Richard Ashcroft, “These People”, 2016

richard ashcroft these peopleOltre al peppersiano “The Getaway” del quale si è già parlato nel post precedente, c’è un secondo ciddì fresco di stampa che sono andato a comprarmi negli ultimi giorni: “These People”, l’album che segna il ritorno di Richard Ashcroft dopo ben sei anni d’assenza discografica (un’eternità per l’effimero universo del pop, a pensarci bene). Dico subito che, per quanto io abbia sempre apprezzato Ashcroft, sia da solista che come leader dei Verve, “These People” non è un lavoro che mi abbia esaltato.

Non che sia un brutto disco, tutt’altro, ma semplicemente manca di organicità: alcune canzoni, dall’arrangiamento insolitamente virato verso l’elettronica (come l’iniziale Out Of My Body e il singolo Hold On), sembrano non c’entrare un bel nulla con quelle più vicine al classico sound ashcroftiano (come These People, come They Don’t Own Me o Picture Of You, ad esempio), come se il nostro non fosse stato in grado di capire bene quale direzione prendere, se cioè tentare una nuova strada o continuare a restare sé stesso.

E così, ascoltando sequenzialmente le dieci canzoni di “These People”, si ha quasi la sensazione d’imbattersi in inediti risalenti al tempo di “Keys To The World” (2006) – se non addirittura di “Urban Hymns” (1997), quando Ashcroft guidava quella che forse era la band più interessante emersa dal cosiddetto Britpop, i Verve per l’appunto – intervallati qua e là da canzoni ben più elettroniche che francamente si addicono poco allo stile del nostro.

Stile che  resta sempre riconoscibilissimo, fosse solo per quella voce così peculiare (che a me ha sempre ricordato un po’ quella di John Lennon), che fa sì che i dischi di Richard Ashcroft risultino sempre gradevoli a chi questo stile lo (ha sempre) apprezza(to). Può in definitiva una canzone come They Don’t Own Me, l’unica che mi piaccia davvero (almeno finora), giustificare l’acquisto di un album come “These People”? Evidentemente no, ma è pur vero che una canzone come They Don’t Own Me non esce tutti i giorni e non si trova in altri dischi. Grazie Richard, comunque. -Matteo Aceto

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Red Hot Chili Peppers, “The Getaway”, 2016

red hot chili peppers the getawayOscure necessità mi hanno portato nelle ultime settimane ad ascoltare ripetitivamente e ossessivamente Dark Necessities, l’ultimo singolo dei Red Hot Chili Peppers, apripista dell’album “The Getaway”, fresco fresco d’uscita. Un’uscita che ho subito fatto mia, pur non essendo mai stato un fan dei Red Hot Chili Peppers. Sarà un caso ma ogni dieci anni, evidentemente, sento il bisogno d’andarmi a comprare il disco che i nostri hanno pubblicato al momento: nel 2006, a pochi giorni dall’uscita, andai infatti a prendermi “Stadium Arcadium”, così come l’altro ieri sono andato a procurarmi la mia bella copia di “The Getaway”.

Tra questi due album, usciti come s’è detto a un decennio esatto di distanza, le differenze sono notevoli: in quest’arco temporale i Red Hot Chili Peppers non solo hanno perso (di nuovo) il chitarrista John Frusciante ma hanno smesso anche di collaborare con quello che può essere considerato il loro produttore storico, Rick Rubin. Al loro posto troviamo, rispettivamente, Josh Klinghoffer (che mi sembra decisamente meno bravo di Frusciante) e Danger Mouse (che mi sembra decisamente più interessante di Rubin). Il risultato è un disco ben fatto, uno di quelli che probabilmente migliorano con gli ascolti, distante dalla produzione “classica” dei Red Hot Chili Peppers ma al tempo stesso inconfondibilmente peppersiano. Voglio dire, la voce di Anthony Kiedis e il basso di Flea, gli unici elementi sempre presenti in tutti gli album dal debutto ad oggi, sono due marchi di fabbrica riconoscibilissimi, per cui le eventuali varianti di volta in volta in gioco sono influenti fino a un certo punto.

E così in “The Getaway” i Red Hot Chili Peppers si sono dilettati a contaminare il loro caratteristico sound fatto di rock (a volte tendente all’hard) e funk con sonorità vicine al melodico, al soul, al reggae e all’elettronica. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, penso proprio che Danger Mouse abbia detto parecchio la sua, finendo con l’essere di fatto il quinto componente della band: la sua elettronica dal tocco morbido e saltellante, seppur sempre un po’ robotico (come non ricordare quel successone dei Gnarls Barkley chiamato Crazy?), è evidentissima in tutto l’album. L’iniziale The Getaway ha proprio questo taglio, ed è irresistibile fin dalle prime note; le segue la mia favorita, Dark Necessities, con quel suo basso carnoso, il ritornello d’ampio respiro e i coretti soul. La successiva We Turn Red ha un incedere pesante e minaccioso che mi ricorda un po’ i Public Image Ltd, tuttavia nei ritornelli si assiste a un totale cambio d’atmosfera, innegabilmente peppersiana.

“The Getaway” procede quindi con la contemplativa The Longest Wave, con la pulsante Goodbye Angels (che mi ricorda le sonorità del disco dei The Good, The Bad & The Queen, anch’essi prodotti a loro tempo da Danger Mouse), col soft rock di Sick Love (dove figura nientemeno che Elton John, seppure il suo contributo – al piano – non sembra così evidente in questa che è comunque una rivisitazione della sua Benny And The Jets) e con il coinvolgente elettrofunk di Go Robot, candidato a prossimo singolo.

E se i successivi Feasting On The Flowers, Detroit e This Ticonderoga sono tre brani in cui via via l’uso della chitarra si fa più pesante, ricollegandosi in qualche modo al sound più “abituale” dei nostri, la sognante Encore sembra provenire quasi da un’altra band, non soltanto per la sua melodicità ma anche per i suoi accenti reggae. Chiude il tutto il soul un po’ psichedelico di The Hunter, seguito infine dalla bluesy Dreams Of A Samurai, anch’essa vagamente psichedelica, lasciando forse intravedere una strada futura per quanto riguarda il sound dei nostri.

Ora, volendo chiudere con qualche considerazione finale, posso dire che “The Getaway” è un disco sicuramente interessante, a tratti decisamente bello, e comunque consistente, che si lascia ascoltare con piacere dalla prima all’ultima canzone. Potrà spiazzare molti fan storici, potrà conquistarne di nuovi o farne riavvicinare quelli mentalmente più aperti, ma sono certo che “The Getaway” non lascerà indifferente nessuno. Insomma, se assumendo Danger Mouse alla produzione i Red Hot Chili Peppers volevano stupire, con questo disco ci sono riusciti benissimo. Bella anche la copertina, dimenticavo! – Matteo Aceto

The Smashing Pumpkins, “Mellon Collie And The Infinite Sadness”, 1995

Smashing Pumpkins Mellon CollieProbabilmente, alla generazione prima della mia, il nome The Smashing Pumpkins non dirà molto, così come quasi sicuramente, alla generazione successiva alla mia, quello stesso nome risulterà pressoché sconosciuto. Gli Smashing Pumpkins sono stati infatti un fenomeno generazionale, segnando indelebilmente la colonna sonora di chi come me negli anni Novanta era un adolescente, o comunque un ragazzo sotto ai trent’anni.

Non sono mai stato un fan della band di Billy Corgan, tuttavia conoscevo diverse persone tra amici e compagni di classe che amavano questi Smashing Pumpkins. Per quelli della mia generazione, di fatto, era impossibile ignorarli: avevamo un po’ tutti almeno un fratello o una sorella o un cugino o un amico o un compagno di classe o un vicino di casa che andava pazzo per gli Smashing Pumpkins. Inoltre, per quelli come me che compravano regolarmente riviste musicali quali “Tutto – Musica e Spettacolo” o anche “Rockstar” era praticamente impossibile non imbattersi in articoli (spesso elogiativi) riguardanti questi tizi di Chicago. Piacessero o no, chi seguiva con interesse la musica negli anni Novanta sapeva benissimo chi fossero gli Smashing Pumpkins e che avessero fatto almeno un disco che aveva segnato indelebilmente quel confuso decennio: “Mellon Collie And The Infinite Sadness”.

Pubblicato nell’autunno ’95 sotto forma di monumentale doppio ciddì con la bellezza di ventotto canzoni, “Mellon Collie And The Infinite Sadness” acquisì subito lo status di capolavoro del rock, tant’è vero che tuttora fa bella mostra di sé nella prestigiosa (?)  lista dei 500 dischi più importanti di sempre censiti dal magazine Rolling Stone. Tanto clamore e tutti questi elogi mi portarono a un passo dall’acquisto del disco; tuttavia, all’epoca, un ciddì costava trentacinquemila lire, mentre un doppio poteva arrivare anche a settantamila. Ora non ricordo che “Mellon Collie” costasse tutti quei soldi, ma certamente – trattandosi d’un doppio – superava le cinquantamila lire, un cifra davvero molto alta per uno studentello delle superiori com’ero io a quel tempo. Passai la mano e, di fatto, persi la curiosità per gli Smashing Pumpkins; tornai ad interessarmene più concretamente nel 1998, quando la band tornò con l’album “Adore”, anticipato dal singolo Ava Adore (di cui andai subito a comprarmene una copia). Era però un altro sound, era già un’altra epoca e si trattava inoltre di un’altra band.

Se infatti “Mellon Collie And The Infinite Sadness” consacrò gli Smashing Pumpkins, al tempo stesso ne rappresentò anche quell’apogeo dopo del quale c’è l’inevitabile discesa. Finiti gli anni Novanta, insomma, ed erano finiti gli stessi Smashing Pumpkins: problemi di ego, i soliti problemi di droga (ci scappò pure un morto), defezioni e cambi di sonorità sancirono il definitivo declino della band. Band che provò a risollevarsi nel decennio successivo con nuovi dischi e nuove formazioni, senza tuttavia convincere nessuno. Questa però è un’altra storia, ed io mi sto dilungando fin troppo.

Ho comprato per la prima volta la mia bella copia di “Mellon Collie” soltanto nel 2015, giusto venti anni dopo quella prima sensazionale pubblicazione nel bel mezzo degli anni Novanta. E’ un album che, lo ammetto, non sono mai riuscito ad ascoltare per intero, cioè dalla prima alla ventottesima traccia: di solito sento il primo disco, e qualche giorno dopo vado a sentirmi anche l’altro. Non saprei dire se sia un album buono o cattivo, se sia bello o brutto, se mi piaccia oppure no; so soltanto dire che “Mellon Collie And The Infinite Sadness” rappresenta per me un disco irresistibile, contenente almeno tre canzoni – Tonight, Tonight e To Forgive e Galapogos – che ascolterei dalla mattina alla sera. Il resto dei brani, scritti quasi tutti dal solo Corgan, è un mix non sempre riuscito di dure escursioni rock e di curiosi ibridi pop. Un ascolto complessivo che mi lascia sempre meravigliato e dubbioso in egual misura. Sono stati dei grandi oppure no, questi Smashing Pumpkins? E questo che resta il loro manifesto artistico è un capolavoro di disco oppure no? L’ardua sentenza la lascio ai posteri. – Matteo Aceto