LP, “Lost On You”, 2016

lp-lost-on-you-immagine-pubblica-blogFino a pochi giorni fa non sapevo assolutamente nulla di Laura Pergolizzi, una cantante italoamericana che si fa chiamare semplicemente con le iniziali del suo nome, LP. Non sapevo che era lei l’autrice e l’interprete di due canzoni che ascolto da un po’ di tempo in radio, Lost On You e Other People, due canzoni che ho trovato subito belle e decisamente superiori a tutto il resto che la radio mi ha fatto sentire in questo 2016 oramai alla fine.

E così, se l’altro ieri ho casualmente saputo che Lost On You e Other People sono dovute alla stessa artista, e che quella artista si chiama LP, ieri ho addirittura comprato tutto l’album della cantante, che si chiama proprio “Lost On You” e che è distribuito dalla Sony. Premetto subito che, una volta programmato il mio lettore ciddì sulle tracce 3 e 6, vale a dire Lost On You e Other People, ho ascoltato a ripetizione continua le due canzoni in questione. E in effetti non mi sbagliavo, mi suonano proprio come le cose (nuove) più belle che io abbia mai ascoltato quest’anno.

Con quel suo ritmo morbidamente saltellante, a metà tra un reggae e un country, Lost On You è decisamente irresistibile, e per una volta capisco l’ossessione con la quale è stata trasmessa in radio da un po’ di mesi a questa parte. Comunque non saprei dire se è migliore di Other People, leggermente più propulsiva ma più ammaliante e con un fascino retro che, di fatto, la rivela già come un potenziale evergreen. Insomma, nel complesso, gli otto minuti & mezzo di queste due canzoni bastano da soli a giustificarmi l’acquisto dell’album, un album questo “Lost On You” che comunque comprende altri otto brani, tutti inequivocabilmente pop ma tutti piacevolmente contaminati – chi più chi meno – da soul, gospel ed elettrowave anni Ottanta. Brani non sempre uniformi (e forse è un bene) ma che sono se non altro accomunati dalla piacevole voce di LP, potente e fragile a un tempo, e da una certa coralità ed epicità nelle melodie.

Mi è davvero piaciuto questo “Lost On You”, è proprio brava la nostra LP, così come penso che abbia fatto un buon lavoro anche il produttore esecutivo dell’album, un certo Mike Del Rio del quale ammetto candidamente di non aver mai sentito parlare prima. Brava Laura, spero proprio che non si tratti di una meteora. Non se lo meriterebbe. – Matteo Aceto

Pubblicità

Pink Floyd, “Wish You Were Here”, 1975

pink-floyd-wish-you-were-hereEdito su Parliamo di Musica il 16 maggio 2007, ripubblicato il 21 febbraio successivo quando il blog si chiamava già Immagine Pubblica e infine revisionato il 19 settembre 2008, il post che segue narra d’un disco che mi affascina da molto tempo prima, diciamo pure da quel giorno dell’estate 1992 in cui l’ascolto della copia in ciddì che mi aveva prestato lo zio paterno mi fece restare a bocca aperta per la sorpresa ma anche per lo smarrimento. Non avevo mai ascoltato nulla di simile!

Sofisticato, cervellotico, malinconico, eppure sognante e decisamente indimenticabile, “Wish You Were Here” è l’album dei Pink Floyd che più amo. Formato da soli cinque lunghi brani, è il disco che segna lo spartiacque nella storia dei nostri, ponendosi a metà tra tutto ciò che aveva portato al successo planetario di “Dark Side Of The Moon” del 1973 e i controversi anni dominati dalla figura di Roger Waters, che seguiranno con l’album “Animals” del 1977 fino all’abbandono del gruppo da parte dello stesso, nel 1985.

“Wish You Were Here” comincia subito alla grande, con quello che è in assoluto uno dei brani migliori dei Pink Floyd, Shine On You Crazy Diamond: dura tredici minuti & mezzo eppure me ne basterebbero anche i primi quattro, cioè tutta quella parte strumentale che sembra accompagnare le fasi d’un allunaggio e dove i magnifici strati di tastiere di Richard Wright fanno da sfondo al malinconico ma brillante assolo di chitarra di David Gilmour. Ecco, mi bastano questi quattro minuti di musica per classificare questo disco come uno dei più belli che io abbia mai ascoltato. Shine On You Crazy Diamond procede però in tutto il suo splendore, passando per altri due memorabili assoli di chitarra, una toccante parte cantata da Waters e due assoli di sax suonati da Dick Parry in rapida successione.

Il tutto sfuma nell’inquietante introduzione del brano successivo, Welcome To The Machine, dove un pulsante rumore di macchine industriali ci dà il benvenuto ad una canzone tanto triste quanto bella, lunga oltre sette minuti e cantata da Gilmour. Lo strumento maggiormente in rilievo è il sintetizzatore (e qui bisogna dar atto ai Pink Floyd di essere fra i precursori della musica elettronica), accompagnato dal fantastico arpeggio di due chitarre all’unisono. Infine, un rumore di portelli che si chiudono e un elevatore che ci conduce rapido al piano superiore, dove i portelli si aprono nel bel mezzo d’una festa.

Con Have A Cigar siamo invece alle prese con un robusto rock-blues, il cui testo è una stoccata al mondo del music business. In Have A Cigar è riposta tutta la disillusione di Waters (è lui, il bassista, a scrivere i testi di questo disco) verso i lustrini dello star-system, un tema che verrà ulteriormente approfondito negli album successivi del gruppo, “Animals” (1977) e soprattutto “The Wall” (1979). Da segnalare la bella prova vocale di Roy Harper, mentre nel 2011 è stata distribuita anche un’inedita versione del pezzo in cui Harper si alterna al microfono con lo stesso Waters.

Una volta passato il momento di rabbia e sarcasmo, subentra così la struggente nostalgia di Wish You Were Here, una superlativa ballata che di sicuro è una delle canzoni pop rock più conosciute e amate di sempre. Da antologia le due chitarre – una arpeggiata e suonata come se stesse provenendo da una radio, e una impegnata col dolce assolo – che si incrociano nella parte iniziale del brano, prima che entri la voce solista di Gilmour, alle prese con un testo assai poetico e carico d’immagini memorabili (un testo che in verità meriterebbe un post tutto suo).

La sognante melodia di Wish You Were Here svanisce infine nel vento, sostituita dalla tetra prima parte della ripresa di Shine On You Crazy Diamond. Lunga dodici minuti & mezzo, tale ripresa esplora le possibilità sonore introdotte dal brano iniziale, con un intermezzo rock più veloce (prima comunque della parte cantata, sempre ad opera di Waters) e una successiva sequenza decisamente blues, il tutto sorretto dall’ottima batteria di Nick Mason. Il lungo finale, che inizia a tre minuti e venti dal termine del brano, è un dolente blues condotto dalla tastiera di Wright.

Con tutta la sua tematica dell’assenza (non solo quella di Syd Barrett, il “crazy diamond” del brano in questione, ma anche l’assenza di umanità – o di anima, se si preferisce – nei rapporti interpersonali), assenza simboleggiata anche nelle suggestive immagini realizzate da Storm Thorgerson per la grafica dell’album, “Wish You Were Here” è uno dei dischi più belli di sempre. E forse è anche il più bel disco dei Pink Floyd.

-Matteo Aceto

L’ultimo Natale di George Michael

Ieri notte, prima di andare a letto, come faccio di consueto, ho dato un’ultima sbirciatina al canale televisivo allnews. La prima notizia che vedo è quella che per ultima avrei immaginato di leggere, soprattutto nel giorno di Natale: è morto George Michael.

Mentre mi apprestavo a scrivere questo post (che è inutile, lo so, ma proprio non riuscivo a far finta di niente), volevo mettere in sottofondo un suo disco ma mi sono accorto con una certa sorpresa di non avere proprio niente di lui. Tanti anni fa avevo una copia in ciddì di “The Final”, la prima raccolta dei Wham!, edita in quello stesso 1986 nel quale George Michael aveva dato il definitivo addio artistico ad Andrew Ridgeley per mettersi in proprio con un singolo come A Different Corner e un album come “Faith”, edito l’anno dopo. Lui che in proprio aveva già fatto tutti gli hit storici dei Wham!, pezzi che conoscono anche i sassi, come Wake Me Up Before You Go-Go, Club Tropicana, The Edge Of Heaven e soprattutto quella Last Christmas che oggi, più che mai, assume un sapore amaro, pensando a questo ultimo Natale vissuto da George Michael. Tristezza che si somma alla tristezza.

Non m’è mai piaciuto granché George Michael da solista, perché secondo me le cose migliori le aveva fatte proprio con i Wham!, in quella spensierata prima metà degli anni Ottanta, quando uscì anche il suo primo singolo a suo nome, quella Careless Whisper che forse forse è proprio la canzone più bella uscita in quel decennio controverso. Eppure aveva una voce fantastica, probabilmente la migliore della sua generazione, l’unica voce che sia riuscita a “rifare” quella di Freddie Mercury in una strepitosa versione live di Somebody To Live eseguita con gli stessi Queen orfani di Freddie. In quei primi anni Novanta si era fantasticato d’un suo possibile passaggio proprio in seno ai Queen, a occupare il posto di quel cantante scomparso poco prima e che era uno dei suoi riconosciuti punti di riferimento musicali.

Ipotesi suggestiva, ma George ha avuto il buon gusto di non provarci. Anche perché in quegli anni il nostro aveva ben altro per la testa. In primo luogo un lungo braccio di ferro con la Sony, la casa discografica madre che l’aveva acquisito all’alba degli anni Ottanta con un contratto capestro che, di fatto, lo costrinse ad anni di silenzio discografico davvero lunghi per una pop star. Diversi personaggi dello spettacolo, se non ricordo male anche un certo Steven Spielberg, accorsero in suo aiuto, finché nel 1996 non ci fu la rinascita artistica con la Virgin e l’album “Older”, grande successo di quell’anno, così come il singolo apripista Jesus To A Child. In secondo luogo c’era l’omosessualità da rivelare al mondo intero, cosa che avrebbe scioccato il suo pubblico e anche l’opinione pubblica mondiale, dato che George Michael era visto (e giustamente) come un figaccione che sicuramente (credevamo tutti noi con una certa invidia) andava a letto con una donna diversa ogni sera.

Certo i tempi erano cambiati, la seconda metà degli anni Novanta non era certo la prima metà degli anni Ottanta: se l’avesse rivelato allora, la sua omosessualità, George Michael avrebbe visto la sua carriera fatta a pezzi per sempre. Eppure ha saputo gestire il tutto con grande intelligenza, anche dopo quel famoso “incidente” nel bagno d’una discoteca di non so più quale posto in America. Una canzone (e forse anche di più il suo video) come Outside mise subito le cose nella giusta prospettiva e la carriera del nostro poté procedere con ancora più autorevolezza.

Poi, per quanto mi riguarda, quelle canzoni che George Michael continuò a proporre tra la fine degli anni Novanta fino ai tempi più recenti non riuscivano proprio a interessarmi. Quella grandissima voce alle prese con quelle canzonette danzerecce che soltanto una come Madonna non si vergogna di propinare! Mah, vabbè, contento lui, pensavo.

Ed ora eccomi qui, in un mondo senza George Michael, così come la mia collezione di dischi è senza i suoi album. Che posso dire… che mi dispiace sinceramente.

-Matteo Aceto

Miles Davis, “Bitches Brew”, 1970

miles-davis-bitches-brew-immagine-pubblicaRiconosciuto dai critici, dagli studiosi e dai semplici appassionati come uno dei lavori più importanti e innovativi nella sterminata discografia di Miles Davis, “Bitches Brew” è l’album del celebre trombettista statunitense che più mi ha affascinato. Ne ho tre differenti edizioni, tanto per dire.

Originariamente pubblicato come doppio vinile nel 1970, “Bitches Brew” appartiene al cosiddetto periodo elettrico di Miles Davis, quando cioè, verso il 1967, il nostro iniziò ad avvalersi in studio e dal vivo di soli strumenti amplificati elettricamente. Proseguendo poi sulla strada tracciata dal bellissimo “In A Silent Way” (1969), Miles Davis diventa l’esponente più in vista di quel sottogenere di jazz chiamato fusion. Ora, ci sarebbe da dire che tali etichette hanno dato vita ad innumerevoli controversie: che cosa s’intende per fusion? La fusione, per l’appunto, tra jazz e rock? Siamo sicuri che Miles amasse il rock? Siamo sicuri che il rock sia una forma d’arte musicale superiore? E poi, alla luce di dischi davisiani come “In A Silent Way”, “Bitches Brew” e “On The Corner” (1972), ha ancora senso parlare di jazz? E che cosa s’intende propriamente per jazz?

Non voglio dilungarmi ulteriormente su queste annose questioni che, per quanto mi riguarda, lasciano il tempo che trovano. M’importa davvero poco delle etichette, così come del parere dei critici. Mi interessano molto di più le considerazioni storiche, e la storia ci dice che dopo cinquant’anni stiamo ancora ascoltando “Bitches Brew”, nonostante tutto. Ed è solo a proposito di questo, dell’album in quanto tale, che m’interessa scambiare opinioni coi lettori di questo modesto blog.

Registrato negli studi della Columbia di New York in soli tre giorni dell’agosto ’69, “Bitches Brew” esce quindi nell’aprile seguente, dopo che il produttore di quelle magnifiche sedute, Teo Macero, termina tutto il lavoro di editing creativo che i sei nuovi brani necessitavano, distribuendoli infine nelle quattro facciate d’un bel doppio vinile. Un lavoro imponente, “Bitches Brew”, che all’epoca diventa il pezzo più venduto del catalogo davisiano e che tuttavia alcuni critici sottovalutano: Miles ha infatti trovato una formula sonora che travalica gli angusti confini del jazz per addentrarsi in territori sonori poco sperimentati, spiazzando praticamente tutti.

Le lunghe composizioni presenti in “Bitches Brew” ci offrono una musica calda, pulsante e pastosa, irresistibilmente funky e contaminatissima, spesso eseguita con tre tastiere, due batterie, due bassi e vari effetti postproduttivi di loop e cambi d’atmosfera. E’ un tipo di musica, questa, che mi ha colpito fin da subito, grazie a brani dalla resa – sia sonora che atmosferica – fantastica quali l’iniziale Pharaoh’s Dance (che coi suoi 20 minuti & passa riempie da solo una prima facciata di vinile), la stessa Bitches Brew (anch’essa, coi suoi quasi 27 minuti, riempie un’intera facciata), Spanish Key, John McLaughlin (che prende il nome dal noto chitarrista, presente nelle sedute), Miles Runs The Voodoo Down e la conclusiva Sanctuary, quest’ultima più lenta e meditabonda.

Imponente anche la schiera di collaboratori che Miles portò con sé in studio, grossi calibri, come sempre accadeva in quegli anni, tra cui Wayne Shorter (sax soprano e autore di Sanctuary), Bennie Maupin (clarinetto basso), Joe Zawinul (piano elettrico, nonché autore di Pharaoh’s Dance), Larry Young (piano elettrico), Chick Corea (piano elettrico), il già citato John McLaughlin (chitarra), Dave Holland (basso), Harvey Brooks (basso elettrico), Lenny White (batteria), Jack DeJohnette (batteria), Don Alias (batteria, conga).

Sul finire degli anni Novanta, la Columbia ha ristampato gli album di Davis con bei libretti illustrativi e brani aggiunti per ogni titolo: in questo caso abbiamo come settimo numero in programma Feio, un’atmosferica e misteriosa composizione di Shorter registrata il 28 gennaio 1970 negli stessi studi e rimasta inedita. Lunga quasi 12 minuti, Feio figura più o meno gli stessi musicisti citati sopra, ma con la partecipazione del celebre batterista Billy Cobham e del percussionista Airto Moreira. Per i più fanatici (come il sottoscritto) è stata invece approntata un’edizione in cofanetto da quattro ciddì intitolata “The Complete Bitches Brew Sessions”, contenente i sette brani visti finora più tutta una serie d’interessanti registrazioni effettuate fra gli ultimi mesi del ’69 e i primi del ’70.

Per quelli ancora più esaltati (come il sottoscritto, of course), nel 2010 alla Sony hanno pensato bene di distribuire una “super deluxe edition” in occasione del quarantennale di “Bitches Brew” contenente una ristampa in doppio vinile ad imitazione dell’originale del 1970, quattro ciddì contenenti – oltre alle inevitabili ripetizioni di quanto già visto sopra – anche qualche inedito dell’epoca e un gustoso live del ’70, oltre che tutta una serie di inserti editoriali che sono pur sempre meglio delle sciarpe, delle spille e delle sottocoppe che negli ultimi anni hanno ridicolmente accompagnato alcune delle ristampe più illustri dei dischi pop e rock.

Comunque lo si voglia prendere, e qui concludo nonostante io non abbia speso una sola parola tanto per la sua copertina quanto per tutto l’artwork in generale (mi piacerebbe dedicare un post ad hoc sull’argomento “copertine di dischi”, un giorno o l’altro) “Bitches Brew” resta un indiscutibile capolavoro nella vasta discografia di Miles Davis, un album monumentale che non smette di colpire e incantare.

-Matteo Aceto (maggio 2008 – dicembre 2016)

Miles Davis, “Kind Of Blue”, 1959

miles-davis-kind-of-blue-immagine-pubblicaOriginariamente pubblicato il 28 maggio 2009, questo post è più una goffa raccolta di considerazioni personali che una recensione vera e propria. Che poi, lasciatemelo dire: ma che cosa avrà da aggiungere un post su Immagine Pubblica, scritto da un emerito sconosciuto come il sottoscritto, a proposito di un’autentica pietra miliare della musica come “Kind Of Blue”, il classico fra i classici dell’immensa discografia di Miles Davis?

Su questo disco sono state scritte pagine e pagine dai più illustri critici musicali del mondo, se non dei veri e propri libri, come quello di Ashley Khan, uno di quei libroni sul jazz che prima o poi – continuo a ripetermi ormai da troppo tempo – dovrò comprare e quindi leggere & rileggere. Un disco, questo “Kind Of Blue”, che è stato ristampato innumerevoli volte negli ultimi cinquantotto anni (compreso un bel cofanettone, nel 2008, con tanto di vinile, ciddì & divuddì… ovviamente presente nella mia collezione) e che si può trovare praticamente dappertutto, non solo nei negozi di dischi, ma anche nei centri commerciali e nelle edicole, passando per le stazioni di servizio in autostrada.

Per questo e per tanti altri motivi, mi limiterò – ora come in quel post del 2009 – a delle semplici considerazioni sull’album originale del ’59, un vero disco coi controcazzi, come direbbe lo stesso Miles Davis in quel linguaggio colorito che gli era tanto caro, suonato da un gruppo coi controcazzi: i sassofonisti John Coltrane e Cannonball Adderley, i pianisti Bill Evans e Wynton Kelly, il bassista Paul Chambers e il batterista Jimmy Cobb. E poi in “Kind Of Blue” c’è ovviamente Miles, con la sua magica tromba ma anche con tutto il suo carisma di bandleader, qui alle prese con la massima espressione del jazz modale, vale a dire un tipo di jazz acustico (l’elettrico sarebbe arrivato per Davis solo sul finire degli anni Sessanta) che, in base a semplici schemi predefiniti sulla carta, lasciava grande spazio alla libera espressione e all’improvvisazione dei musicisti.

In effetti i cinque brani di “Kind Of Blue” – l’esaltante So What (contenente quella che forse resta l’introduzione più bella di sempre in un album jazz), il brioso Freddie Freeloader, il romantico Blue In Green, l’africaneggiante All Blues e il suggestivo Flamenco Sketches – mettono meravigliosamente in luce la sensibilità artistica & la bravura tecnica d’ogni singolo musicista, in un equilibrio di gruppo che definirei pressoché perfetto. E’ un miracolo questo “Kind Of Blue”, e concordo pienamente con chi disse e/o scrisse che dev’essere stato fatto in paradiso.

Registrato negli studi newyorkesi della Columbia in sole due sessioni fra il marzo & l’aprile 1959 e prodotto da Irving Townsend, “Kind Of Blue” è un’autentica pietra miliare non solo del jazz ma soprattutto della musica in generale. Per Miles Davis fu una sorta di fatidico spartiacque: la musica che incise prima di “Kind Of Blue” fu una cosa, la musica che incise dopo fu tutt’altro. Anche la mia esperienza di ascoltatore può essere riassunta in un prima e un dopo “Kind Of Blue”, lo credereste?

-Matteo Aceto

Il mio Miles Davis

miles-davisNell’acquistare ogni disco che suscitava il mio interesse non ho badato (quasi mai) a spese. Contrariamente all’opinione comune, sborsare una ventina di euro per un ciddì non mi sembra una follia, come se l’edizione fresca di stampa d’un qualsiasi libro non ci alleggerisse di altrettanti soldini (e nonostante un’IVA decisamente più bassa). Eppure, chissà perché, non sento nessuno lamentarsi del caro-libri, se non a settembre, nei confronti dei libri di testo scolastici. Per me è una follia spendere 600 euro per un telefono, ecco il punto, senza parlare di chi spende allegramente 30mila euro per il più fesso degli status symbol: l’automobile.

Qualche follia, però, l’ho fatta anch’io, in particolare per i dischi di Miles Davis, probabilmente l’artista per cui ho speso più soldi. “Colpa” anche di quelle magnifiche edizioni Sony uscite tra il 1996 e il 2007, quei cofanetti da quattro, cinque, sei o addirittura sette ciddì con la rilegatura laterale in metallo che li tiene a mo’ di libro. Io non mai ho saputo resistere e, nel giro di pochi anni, sono andato a comprarmeli tutti, questi cofanetti deluxe, comprese le ristampe “economiche” riproposte di recente con le sole custodie cartacee. Dannata Sony, hai stampato e ristampato di tutto, bastava che recasse il nome Miles Davis sopra! E io ci sono cascato in pieno, facendo la gioia dei vostri geni del marketing! Ma me ne sono pentito? NO.

Anche la Warner Bros, che ha avuto Miles Davis sotto contratto nei suoi ultimi cinque anni di vita (1986-1991), ci è andata giù abbastanza pesantemente. Mi pubblica un costoso cofanetto da 20 (venti!) ciddì contenente tutte le sue esibizioni al Montreux Jazz Festival? Ebbene, io sono andato a comprarmelo! E le incisioni Blue Note? Le Capitol? Le Prestige? Tutte, prese tutte! La mia debolezza sentimentale, tuttavia, è per le etichette di proprietà della Sony, ovvero quelle che coprono gli anni d’incisione 1955-1985, un trentennio tondo tondo di musica straordinaria che, per quanto mi riguarda, rappresenta la più bella avventura musicale del secondo dopoguerra, seconda forse a quella dei Beatles.

Ecco, volevo scrivere un post più biografico su Miles Davis, in questo 2016 che segna il novantesimo anniversario della nascita e il venticinquesimo della morte, e non scrivendo dei dischi. Almeno non ora. Però, a ben vedere, i dischi sono l’unica cosa che posso vantare a proposito dell’universo di Miles Davis giacché, per questioni anagrafiche, ho iniziato a interessarmi all’arte e alla figura del celeberrimo trombettista soltanto molti anni dopo la sua morte.

A breve mi piacerebbe ripubblicare quanto scritto sulle precedenti incarnazioni di questo modesto blog; i miei “archivi segreti” contengono cinque post originariamente pubblicati tra il maggio 2008 e il maggio 2009, più l’abbozzo d’un sesto. Con le dovute revisioni, vorrei riproporli qui nelle settimane prossime, non perché particolarmente memorabili ma perché forse non saprei fare di meglio. Sarà inoltre un’occasione per lasciarmi ispirare nello scrivere qualche nuovo post. Ad ogni modo, mi riserverò una “milesdavizzazione” di Immagine Pubblica che forse ho rinviato anche troppo, un po’ come la “freddiemercuryzzazione” degli scorsi mesi. Tra un post e l’altro, come sempre, avremo comunque modo di parlare d’altro.

-Mat

The Beach Boys, “Pet Sounds”, 1966

LP_OUT-P1_output.pdfApparso sul blog Parliamo di Musica il 15 dicembre 2006, rivisto e quindi ripubblicato il 23 novembre 2007, il post che segue è la terza versione d’un mio scritto che considero più un insieme d’appunti che una recensione in senso stretto. Mi riferisco, ad ogni modo, a “Pet Sounds”, il capolavoro dei Beach Boys, uno di quei dischi per me imprescindibili, che la scorsa estate ha compiuto la bellezza di cinquanta anni.

Ritenuto una pietra miliare nella storia della musica moderna, “Pet Sounds” è uno dei pochissimi dischi (se non l’unico) degli anni Sessanta a mostrare un’inventiva pari al “Sgt. Pepper” dei Beatles. E’ proprio col mitico quartetto inglese che in quegli anni gli americani Beach Boys ingaggiano una cordiale competizione: entrambi i gruppi stanno tentando di realizzare il disco più straordinario che creatività & tecnologia permettessero di concepire in studio. Iniziano i Beatles con “Rubber Soul” (1965), rispondono i Beach Boys con “Pet Sounds” (1966), replicano i Beatles con “Revolver” (1966) e, mentre i Beach Boys stanno per replicare a loro volta, i Fab Four se ne escono con “Sgt. Pepper” (1967). Per Brian Wilson, cervello creativo nonché produttore e direttore musicale dei Beach Boys, è il tracollo definitivo. Pare che, dopo aver gettato alle ortiche l’album “Smile“, depresso, abbia passato a letto i due anni successivi, mentre il resto della band è comunque andato avanti senza di lui. Ma questa è già un’altra storia.

Adesso parliamo d’un disco, “Pet Sounds” per l’appunto, che indipendentemente dai paragoni coi capolavori beatlesiani è davvero uno degli album più belli mai prodotti. Un album che vanta una ricchezza sonora tuttora stupefacente: orchestre, organi, pianoforti, fisarmoniche, vibrafoni, chitarre, fiati d’ogni tipo, percussioni assortite e, come nello stile di questa band, un intreccio sopraffino tra voci soliste e cori. Quelle di “Pet Sounds”, insomma, suonano sì come delle canzoni inconfondibilmente pop ma sono registrate in maniera tanto originale da porsi in una categoria a sé. La prima volta che ho ascoltato l’album, nel 2001 se non ricordo male, ho sì avvertito di essere alle prese con un lavoro inciso molti anni prima ma, al tempo stesso, mi sono reso conto di non aver mai sentito niente del genere e che questa musica è un eccellente diversivo al sound contemporaneo. E’ davvero in una categoria a sé, in una dimensione temporale dove il concetto di “anni Sessanta”, coi relativi annessi & connessi, conta proprio poco.

the-beach-boys-the-pet-sounds-sessions-cofanetto-1996Col tempo mi sono così appassionato a “Pet Sounds” che sono andato a procurarmi un cofanetto da quattro ciddì che agognavo in realtà da anni: “The Pet Sounds Sessions”, pubblicato dalla Capitol/EMI nel 1996 per celebrare i trent’anni dell’album originale. All’epoca non lo sapevo ma quel cofanetto faceva debuttare la prima vera edizione stereo di “Pet Sounds”, opportunamente remasterizzata con la stessa supervisione di Brian Wilson. Nel box è infatti compreso, in un ciddì a parte, l’album originale così come era stato inizialmente distribuito, ovvero in mono, mentre gli altri tre dischi figurano tutte le canzoni “rielaborate” in stereofonia e tutta una serie di provini e versioni alternative – in quel ’96 era un materiale decisamente raro, se non del tutto inedito – delle tredici canzoni originali dell’album.

Prima in programma è la gradevolissima Wouldn’t It Be Nice, una delle canzoni più famose dei Beach Boys, e una delle pochissime in “Pet Sounds” a mostrare pienamente il sound scanzonato della produzione precedente dei nostri, quella compresa fra gli anni 1961-65. Già con la successiva You Still Believe In Me, infatti, tutto cambia: il ritmo rallenta, l’atmosfera si fa più introspettiva, sembra quasi d’ascoltare un canto natalizio in atmosfera domestica. Poi è la volta della grandiosa That’s Not Me, una delle canzoni migliori dei Beach Boys: grande arrangiamento, grande prova vocale (sia solista che corale) e una melodia indimenticabile. Segue la distesa e dolcissima Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder), altro brano memorabile di questo disco incredibile, forte d’una bella prova vocale solista. Successivamente troviamo l’allegra e tambureggiante I’m Waiting For The Day, seguita dal sognante Let’s Go Away For A While, un brano strumentale. Sloop John B, edito come singolo, è un altro pezzo memorabile, il quale, anch’esso come Wouldn’t It Be Nice, ricorda la prima produzione dei Beach Boys. La canzone più rappresentativa e celebrata di “Pet Sounds” è però quella che segue, ovvero la magnifica God Only Knows: senza dubbio si tratta di una delle canzoni d’amore in chiave pop più belle di tutti i tempi, senza null’altro da aggiungere. Anche I Know There’s An Answer è un’altra grande canzone e, come per la maggior parte delle tracce di questo disco, è ricca di un’inventiva sonora strepitosa. E’ quindi la volta del saltellante Here Today, un brano che, a dispetto dei continui cambi di tempo, non perde nulla del suo senso melodico. Segue la commovente I Just Wasn’t Made For These Times, dove Brian Wilson esprime senza mezzi termini il suo disagio interiore: oltre al titolo della canzone, è significativo il refrain in cui canta “sometimes i feel very sad”. L’eponimo Pet Sounds è invece un gradevole strumentale dall’andamento alquanto caraibico, mentre la struggente Caroline No è la canzone conclusiva, appassionata e toccante, con gli ultimi quaranta secondi a sfumare con un treno che passa mentre dei cani abbaiano in sottofondo.

the-beach-boys-pet-sounds-50-anni-cofanettoCi sarebbero tantissime altre cose da dire su “Pet Sounds”, come ad esempio l’efficace alternarsi delle voci soliste tra i vari brani, o anche in uno stesso brano, come dimostrano i confronti tra le edizioni mono e stereo dell’album o le versioni alternative del cofanetto. Se, per fare un unico esempio, la dolce voce di Carl Wilson è la protagonista di God Only Knows, nel box possiamo ascoltare la stessa versione cantata però da Brian. Non mi dilungo oltre: “Pet Sounds” è un album grandissimo, un capolavoro assoluto che si lascia scoprire un po’ di più ad ogni ascolto e che consiglio a chiunque voglia arricchire la propria collezione di dischi con una gemma preziosa. Anzi, fidatevi di me: acquistate direttamente il cofanetto, che tra l’altro nei mesi scorsi è stato ristampato con l’aggiunta d’un disco live. – Matteo Aceto

The Beatles, l’album bianco, 1968

the-beatles-the-white-album-bianco-numero-1Nell’ottobre 2008 ho pubblicato due post a proposito di “The Beatles”, il famoso album bianco dei Fab Four pubblicato 40 anni prima. Cercando di riunire quei miei vecchi scritti in quest’unico post, spero d’aver coniugato un’utile condivisione d’informazioni a quella che non è mai stata una mia dote, la sintesi.

Chiamato “The White Album” per la sua confezione immacolata, il nostro è un disco ricco di sfaccettature, registrato in totale libertà creativa ma pure tra continue liti per questioni finanziarie e gestionali. Venne fuori, ad ogni modo, l’ennesimo capolavoro dei Beatles, un’epopea da 30 canzoni che spaziano dal pop all’avanguardia, fino ad anticipare alcuni generi come l’hard rock, il punk ma anche un certo epic rock da stadio; tutte sonorità che sarebbero definitivamente emerse nel decennio successivo.

Sconvolti dalla morte di Brian Epstein (agosto ’67), inesperti nel management dell’etichetta discografica (la Apple) che avevano appena fondato e di ritorno da un controverso viaggio in India, al seguito del Maharishi Mahesh Yogi per “studiare” meditazione trascendentale, i Beatles presero a lavorare a quello che sarebbe diventato un doppio album eponimo nel maggio 1968. E così, tornati in Inghilterra, i nostri si ritrovarono nella dimora di George Harrison per incidere i demo delle loro composizioni più recenti: tutti e quattro proposero diverse canzoni, addirittura 11 da parte del solo John Lennon, anche se non tutte furono incluse nell’album (alcune, come ad esempio JunkJealous Guy, che allora si chiamava Child Of Nature, finirono nei successivi dischi solisti). Perlopiù acustici e dal suono deliziosamente rilassato, questi demo sono stati parzialmente pubblicati nel terzo volume della serie “Anthology” (1996) con un’eccellente resa sonora.

Il 30 maggio, mentre da Parigi montava la più celebre delle contestazioni giovanili, i Beatles tornarono finalmente negli studi EMI di Abbey Road per registrare le canzoni da destinare alle loro prossime uscite discografiche: un album – poi diventato un doppio, quindi – e un 45 giri di grande successo. Si cominciò con una di John, la blueseggiante Revolution, che presto arrivò all’imponente durata di 10 minuti, con un finale psichedelico fatto di nastri che giravano al contrario e sovrapposizioni multiple d’effetti sonori. Lennon pensò bene di tagliare la canzone in due brani ben distinti, che divennero quindi la rilassata Revolution 1 (con tanto di sezione fiati) e Revolution 9, un folle collage sonoro realizzato grazie a quello che è il più evidente contributo di Yoko Ono a un pezzo dei Beatles. Comunque anche Harrison diede una mano, lo si sente pure nei dialoghi surreali presenti sul pezzo; nel “White Album” così come è entrato nelle nostre case, Revolution 9 viene inoltre introdotta dal frammento di una canzone di Paul McCartney, Can You Take Me Back?, altrimenti inedita e non accreditata nei titoli. Revolution 9 può essere quindi considerata un’opera dei Beatles a tutti gli effetti e non un’escursione solista di John & Yoko in un disco dei Beatles.

A giugno fu la volta del debutto di Ringo Starr come autore, l’amabile Don’t Pass Me By, per la quale s’era concepita un’introduzione orchestrale, poi scartata (vi lavorò direttamente George Martin, e la si può ascoltare comunque su “Anthology 3”, sotto il titolo di A Beginning). Quindi fu la volta di Blackbird, perla acustica scritta & eseguita dal solo Paul, così come di Everybody’s Got Something To Hide Except Me And My Monkey (titolo lungo per un testo di difficile interpretazione, in una canzone decisamente rock impreziosita da una grandiosa prova vocale di John, che ne è l’autore) e di Good Night (una delle più delicate creazioni lennoniane, affidata alla voce di Ringo e sorretta da un’orchestra e un coro diretti da George Martin).

A luglio fu quindi il turno della maccartiana Ob-La-Di, Ob-La-Da, il cui scanzonato andamento circolare e l’atmosfera complessivamente festosa ne tradiscono in realtà una gestazione lunga e complessa, con McCartney che avrebbe voluto lavorarci ancora per poi farne un singolo, prima che uno stufo Lennon dicesse basta. Il quale, stavolta rilassatissimo, mise su nastro Cry Baby Cry, guidando il resto dei Beatles in un’esecuzione amabile e accattivante. Tuttavia, se John voleva il gioco duro, Paul rispose con Helter Skelter, ovvero l’episodio più heavy di tutta la discografia beatlesiana, ad ennesima testimonianza della grande versatilità dei Beatles (e di Paul) e della loro (e sua) voglia di esplorare territori sonori inconsueti. Il colpaccio lo piazzò comunque George con la sua While My Guitar Gently Weeps: riconosciuta da Lennon – che per giunta non vi prese parte – come la miglior canzone dell’album bianco, questa dolente ballata rock impreziosita dalla chitarra solista di Eric Clapton resta senza dubbio una delle canzoni più belle dei Beatles. Una canzone nata già bella, a dire il vero, come testimonia ancora una volta “Anthology 3”, che include una versione acustica, ai primissimi stadi di lavorazione, assolutamente deliziosa. Forse colpito dalla maturazione artistica di George, ecco Paul che nel volgere di quello stesso mese di luglio, il giorno 29, introduce la sua Hey Jude nell’agenda di lavoro beatlesiana. Pubblicata su singolo un mese dopo – con una versione di Revolution appositamente riregistrata e molto più rock sul lato B – Hey Jude ottenne uno straordinario successo in tutto il mondo e tuttora è ricordata come una delle canzoni più belle e popolari dei Beatles, una per la quale non c’è davvero bisogno di presentazioni.

Ad agosto toccò invece alla lennoniana Yer Blues (un abrasivo rock-blues dove il suo autore esprime tra il serio e il faceto tendenze suicide) e alle maccartiane Mother Nature’s Son (rilassata e meditabonda, è un’altra esecuzione solista, sezione fiati a parte), Rocky Raccoon (sorta di country & western) e Wild Honey Pie (semplice improvvisazione da solo per voce, chitarra e batteria per un brano più corto d’un minuto del quale francamente potevamo tutti fare a meno). Pur se incise in quello stesso mese, altre tre canzoni dei Beatles andarono incontro a sorte diversa: la harrisoniana Not Guilty venne scartata dalla scaletta dell’album bianco per riapparire, in tutt’altra forma, nell’eponimo album solista di George del 1979; la lennoniana What’s The New Mary Jane, decisamente psichedelica, trovò posto nel catalogo ufficiale quasi trent’anni dopo, su “Anthology 3”, mentre la maccartiana Etcetera resta tuttora inedita.

Poi il fattaccio: il 22 agosto, durante una discussione mentre si lavorava alla nuova Back In The U.S.S.R., uno scanzonato rock dalle reminiscenze beachboysiane, Ringo se ne andò sbattendo la porta a causa della troppa tensione che s’era accumulata fra i quattro. La defezione del batterista venne tenuta segreta e i Beatles ridotti a trio continuarono imperterriti nel loro lavoro. Con Paul alla batteria, ecco quindi la lennoniana Dear Prudence, con quel pigro arpeggio di chitarra iniziale che è tutto un programma e la dolce voce di John che invita Prudence – la sorella di Mia Farrow ospite anch’essa del Maharishi in quella primavera ’68 – a uscire dalla sua paranoia.

Dopo il ritorno di Ringo, si procedette a settembre con le lennoniane Glass Onion (enigmatica e anche un po’ tetra, con rimandi ad altre canzoni beatlesiane) e Happiness Is A Warm Gun (costruita dall’unione di tre motivetti che Lennon aveva composto in India, mentre il titolo è stato preso da un’inquietante pubblicità di armi da fuoco), le maccartiane I Will (breve e pulsante ballata per chitarra acustica e percussioni) e Birthday (la cui ruvidità, unita al suo senso d’urgenza, sembrano anticipare le sonorità punk), e quindi la harrisoniana Piggies (insolitamente teatrale per George, forse lontana dal suo stile che, pur proponendovi un arrangiamento interessante, evidenzia nel testo una misantropia piuttosto sgradevole).

A ottobre fu la volta delle maccartiane Honey Pie (in stile anni Trenta), Martha My Dear (altra canzone dove il versatile Paul fa tutto da solo: voce, piano, basso, chitarra, batteria e battiti di mani… tutto tranne l’orchestra) e Why Don’t We Do It In The Road? (poco più di un’improvvisazione, provinata comunque in diverse forme, da una lieve e del tutto acustica eseguita dal solo Paul a questa più arrembante suonata con Ringo), delle harrisoniane Savoy Truffle (probabilmente la canzone più brutta dell’album bianco, il cui testo è stato “ispirato” da una scatola di cioccolatini particolarmente graditi dall’amico Eric Clapton) e Long, Long, Long (una ballata quasi sussurrata), e quindi delle lennoniane I’m So Tired (pigra ma isterica, lunga appena due minuti) e The Continuing Story Of Bungalow Bill (alquanto dimesso per gli standard beatlesiani del periodo, è un brano corale piuttosto scanzonato che narra le vicende di un altro ospite del Maharishi; è l’unico brano dei Beatles dove possiamo ascoltare – seppur brevemente – la voce solista di una donna, Yoko Ono) e infine Julia, ovvero una delle canzoni più belle e toccanti dei Beatles, sebbene sia un’esecuzione del solo John per voce & chitarra acustica.

Durante la lavorazione a “The Beatles”, inoltre, i nostri improvvisarono altri motivi, più o meno compiuti, come una versione di Blue Moon in medley con Helter Skelter, una jam in forma libera di Step Inside Love (una canzone scritta da Paul per una sua protetta, Cilla Black), una deliziosa alternativa di I Will chiamata The Way You Look Tonight, e una versione dissacrante di Sexy Sadie chiamata Maharishi (con pesanti insulti verso il guru ma anche contro Epstein, già defunto). Secondo alcuni tecnici di studio, infine, pare che McCartney provasse Let It Be fra una sessione e l’altra.

Come abbiamo già avuto modo di notare, buona parte di tutte queste canzoni venne eseguita da due o addirittura da un solo Beatle, con gli altri usati più come semplici musicisti che partner musicali veri e propri, e con ognuno che portava in studio i propri collaboratori di fiducia (Clapton, la Ono, ma anche Chris Thomas, in seguito famoso produttore). Tuttavia non mancano ruggenti e/o divertite esibizioni di gruppo, come Helter Skelter, Everybody’s Got Something To Hide, Ob-La-Di, Ob-La-Da o Birthday. Insomma, furono cinque mesi di registrazioni dove ognuno fece un po’ quello che gli pareva ma la libertà creativa ebbe da guadagnarci e i risultati furono eterogenei come non mai, e in molti casi assai interessanti.

“The Beatles” resta l’album più complesso e meno immediato dei Fab Four, ma il suo ascolto è sempre un’esperienza interessante, emozionante e a tratti esaltante. A chi ama questo doppio elleppì/ciddì consiglio vivamente anche l’ascolto di quella “Anthology 3” a cui abbiamo già accennato. Magari ne riparleremo in un prossimo post.

-Matteo Aceto

Freddie Mercury, Montserrat Caballé, “Barcelona”, 1988

freddie-mercury-montserrat-caballe-barcelona-1988Vorrei concludere la mia serie di post dedicata al mai-dimenticato & sempre-più-rimpianto Freddie Mercury recuperando e ampliando un post che pubblicai il 24 novembre 2009, a proposito dell’album “Barcelona”. Famoso disco di duetti tra il nostro e la regina spagnola della lirica, Montserrat Caballé, “Barcelona” è un album tanto apprezzato dai fan dei Queen quanto ridicolizzato dai detrattori di Mercury & soci. Essendo io un fan duro & puro dei Queen, non posso che apprezzare un disco del genere, un disco che con gli anni, per giunta, ho finito con l’amare. Ora è chiaro che tutto si riduce a una questione di gusti: potremmo pontificare in eterno su quale sia l’album più bello del mondo, o se un artista valga più dell’altro, rafforzando magari le nostre ragioni coi pareri critici degli esperti musicali di turno. Per quanto mi riguarda, ciò che conta davvero è l’emozione: se un disco ci emoziona, e soprattutto se continua a farlo anche dopo decenni, ebbene quello è un gran disco. Non ci sarebbe altro da aggiungere. La maniera migliore per giudicare se un album (o una canzone, o anche un film o un libro) sia “bello” è se ci fa venire la pelle d’oca, se ci mette i brividi, se ci commuove. Insomma, se ci trasmette un’emozione. Nel mio personalissimo caso, “Barcelona” fa proprio questo, e quelle che seguono sono le mie personalissime impressioni. Chiunque, fra i commenti, può esternare le sue (e un blog serve anche a questo).

Spettacolare, raffinato e tuttora unico nel suo genere, “Barcelona” fonde con originalità l’universo sonoro di Freddie Mercury con gli stilemi della musica lirica, in una resa sonora che in fondo non lascia né sorpresi e né perplessi: la musica di Mercury è stata sempre melodrammatica, teatrale, epica e potente. Approntando un album come “Barcelona”, il nostro non deve aver fatto una gran fatica, o addirittura una violenza a sé stesso. Anzi, si è proprio divertito, si è appassionato e ci ha messo l’anima, come ha scritto in proposito Peter Freestone, assistente personale di Freddie, nel suo ormai noto libro di memorie: “Barcelona era la sua essenza. Siccome era un disco che voleva fare a tutti i costi, aveva deciso che avrebbe dovuto contenere il meglio che Freddie Mercury potesse offrire. Dopo tutto, avrebbe potuto essere il suo memoriale”. Freestone, nel rievocare la gestazione d’un disco tanto originale, non nasconde infatti la possibilità che Freddie già allora sapeva di essersi seriamente ammalato. Non bisogna dimenticare, tuttavia, il fondamentale contributo creativo e strumentale del pianista, tastierista e arrangiatore Mike Moran, coautore di tutte le canzoni di “Barcelona” e produttore, assieme a David Richards e allo stesso Mercury, di questo autentico capolavoro.

Freestone ricorda inoltre il primo incontro Mercury-Caballé, che si svolse al Ritz Hotel di Barcellona nel marzo ’87: “questa collaborazione iniziale con Mike [Moran, già al fianco del nostro per il singolo The Great Pretender / Exercises In Free Love edito a febbraio] produsse una cassetta di tre brani di base. Uno di questi diventò Exercises In Free Love che poi diventò Ensueno nell’album Barcelona. Gli altri due erano il formato di base di The Fallen Priest e Guide Me Home che Mike aveva messo insieme con Freddie usando una voce in falsetto per approssimare la parte di Montserrat”. E infatti possiamo ascoltare alcuni di questi provini fra le numerose rarità presenti in “The Solo Collection”, un monumentale cofanetto di 12 dischi dedicato a Mercury e pubblicato dalla EMI nel 2000. In quelle rivelatorie sedute di registrazione – provini casalinghi con la stessa Caballé e registrazioni di studio vere & proprie nelle quali ascoltiamo la voce del solo Freddie – possiamo così ammirare tutto il talento (e la passione) di Mercury alle prese con uno dei suoi dischi più significativi. Ma è un altro libro di memorie, scritto da Jim Hutton, l’ultimo compagno di vita di Freddie, ad offrirci un’interessante testimonianza di quelle sedute: “Qualche giorno più tardi, quella stessa settimana [della primavera ’87], quando Montsy arriviò in studio di registrazione per lavorare con Freddie, le cose non andarono precisamente come lei si aspettava. Lei pensava che per registrare con Freddie le sarebbe bastato arrivare, cantare qualche canzone seguendo lo spartito e andarsene; ma non aveva idea della singolarità del metodo di lavoro di Freddie. Lui non aveva preparato in anticipo nessuna musica per Montsy, ma invece intendeva chiederle di provare qualcosa di improvvisato e poi cominciare a lavorarci sopra fino a trovare insieme il miglior risultato. […] E così, lei accettò il suo particolare metodo di lavoro. Freddie si dimostrò un maestro esigente. In seguito, Montsy ammise che in quelle sedute di registrazione Freddie era riuscito a ottenere dalla sua voce più di quanto lei stessa riteneva di poter dare”.

Epica ed emozionante ballata pianistica dove la potenza delle due voci viene espressa ai massimi livelli, Barcelona, edita su singolo già nell’ottobre ’87, è di certo la canzone più famosa del disco. Il testo stesso della canzone narra delle emozioni scaturite in Freddie da questa sua agognata collaborazione. Barcelona è senza dubbio uno dei vertici artistici di Mercury, una delle canzoni più rappresentative del suo stile barocco e melodrammatico. La Japonaise è invece un brano più d’atmosfera, con Freddie che canta diverse parti in giapponese, mentre la musica – mescolando elementi della tradizione sacra con sonorità tipicamente orientali – ci accompagna in un viaggio suggestivo e suadente. Pezzo decisamente operistico, il successivo The Fallen Priest non sfigurerebbe affatto in una qualsiasi compilation di lirica: un brano di assoluta potenza e drammaticità che rappresenta uno dei duetti più riusciti della coppia Mercury-Caballé. La lenta e malinconica Ensueno (basata come sappiamo su Exercises In Free Love) è un incredibile duetto in spagnolo dove Freddie si esprime come mai si era espresso prima grazie all’uso del suo timbro naturale, ovvero un caldo baritono. Ensueno è l’unico numero in “Barcelona” dove Mercury e la Caballé hanno cantato fianco a fianco, dato che, per via dei numerosi impegni della soprano, Freddie si vide costretto ad operare da solo in studio e poi a far sovraincidere la voce alla sua partner.

The Golden Boy – pubblicata anche su singolo, in un’orrenda versione editata – figura un’interessante fusione di stili: lirica, pop e gospel, con Mercury sempre protagonista a discapito della Caballé, maggiormente a suo agio nella prima parte e nel finale della canzone, entrambe sezioni di vera musica lirica che testimoniano, inoltre, la grande versatilità della voce di Freddie. Delicata e commovente ballata sulla fragilità della condizione umana, Guide Me Home è una canzone semplicissima eppure molto emozionante, quieta e potente al tempo stesso; il finale è collegato alla successiva How Can I Go On?, il brano dall’arrangiamento più convenzionalmente pop di questo disco, tanto che al basso figura un altro componente dei Queen, John Deacon. Anche in questo caso siamo alle prese con uno dei vertici artistici di Freddie Mercury, con quell’intreccio tra la sua voce e quella della Caballé che, soprattutto nel finale, è davvero da pelle d’oca. La conclusiva Ouverture Piccante non è una canzone vera e propria, bensì un lungo mix fra alcuni degli altri brani presenti sul disco, anche se include una veloce sezione di piano del tutto inedita. Pur non memorabile, Ouverture Piccante resta se non altro un ascolto interessante: ci permette di apprezzare maggiormente l’elaborato uso delle voci sovrapposte da parte dello stesso Freddie, alcune delle quali scorrono al contrario.

“Ci furono un paio di altre idee – scrive ancora Peter Freestone nel suo libro – che a Freddie sarebbe piaciuto provare con Montserrat in quel periodo, una delle quali era l’incisione di La Barcarole tratta da The Tales Of Hoffman di Offenbach, ma a causa della limitata disponibilità di tempo di Montserrat, la cosa fu tralasciata, forse per una data successiva”. L’altra idea era invece Africa By Night, grande inedito mercuryano che non abbiamo ancora avuto il piacere d’ascoltare nella versione originaria, successivamente recuperata per quella All God’s People inserita in “Innuendo” (1991).

Aggiungo, per finire, che nel 2012, in occasione del venticinquennale della collaborazione Mercury-Caballé, la Universal ha distribuito una interessante (anche perché piuttosto economica) edizione deluxe dell’album “Barcelona” comprendente 4 dischi: accanto all’inevitabile divuddì contenente video e interviste, troviamo infatti un compendio delle “Barcelona Sessions” apparso nel 2000 nel ben più dispendioso “The Solo Collection” (il cofanettone monografico dedicato a Mercury che abbiamo già citato sopra) e un completo remix dell’album originale a base di vera orchestra curato da Stuart Morley (in uno dei tre ciddì se ne può ascoltare la sola versione strumentale).

Per quanto possa risultare affascinante, l’ascolto delle parti vocali che Freddie e Montserrat hanno messo su nastro tra l’87 e l’88, sovrapposte a un lavoro orchestrale del tutto nuovo ma che ricalca fedelmente la musica originale, non si traduce – almeno nel mio caso – in un valore aggiunto. E’ stato un esperimento lecito, che prima o poi andava anche fatto, ma che tuttavia non ha aggiunto niente di che al valore complessivo dell’opera, il cui vero spettacolo resta l’intreccio tra le bellissime voci dei due veri protagonisti del disco. – Matteo Aceto

The Cure, “The Head On The Door”, 1985

the-cure-the-head-onthe-door-1985Pubblicato nel 1985, “The Head On The Door” è il primo disco dei Cure che ho avuto modo d’ascoltare, verso la fine degli anni Novanta, quando iniziavo a interessarmi non solo a questa band inglese ma anche a tutta quella scena musicale britannica che, partita dall’esplosione punk del 1977, ha poi virato verso territori più dark se non proprio gotici. In quegli ultimi anni del Ventesimo secolo, infatti, scoprivo i Joy Division e i loro naturali successori, i New Order, ma anche i vari StranglersBauhaus, Siouxsie And The Banshees, The DamnedSisters Of Mercy e The Mission, toccando quindi le coste australiane con band quali The Church e Nick Cave & The Bad Seeds.

Non tutti mi sono piaciuti, o non tutti ho continuato ad ascoltare in seguito, ma alcuni di loro, quali appunto i Cure, mi sono rimasti nel cuore. Così come ci è rimasto questo “The Head On The Door”, uno dei loro lavori più accessibili e pop, quello che mi ha fatto innamorare di tutta una scena musicale e che ha dato avvio alla mia passione per l’universo sonoro di Robert Smith, autore, cantante, chitarrista, produttore e inconfondibile immagine pubblica dei Cure, una band ormai storica, che calca le scene dai tardi anni Settanta e che ancora oggi riempie gli stadi di tutto il mondo. Li ho visti una volta, a Roma nel 2002, in un concerto all’Olimpico tra i più belli (tutte le hit storiche e i brani più amati dai fan) e generosi (3 ore di durata) ai quali io abbia mai assistito.

Avevo già pubblicato qualcosa su “The Head On The Door” nelle precedenti incarnazioni di questo blog, esattamente il 20 aprile del 2007 e il 1° febbraio del 2008. Per chi non conosce il contenuto dell’album e vuol saperne qualcosa di più, ripeto brevemente quanto scritto allora. Si parte col travolgente pop rock di In Between Days, appena 3 minuti di chitarre rotolanti e squillanti che sfidano chiunque a restare immobili, si continua con quello che resta uno dei miei pezzi preferiti dei Cure, Kyoto Song, forte d’un arrangiamento tanto gotico quanto maestoso, e quindi con The Blood, un coinvolgente brano pop rock che infonde un veloce arrangiamento in stile flamenco alle venature più dark tipiche dei Cure, con Six Different Ways, brano più pop che sembra uscito dalle sessioni dell’album precedente, “The Top” (1984), e quindi con Push, altro brano travolgente, coi primi 2 minuti tiratissimi e praticamente strumentali, e forte di una delle migliori prove vocali mai offerte da Smith.

La successiva The Baby Screams ricorda un po’ i New Order (e la cosa non è infrequente nella produzione artistica dei Cure di quel periodo) anche se, una volta che Smith inizia a cantare, si è inconfondibilmente in presenza d’una canzone dei Cure. A seguire c’è Close To Me, uno dei loro pezzi più famosi, riproposto nel 1990 in un remix (con tanto di divertente videoclip che riprendeva l’originale del 1985 nel punto in cui finiva) che ha ridato nuova popolarità sia alla canzone che alla band stessa. A entrambe le versioni, tuttavia, ho sempre preferito la successiva – nella scaletta di “The Head On The Door” – A Night Like This, arricchita da un insolito assolo di sax: dopo 30 anni continua a restare un brano di grande atmosfera, epico e intenso, perfettamente bilanciato fra quelle sonorità irresistibilmente pop e quella sensibilità peculiarmente dark che hanno reso celebri i Cure.

Viene quindi il turno di Screw, breve funky dall’andamento saltellante e robotico che sembra più che altro introdurre il brano finale, Sinking, secondo me il migliore del disco. Con quel ritmo medio-lento che sembra andare alla deriva, le tastiere eteree, il basso pulsante e la voce più unica che rara di Smith, Sinking è una delle canzoni più memorabili dei nostri, quella che segna lo stile maturo dei Cure, uno stile che verrà sviluppato ulteriormente in tutti gli altri dischi della band, da “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” del 1987 in poi, trovando compimento definitivo con l’album “Bloodflowers”, quindici anni dopo “The Head On The Door”.

Anche “The Head On The Door”, infine, è stato ripubblicato in edizione deluxe con disco bonus contenente inediti e rarità del periodo. Tra il 2006 e il 2010, infatti, Robert Smith ha curato di persona le ristampe di tutti gli album dei Cure usciti nel primo decennio d’attività della band, cioè tutti i dischi compresi tra “Three Imaginary Boys” (1979) e “Disintegration” (1989), passando anche per “Blue Sunshine” (1983), frutto di quell’estemporanea ma riuscita collaborazione tra Smith e Steven Severin dei Siouxsie And The Banshees chiamata The Glove. Magari di tutto questo avremo modo di parlare in un prossimo post. – Matteo Aceto