il basso di John Deacon, che sembra piuttosto una sequenza sintetizzata di note. Un pezzo marcatamente dance, Body Language, dal testo disimpegnato (canta le gioie del sesso…) e dalla struttura circolare e ripetitiva. La voce di Freddie è – serve dirlo? – da paura ma ammetto che anch’io, la prima volta che ho sentito il pezzo, nell’ormai lontano 1992, sono rimasto perplesso. Oggi come oggi Body Language mi sembra un interessante diversivo all’interno d’un canzoniere, quello dei Queen, che continuo a ritenere uno dei più imponenti mai registrato da una band inglese.

Prodotto dagli stessi Queen col tedesco Mack (ecco quindi spiegata l’origine delle ritmiche più squadrate e implacabili che il sound dei nostri assume fra il 1979 e il 1985) fra studi svizzeri di proprietà dei Queen e studi tedeschi di proprietà di Giorgio Moroder, “Hot Space” è un lavoro che in realtà riserva diverse sorprese all’ascoltatore smaliziato: vediamo brevemente gli episodi di questo album – undici in tutto – uno dopo l’altro nella sequenza originale.

1) Con l’iniziale Staying Power (scritta da Mercury) i Queen fanno intendere fin da subito che rotta hanno deciso di seguire con questo album: ritmiche funky, suoni sintetici e preprogrammati, uso della chitarra ridotto all’osso, uso del basso più in funzione melodica che ritmica, testi festaioli. L’unica cosa che non muta è la possente voce di Freddie, in un brano divertente che si avvale d’una calda sezione fiati prodotta e arrangiata dal celebre Arif Mardin.

2) Dancer è un altro disimpegnato brano funky, dove almeno si avverte un lontano suono Queen nel bell’assolo di Brian. Può essere rassicurante o scioccante sapere che l’autore di questo brano è proprio il capelluto chitarrista…

3) Back Chat, edito anche su singolo, è uno dei miei brani preferiti in questo album: scritto da John Deacon, associa un testo intelligente (critico verso le distorsioni gossippare della stampa) ad una grandiosa base di sintetico pop-rock. Mi è sempre piaciuta molto Back Chat, e non mi vergogno ad includerla fra le canzoni più interessanti mai proposte dai Queen.

4-5) Di Body Language ci siamo già occupati, per cui passiamo alla successiva Action This Day, canzone marcatamente ritmica e non a caso scritta dal batterista Taylor. E’ una sorta di marcia veloce, danzereccia ma nemmeno troppo: mi sembra una fusione fra più generi che tutto sommato non mi dispiace.

6) Put Out The Fire è stata scritta da Brian May e si sente! Questo non è solo il pezzo più rock presente in “Hot Space” ma è anche uno dei pezzi più rock dei Queen. Davvero un ottimo brano, dove i nostri sembrano tornare al sound a loro più congeniale, con un Mercury in forma strepitosa e alle prese con un testo che sembra aver a che fare con le cause sociali che hanno portato all’omicidio di John Lennon.

7-8) Ancora John Lennon, e stavolta in forma esplicita, nella successiva Life Is Real che in realtà è una delle canzoni più personali mai scritte dal suo autore, Freddie Mercury. E’ una stupenda ballata che ho sempre considerato fra le migliori cose mai messe su nastro dai Queen. Al contrario, Calling All Girls è forse una delle cinque canzoni più insulse e inutili del gruppo… dico solo che è stata scritta da Roger Taylor. Che se ne vergogni!

9) La delicata ballata dal titolo & dal coro in spagnolo, Las Palabras De Amor (anch’essa edita su singolo), non è cattiva ma resta pesantemente condizionata dal suo arrangiamento elettronico. Una sezione musicale alla Save Me, che so, ne avrebbe potenziato tantissimo la resa sonora.

10) Cool Cat è un altro interessante capitolo nella storia discografica dei Queen: un delizioso funk in tempo medio dove i due autori, Deacon e Mercury, ci offrono una grande prestazione rispettivamente al basso (con tanto di slap) e alla voce (qui altissima, in un falsetto incredibile).

11) Eccoci infine alla suprema Under Pressure, storica collaborazione fra i Queen e David Bowie nata dopo una jam session notturna del tutto casuale. Qui ognuno dei cinque protagonisti dà il meglio di sè: celeberrima parte di basso di Deacon, ottimo supporto batteristico di Taylor, puntuali ed efficaci parti chitarristiche di May, per non dire del magnifico duetto vocale fra Mercury e Bowie. Ecco, penso proprio che Under Pressure sia una delle più belle canzoni mai pubblicate!

E tutto questo non basterebbe a rendere “Hot Space” un gran disco? Non dico un capolavoro, questo non l’ho mai pensato, ma nel 1982 quanti altri dischi potevano vantare una tale inventiva sonora e un simile coraggio nel rimettersi in discussione? Ben pochi… e il “Thriller” di Michael Jackson non era ancora uscito. – Matteo Aceto

Bob Marley & The Wailers, “Exodus”, 1977

bob-marley-exodus-the-wailersSe Bob Marley è (stato) il più grande artista reggae e “Exodus” è ritenuto il suo album più bello & importante, allora potremmo dire che “Exodus” è il più grande album reggae mai pubblicato. Un disco uscito oltre trentanni fa, eppure sempre attuale, freschissimo, divertente da ascoltare per quanto riguarda la musica, illuminante per quanto riguarda la parte testuale delle dieci canzoni incluse. Un altro capolavoro, che Dio benedica la buona musica!

Il genere di “Exodus” è ovviamente il reggae, dieci perle raggae dal tempo medio (alcune più lente in un cullante saltellare, altre più veloci in una morbida danza), mentre la maggior parte dei testi è intrisa di critica sociale e di spiritualità rastafari. Non mancano appassionate canzoni d’amore, alcune delle quali davvero romantiche; su tutto spiccano comunque toni ottimistici di speranza nel futuro.

“Exodus”, scritto da Bob Marley ma suonato e prodotto coi fidi Wailers – qui formati da Junior Marvin, Aston Barrett, Carlton Barrett, Tyrone Downie, Alvin Patterson e le I Threes (le coriste, fra le quali la moglie del nostro, Rita Marley) – è stato registrato nella nativa Giamaica e a Londra fra il gennaio e l’aprile del ’77.

Belle e coinvolgenti tutte le canzoni di “Exodus”, dai reggae dolenti di Natural Mystic e Guiltiness alla irresistibile coralità di The Heathen e So Much Things To Say, passando per la celeberrima Jamming, uno dei brani più famosi del buon Bob. Le canzoni che più preferisco sono però la rilassata & rilassante Waiting In Vain, che col suo cullante ritmo resta da anni una gioia per le mie orecchie, Turn Your Lights Down Low, una romantica ballata in chiave giamaicana dalla grande atmosfera (bel testo, ottima musica… penso che questa sia una delle canzoni d’amore più belle mai pubblicate), la superottimistica Three Little Birds, che resta una delle creature marleyane più deliziose (il ritornello è inoltre semplicissimo… non preoccuparti di nulla, perché ogni piccola cosa andrà a posto. Un po’ troppo ottimistica, forse, ma in tempi cinici & disperati come questi una canzone come Three Little Birds resta una refrigerante goccia di pura innocenza & speranza) ma soprattutto l’omonima Exodus, forse il pezzo più imponente nel catalogo di Bob Marley: sette minuti e quaranta secondi di travolgente reggae/funk dove tutto è perfetto (testo, arrangiamento, strumentazione, voce solista, cori & controcanti, produzione, effetti sonori, mix…) & assolutamente coinvolgente. Exodus è un’epica marcia reggae la cui sola presenza giustificherebbe l’acquisto dell’album omonimo.

Note a parte per la conclusiva One Love/People Get Ready, una canzone che per me rappresenta un mistero: accreditata a Bob per quanto riguarda One Love e a Curtis Mayfield per quanto riguarda la sua celebre People Get Ready; solo che in questa versione di “Exodus” non c’è traccia della melodia mayfildiana… se qualcuno conoscesse la storia di questo pezzo sarebbe una graditissima aggiunta fra gli eventuali commenti.

Nel 2001 tutto il catalogo storico di Bob Marley e dei Wailers è stato ristampato con ogni album arricchito da brani aggiunti: in questo caso abbiamo le due lunghe canzoni che componevano rispettivamente le facciate A e B del singolo in 12″ di Jamming. Si tratta della versione estesa – e abbastanza remixata – della stessa Jamming e della danzereccia Punky Reggae Party, sorta di benedizione di Marley nei confronti del nascente (all’epoca) movimento punk inglese, tanto da citare direttamente nel testo band quali The Damned, The Jam e The Clash. Prodotta dal celebre Lee Perry (che ha lavorato anche per gli stessi Clash), Punky Reggae Party non è molto in linea col contenuto originale di “Exodus” ma è pur sempre un bel reggae.

Nel 2007 infine, per celebrare i trentanni di questo disco, è stata stampata una versione in formato earbook di “Exodus”: si tratta d’un bel librone delle dimensioni d’un elleppì con incluso l’album originale in ciddì. Non conosco il contenuto di questo progetto editorialdiscografico (infatti viene venduto anche nelle librerie) ma penso che sia un lavoro ben fatto e che merita l’acquisto da parte del fan più accanito.

Col tempo ho avuto modo d’ascoltarmi tutti gli album da studio di Bob Marley e devo dire che questo “Exodus” resta sempre il mio preferito, l’unico dal quale non mi separerei mai. – Matteo Aceto

Prince, “Sign ‘O’ The Times”, 1987

prince-sign-o-the-times-immagine-pubblicaFra i migliori album di Prince, fra i migliori dischi pubblicati negli anni Ottanta, fra i migliori lavori ascrivibili all’esaltante campo della musica nera… insomma, un capolavoro! Sto parlando di “Sign ‘O’ The Times”, nono album da studio del folletto di Minneapolis, uno di quegli album dai quali non potrei mai separarmi e che nel classico & un po’ idiota giochino dell’isola deserta mi porterei senz’altro appresso, assieme a una mole notevole di materiale beatlesiano e poco altro.

Pubblicato dalla Warner Bros nella primavera del 1987, “Sign ‘O’ The Times” vide nuovamente Prince proporsi come artista solista, dopo la parentesi di grosso successo riscossa dalla società Prince & The Revolution, quella degli album “Purple Rain” (1984), “Around The World In A Day” (1985) e “Parade” (1986). In realtà le cose nel 1986 non erano andate troppo bene per il nostro: l’album “Parade” era stato sì un successo – soprattutto grazie al noto singolo di Kiss – ma non il film del quale l’album era la colonna sonora, “Under A Cherry Moon”, che si rivelò il primo grande flop di Prince. Anche per questo motivo, la Warner non era disposta a pubblicare un triplo album al principio dell’87, un lavoro sperimentale dal titolo di “Crystal Ball”: e allora il folletto tagliò e ricucì il triplo album fino a farlo diventare un doppio, che prese quindi il nome di “Sign ‘O’ The Times”. Un po’ complicato? Beh, ma lo è la stessa vicenda artistica di Prince, tanto che alcuni suoi progetti irrealizzati sono diventati per giunta celebri.

Ciò che conta, tornando al tema di questo post, è che “Sign ‘O’ The Times” riportò in alto le quotazioni del nostro, anzi forse non raggiunsero mai una tale pressoché perfetta sintonia di riscontri fra gli acquirenti di dischi e i critici musicali. Ora però, dopo questi brevi cenni storici, passiamo all’aspetto più importante, la musica: abbiamo nove brani nel primo disco e sette nel secondo, per un totale di sedici canzoni piuttosto funky (Hot Thing, It, Forever In My Life, If I Was Your Girlfriend), dall’arrangiamento alquanto scarno e quasi tutte eseguite dal solo Prince. Non mancano canzoni più elaborate, di tutt’altro genere, che s’avvalgono dei preziosi collaboratori che incidevano col nostro in quegli anni: il sassofonista Eric Leeds, il trombettista Atlanta Bliss, la percussionista e vocalist Sheila E., il chitarrista Miko Weaver, il conduttore d’orchestra Claire Fischer, ma anche le stesse Wendy Melvoin e Lisa Coleman dei Revolution, di lì a poco in duo come Wendy & Lisa. Il brano più famoso è senzaltro l’omonima Sign ‘O’ The Times, non solo una delle canzoni più celebri di Prince ma anche una delle sue migliori: su una secca ma irresistibile base funk – preprogrammata elettronicamente – il nostro canta con voce impassibile un crudo testo metropolitano che introduce al grande pubblico anche l’emergente (per quegli anni) tema dell’AIDS. Una canzone Sign ‘O’ The Times che ci mostra un artista maturo, impegnato e in splendida forma artistico-espressiva (giustamente, il brano è stato scelto come singolo apripista, sebbene in una versione più corta). Altri brani degni di nota sono Play In The Sunshine, scanzonato brano rockabilly (genere non atipico nella produzione princiana), il sublime soul-funk di The Ballad Of Dorothy Parker, la stravaganza pop di Starfish And Coffee, la lenta e melodica Slow Love, il trascinante pop-rock di I Could Never Take The Place Of Your Man (pubblicata su singolo in una versione molto più breve), lo spiritual blueseggiante di The Cross e la splendida ballata soul di Adore (anch’essa editata su singolo). Discorso a parte per la lunga e divertente It’s Gonna Be A Beautiful Night, basata su un pezzo registrato dal vivo a Parigi assieme ai Revolution e ad alcuni dei partner musicali del nostro in quegli anni (la sexy Jill Jones, il simpatico Jerome Benton, la brava Sheila E.).

Altro discorso a parte per quattro canzoni qui incluse e provenienti da un altro progetto scartato, “Camille”, un album di otto pezzi funk dove la voce di Prince veniva accelerata per somigliare a quella di una donna: abbiamo quindi la festaiola Housequake, accattivante fusione fra sonorità rap e funky, la calda e coinvolgente U Got The Look (altro singolo), che è una collaborazione fra Prince e una delle sue tante protette, la bella scozzese Sheena Easton, il lento ma sofisticato funk di If I Was Your Girlfriend (altro singolo) e la saltellante & danzereccia Strange Relationship, tutte fra le più interessanti canzoni mai proposte dal nostro.

Ultime due parole per la già citata Adore, la splendida e romantica soul-ballad che chiude l’album: oltre ad offrirci un saggio della grande versatilità vocale di Prince (durante il pezzo passa con gran disinvoltura dal suo caratteristico falsetto a timbri più bassi), pare che a suonarvi la tromba non sia il buon Atlanta Bliss bensì il leggendario Miles Davis. In effetti il noto musicista jazz viene ringraziato nelle note di copertina come ‘Miles D.’ e in quel periodo i due artisti si erano incontrati più volte progettando di collaborare a del materiale inedito.

Per concludere, “Sign ‘O’ The Times” è un album che – insieme a “Purple Rain”, “The Black Album”, “Lovesexy” e “Love Symbol” – reputo indispensabile per capire & apprezzare appieno l’arte di Prince. Resta comunque un doppio album godibilissimo di musica nera, che non scontenterà per nulla gli amanti del genere. – Matteo Aceto