Gusti musicali geograficamente parlando

ivan-graziani-rock-e-ballate-per-quattro-stagioniPer molti anni, diciamo pure tra il 1988 e il 2008, ho comprato e quindi ascoltato prevalentemente musica inglese. Gruppi da me amatissimi come Beatles, Queen, Police, Pink Floyd, Genesis, Bee Gees, Clash, Depeche Mode e Cure in primis (con tutti i relativi solisti del caso, come ad esempio Paul McCartney, Sting, Phil Collins, eccetera), ma anche Bauhaus, Japan, Cult, New Order (e quindi Joy Division), Tears For Fears, Pet Shop Boys, Smiths, Verve e tutti o quasi i relativi solisti (Peter Murphy, David Sylvian, Richard Achcroft e via dicendo). Per noi parlare poi di David Bowie. Discorsetto bello lungo, insomma.

Tra il 2007 e il 2008, invece, sono stato colto dalla febbre per Miles Davis, statunitense. E quindi via con tutti i suoi dischi (o meglio, con tutti i suoi cofanetti deluxe della Sony), ai quali, di lì a poco, si sono aggiungi nella mia collezione tutti i dischi di John Coltrane, altro illustre statunitense. Allargando un po’ i miei confini, ho iniziato a comprare dischi jazz di musicisti e band d’America, come ad esempio i Weather Report, Wayne Shorter, Herbie Hancock, Chick Corea, tutti nomi che sono andati ad aggiungersi ai vari Michael Jackson, Prince e Stevie Wonder che già avevo in vinili, ciddì e cassette.

E se la black music afroamericana in fondo in fondo m’è sempre piaciuta, in anni più recenti ho avuto modo di apprezzare sempre di più i dischi di Isaac Hayes e soprattutto di Marvin Gaye. Tutta roba americana, ovviamente. Ai quali si sono aggiunti presto i dischi di Simon & Garfunkel (li ho comprati tutti!), del solo Paul Simon (ne ho comprati quattro o cinque), di Bruce Springsteen e soprattutto di Bob Dylan.

Insomma, se la Gran Bretagna la faceva da padrona per quanto riguarda la provenienza artistica dei dischi presenti in casa mia, credo proprio che ormai la fetta sia equamente divisa tra Stati Uniti e Gran Bretagna, e forse i primi sono anche in leggero vantaggio. In questa sorta di duopolio ho però registrato un curioso fatto privato: non so perché e non so per come, ma una mattina mi sono svegliato con la voglia di ascoltarmi i dischi di Lucio Battisti! Dopo qualche acquisto casuale, tanto per scoprire l’artista, ho deciso di fare il grande passo: acquistare l’opera omnia contenente TUTTI  i suoi dischi. L’anno scorso, spinto dalla curiosità, sono invece andato a comprarmi a scatola chiusa un cofanetto da tre ciddì + divuddì di Lucio Dalla, chiamato per l’appunto “Trilogia”. Io che ascolto e che soprattutto compro Lucio Dalla?! Un paio d’anni prima non l’avrei mai detto ed ora eccomi qui, a canticchiare Come è profondo il mare o L’anno che verrà oppure ancora Come sarà con tanto di Francesco De Gregori a dividere il microfono.

De Gregori che pure ha iniziato a incuriosirmi, nonostante un’antipatia per il personaggio che nutro da sempre. Ieri pomeriggio, e qui sto svelando un aspetto davvero inquietante della mia vita privata, avevo preso una copia di “Rimmel” e mi stavo già dirigendo alla cassa. Ho quindi adocchiato una raccolta tripla, fresca d’uscita, di Ivan Graziani e chiamata “Rock e Ballate per Quattro Stagioni“, edita dalla Sony in occasione del ventennale della morte del compianto cantante e chitarrista (nella foto sopra). Ebbene, ho preso una copia di quest’ultima con buona pace del classico di De Gregori.

E così, in conclusione, se una volta i miei ascolti erano concentrati quasi unicamente sulla Gran Bretagna, da un po’ di tempo sono felicemente passato all’America. E ciò nonostante rivolgo più d’un pensiero all’Italia, chissà perché. Ho iniziato anche ad apprezzare e comprare Vasco Rossi. Si attendono ora clamorosi sviluppi. – Matteo Aceto

Pubblicità

Pink Floyd, “A Momentary Lapse Of Reason”, 1987

pink-floyd-a-momentary-lapse-of-reason-immagine-pubblica-blogDedicandogli un post una decina d’anni fa, avevo espresso rivalutazione per un disco che fino a poco tempo prima consideravo trascurabile. Si tratta di “A Momentary Lapse Of Reason”, l’album che nel 1987 resuscitò i Pink Floyd dopo il sofferto abbandono di Roger Waters avvenuto due anni prima.

Contestualizzato nella gloriosa storia della band inglese, “Momentary Lapse” è certamente un lavoro minore, tuttavia, preso per quel che è – un album di professionale pop-rock di fine anni Ottanta – risulta essere un ascolto molto godibile. C’è da dire che il nome Pink Floyd è in questo caso un semplice marchio: ridotta ufficialmente a duo – David Gilmour e Nick Mason – ma praticamente un trio col ritrovato Richard Wright (cacciato da Waters durante la lavorazione di “The Wall“), la formazione è qui composta da Gilmour con una bella schiera di preziosi collaboratori, con Mason e Wright che hanno suonato qua e là dove più serviva il loro tocco (e serviva poco, a quanto pare).

Da tali fatti si dovrebbe considerare “A Momentary Lapse Of Reason” un disco solista di David Gilmour, e non un’opera dei Pink Floyd. Detto fra noi, dopo anni di discussioni con fan e ammiratori floydiani, tutto ciò è un discorso che non voglio affrontare più: Pink Floyd o David Gilmour, quel che ormai m’interessa è soltanto la musica, ed è di quella che parleremo vedendo questo “Momentary Lapse” più da vicino.

L’inizio dell’album, affidato allo strumentale Signs Of Life, è davvero sorprendente: siamo su una barca al largo d’un fiume, sentiamo gli scricchiolii del legno e i remi che si tuffano in acqua e poi si sollevano. Ricordo che all’epoca, quando sentii per la prima volta questo suono, in macchina di mio zio con lo stereo a tutto volume, anche se ero un bambino ne rimasi incantato. Il brano prosegue quindi con uno scambio di fraseggi tra chitarra elettrica (così tipicamente gilmouriana) e sintetizzatore, in un’atmosfera sonora che ricorda vagamente la prima parte di Shine On You Crazy Diamond.

La successiva Learning To Fly, primo singolo estratto, è un gradevole e robusto pop-rock, scandito dalla calda voce di Dave, dai cori femminili e dai placidi assoli di chitarra, con un bell’interludio in cui par di viaggiare fra le nuvole. Un’ottima canzone da ascoltare mentre si è alla guida, forse ancora meglio se si è in volo. Le voci che si sentono a metà del pezzo sono infatti gli istruttori che conversano con Mason e Gilmour, all’epoca alle prese con vere lezioni di pilotaggio aereo.

Mentre Learning To Fly sfuma, ecco il minaccioso ringhiare (elettronico) d’un cane, che ci porta all’ancor più minacciosa introduzione del terzo brano, The Dogs Of War; se il testo è un pallido tentativo di Gilmour d’eguagliare quei temi anti-guerra che Waters aveva espresso tanto bene in “The Wall” e “The Final Cut“, la musica è comunque interessante: un possente rock-blues con tanto di voce cattiva & graffiante, cori femminili in bella mostra, assoli di sax e batteria pestante.

La successiva One Slip è una delle canzoni che più m’esaltano fra quelle contenute in questo disco, specie quando sono al volante su una strada ampia dalla vista spaziosa. Scritta da Gilmour con Phil Manzanera (chitarrista dei Roxy Music, che ha collaborato a più riprese con Dave nel corso degli ultimi trent’anni, fino al recente “Rattle That Lock“), One Slip presenta un ritmo medio-veloce scandito da una bella batteria e dalle inconfondibili linee di basso di Tony Levin, frequente collaboratore di Peter Gabriel (ascoltare le gabrieliane Red Rain o I Don’t Remember per opportuni confronti). Molto bella tutta la parte vocale di Gilmour, alle prese con un testo che sembra una confessione personale.

Di bene in meglio con On The Turning Away, probabilmente la vetta artistico-espressiva di “A Momentary Lapse” e senza dubbio il pezzo più tipicamente floydiano offertoci qui. Siamo infatti alle prese con una calda ballatona rock (anche se l’atmosfera complessiva mi pare decisamente invernale, soprattutto nella prima parte) sullo stile di Comfortably Numb. Qui il buon Dave si prodiga nei suoi celeberrimi assoli e, se suonata ad alto volume, On The Turning Away è sempre portatrice di grandi emozioni.

A parte la sua rimbombante introduzione, un po’ prolissa, Yet Another Movie è un’altra delle mie favorite presenti qui. Un’atmosfera decisamente più dark delle precedenti, vagamente inquietante, anche nel testo: trovo molto suggestiva la frase ‘the vision of an empty bed’, dopo la quale Dave urla ed entra un placido ma sofferto assolo nelle nostre orecchie. A metà della sua durata, il pezzo si fa più imponente, la batteria assume un ritmo più veloce e l’assolo di Gilmour diventa inconfondibilmente straziante. Poi il tutto torna alla fase dark iniziale, come se avessimo assistito alla reazione d’un uomo violento negli intenti ma impotente nell’agire. Una gran bella atmosfera, fra le cose migliori mai create da David Gilmour, secondo me. La conclusione dell’intensa Yet Another Movie è affidata a un breve strumentale per chitarra e sintetizzatore, Round And Round, per un’appendice forse inutile.

A New Machine è il pezzo in scaletta che meno amo: poco più d’un minuto dove ascoltiamo l’aggressiva voce di Gilmour distorta elettronicamente. Il tutto, più che altro, serve da introduzione al brano successivo, Terminal Frost, seguito a sua volta da una ripresa della stessa A New Machine; infatti il brano in questione è diviso in Part 1 e Part 2 ed è appunto intervallato da Terminal Frost, il secondo e ultimo strumentale in programma. Suona quasi come una composizione di Vangelis in chiave rock, con tanto di assoli di chitarra e di sax; l’atmosfera complessiva è buona, forse gli avrebbe giovato una durata inferiore.

Sorrow, brano conclusivo dell’album, è invece un massiccio e ombroso pezzo rock, con un memorabile assolo di chitarra introduttivo, dal tono decisamente cupo. Cantato da Dave con efficace impassibilità, Sorrow è diventato un classico negli ultimi due tour mondiali dei Pink Floyd, così come Learning To Fly, tuttavia la sua atmosfera epicamente sconsolata lo integra meglio nel repertorio storico del gruppo, mentre Learning To Fly suona come una mera divagazione pop.

Prodotto dallo stesso David Gilmour con Bob Ezrin, storico co-produttore di “The Wall”, come già detto “A Momentary Lapse Of Reason” si avvale di preziosi collaboratori, fra i quali troviamo il già citato Tony Levin (suona il basso nella maggior parte delle canzoni), i batteristi Jim Keltner e Carmine Appice, John Halliwell dei Supertramp al sax, il chitarrista Michael Landau, il tastierista Patrick Leonard (noto ai fan di Madonna per aver prodotto alcuni dei suoi album migliori) e lo stesso Bob Ezrin, sempre alle tastiere.

Di recente, quasi trent’anni dopo la sua prima edizione, “A Momentary Lapse Of Reason”, è stato ristampato in vinile dopo opportuna remasterizzazione. Non ho avuto modo di ascoltarlo, per cui non saprei dire quanto suoni meglio rispetto alla mia edizione in ciddì degli anni Ottanta. Sono però convinto che sia di una resa sonora superiore. Anche in questo caso, sono tentato dall’acquisto. Strano, nevvero? – Matteo Aceto

Tutti gli album di George Harrison in vinile

george-harrison-tutti-gli-album-in-vinileLa notizia è di qualche giorno fa: il prossimo 25 febbraio, data di nascita del compianto George Harrison, la Universal distribuirà un lussuoso cofanetto contenente tutti gli album da solista – e in formato vinile – del chitarrista dei Beatles. Come ormai è d’obbligo in questi casi di riedizioni deluxe, ogni elleppì sarà stampato in vinile da 180 grammi e riproposto con la stessa veste grafica dell’originale dell’epoca. Oltre a tutti gli album che George Harrison ha fatto pubblicare a suo nome tra il 1968 e il 2002, il box – chiamato semplicemente “The Vinyl Collection” – conterrà anche due picture disc di 12 pollici riproducenti, rispettivamente, i singoli Got My Mind Set On You e When We Fas Fab. Nonostante due cofanetti usciti in anni recenti (“The Dark Horse Years” e “The Apple Years”, entrambi su ciddì), questa è la prima volta che tutta la produzione dell’Harrison solista viene contemplata in un’unica opera omnia. Cerchiamo ora di fare un punto della situazione, album dopo album, dei titoli presenti in “The Vinyl Collection”, con qualche piccola nota storico-critica.

“Wonderwall Music” (1968): il disco indiano di George, strumentale, colonna sonora dell’omonimo film. Inciso prevalentemente agli studi EMI di Bombay da musicisti locali, figura Harrison per lo più come produttore e supervisore generale. Ascoltato tanti anni fa, non lo trovai particolarmente memorabile; mi sembrò la versione estesa, per così dire, di brani dei Beatles come The Inner Light, Love You To e Within You Without You.

“Electronic Sound” (1969): edito dalla Zapple, l’etichetta “sperimentale” della stessa Apple di proprietà dei Beatles, è un lavoro completamente strumentale eseguito dal solo George al sintetizzatore. L’avrò ascoltato una volta, diversi anni fa, senza particolare entusiasmo; il mio sospetto è che di un album come “Electronic Sound” si continui a parlare perché presente nell’orbita Beatles, più che per i meriti intrinseci del disco.

All Things Must Pass” (1970): il vero capolavoro di George Harrison, è l’album più bello d’un Beatle in veste solista. E’ anche uno dei pochi album solistici che possono essere posti sullo stesso livello dei capolavori beatlesiani del periodo 1966-1969. Qui viene riproposto nella sua gloriosa edizione tripla con tanto di confezione scatolata. La scaletta dei brani è fedele all’originale, mentre nelle riedizioni a partire dal 2001 è sempre stata alterata dalla presenza di brani aggiuntivi.

Living In The Material World” (1973): sulla scia dei grandi successi di “All Things Must Pass” e “The Concert For Bangla Desh” (peraltro escluso da questo cofanetto del 2017), confermò tutto il talento di George con un album tanto personale quanto caldo & sentimentale. Da annoverare anch’esso tra le migliori realizzazioni beatlesiane da solista.

“Dark Horse” (1974): un disco interlocutorio, inciso quasi “per forza”, nonostante l’evidentissimo calo della voce del nostro in seguito alla tournée che aveva intrapreso parallelamente all’incisione dell’album. Un mezzo passo falso.

“Extra Texture” (1975): un lavoro più pop e gioioso del precedente, anche se non più assimilabile qualitativamente agli album del periodo 1970-73. E’ tuttavia un disco che manca fisicamente dalla mia collezione di dischi, come il precedente “Dark Horse”.

“Thirty Three & 1/3” (1976): originariamente distribuito dall’etichetta di proprietà dello stesso Harrison (la Dark Horse, per l’appunto) quando il chitarrista aveva effettivamente compiuto trentatrè anni… e quattro mesi! Un disco pregevole, suonato molto bene a discapito dell’ispirazione non sempre costante.

“George Harrison” (1979): pubblicato dopo una pausa di tre anni, questo album può essere annoverato tra i lavori migliori del nostro, forte di canzoni irresistibili come Blow Away, Faster e Your Love Is Forever.

“Somewhere In England” (1981): un lavoro mediocre, bisogna ammetterlo, ricordato per All Those Years Ago (singolo edito come risposta all’omicidio di John Lennon del dicembre ’80) e davvero poco altro.

“Gone Troppo” (1982): il punto più basso della carriera discografica di George Harrison, tanto da indurlo ad abbandonare la musica per anni, per dedicarsi prevalentemente alla sua seconda attività di impresario cinematografico.

Cloud Nine” (1987): l’album del grande ritorno e uno dei punti più alti tanto nella discografia del nostro quanto in quella dei Beatles in veste solista. Mi piacerebbe parlarne in un post ad hoc, così come di “All Things Must Pass”, la cui bozza giace da anni tra i miei appunti.

“Live In Japan” (1992): vinile doppio, contenente una registrazione dal vivo con la band di Eric Clapton del ’91. Per il nostro è una sorta di Greatest Hits Live, contenente anche diversi brani dei Beatles; un album non proprio necessario ma molto piacevole.

“Brainwashed” (2002): nonostante il clamore di “Cloud Nine”, della relativa tournée e del successo riscosso dai suoi due dischi realizzati come componente dei Traveling Wilburys, George Harrison restò inattivo come solista per tutti gli anni Novanta, tornando a proporre musica a suo nome quando era già seriamente malato. Piacevolissima sorpresa, senza dubbio tra i dischi più belli di George, “Brainwashed” uscì nel corso del 2002, quando purtroppo il musicista era già defunto. Mi piacerebbe riparlarne in un apposito post.

Fin qui gli album. Come abbiamo detto prima, “The Vinyl Collection” contiene inoltre due singoli originariamente estratti da “Cloud Nine”, ovvero la cover di Got My Mind Set On You (l’ultimo vero hit da classifica per il nostro) e la beatlesiana When We Was Fab, un brano che rifà malinconicamente il verso a I Am The Walrus e che si avvale della collaborazione dello stesso Ringo Starr (che peraltro partecipa in tanti altri episodi presenti in questo cofanetto). Insomma, siamo alle prese con un corpulento cofanettone da ben diciotto vinili… e da trecentocinquanta euro di prezzo. Uscirà comunque anche “a puntate”, album per album, ma senza i due picture disc bonus. Mi farò due conti prima di decidere se prenderlo in blocco o se andarmi ad acquistare quei singoli titoli che ancora mi mancano. Ovviamente, ma che lo dico a fare, sono molto tentato dalla prima opzione. – Matteo Aceto

Ringo Starr, “Ringo”, 1973

ringo-starr-ringo-album-1973-reunion-beatlesForte della collaborazione dei Beatles al gran completo, “Ringo” è semplicemente l’album più bello & fortunato del grande Ringo Starr. Si tratta del suo terzo album da solista, seguito di una pregevole raccolta di cover di canzoni anteguerra chiamata “Sentimental Journey” e di un disco country apprezzabile ma poco ispirato intitolato “Beaucoups Of Blues”, editi entrambi nel 1970. Dopo un paio d’anni spesi ad inventarsi una carriera cinematografica, con “Ringo” il batterista dei Beatles dimostrò al grande pubblico e ai critici che anche lui era in grado di fare un album tanto consistente quanto di successo, pur se con un piccolo aiuto da parte dei suoi amici.

L’iniziale I’m The Greatest, infatti, è brano scritto su misura per il nostro da John Lennon, il quale partecipa anche ai cori e suona il piano in una canzone che ricorda molto le atmosfere peppersiane (vedi anche la copertina stessa dell’album in questione, volutamente simile a quella di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band“). Anche George Harrison partecipa a I’m The Greatest, suonandovi tutte le parti di chitarra, per cui abbiamo tre Beatles su quattro nella stessa canzone a tre anni di distanza dallo scioglimento ufficiale del gruppo.

Harrison che poi ha firmato ed eseguito con Starr anche la famosa Photograph, una canzone melodica e corale che, manco a dirlo, è talmente beatlesiana che non avrebbe sfigurato affatto in un album dei Fab Four del periodo 1967-69. Ma in “Ringo” il buon George ha messo la firma anche sulla country Sunshine Life For Me (Sail Away Raymond), che si avvale inoltre di alcuni componenti di The Band: è un brano magnifico che si piazza fra le migliori prove d’un Beatle solista, cullandoci col suo ritmo morbidamente pulsante ed una melodia canticchiabilissima.

E Paul McCartney? Tranquilli, c’è anche lui. Con Six O’Clock, infatti, non soltanto firma una canzone davvero bella, ma vi partecipa ai cori assieme alla moglie Linda e vi suona il piano e il sintetizzatore. Per quanto suoni spudoratamente maccartiana, Six O’Clock è eseguita più che egregiamente da Ringo, facendone una delle sue migliori canzoni in veste solista. Ritroviamo Paul anche nell’altro fortunato singolo tratto da “Ringo”, quella scanzonata ma impeccabile cover di You’re Sixteen che, come Photograph, volò al 1° posto della classifica americana. Oltre a McCartney, nel brano figura pure Harry Nilsson (assiduo collaboratore in quel periodo sia di Ringo che di John, oltre che loro compagno di baldorie), mentre l’inconfondibile chitarra ritmica di Marc Bolan figura invece in Have You Seen My Baby, un rockeggiante brano dalle evidenti influenze country.

L’album “Ringo” è inoltre completato dall’esuberante e corale Oh My My, un altro singolo, dalla tambureggiante e baldanzosa Devil Woman e dalla ben più distesa Step Lightly, canzone che figura il chitarrista Steve Cropper, futuro membro dei Blues Brothers. A You And Me (Babe) – altro brano firmato da George Harrison (con Mal Evans, storico assistente dei Beatles) – spetta invece la chiusura dell’album. Sul finale di questo rilassato ma ben ritmato brano, mentre George si prodiga in un placido assolo, Ringo ringrazia i collaboratori di questo disco che giustamente avverte essere il suo “masterpiece”, nominandoli uno ad uno, fra cui anche Klaus Voormann, Billy Preston (entrambi vecchie conoscenze del giro dei Beatles), Nicky Hopkins e il produttore del disco, Richard Perry.

“Ringo”, e qui ribadisco quanto scrissi dieci anni fa, è un album che mi sento di consigliare a chiunque volesse (… o a chiunque voglia… come si dice?) ascoltare un disco solista di Starr senza sapere da che parte cominciare. Ma anche a chi vuole arricchire la propria collezione di dischi con uno degli album più divertenti e riusciti degli anni Settanta. – Matteo Aceto [originariamente pubblicato sul blog Parliamo di Musica il 15 giugno 2007]

The Stranglers, “The Raven”, 1979

the-stranglers-the-raven-immagine-pubblica-blogQuarto album da studio degli Stranglers, pubblicato nell’ormai lontanissimo 1979, “The Raven” è uno dei dischi che più mi affascinano, sebbene io non l’abbia certo ascoltato tutti i giorni. Né posso ritenermi un estimatore di questa band inglese; è soltanto che tanti anni fa, spulciando tra i ciddì del mio negozio di dischi preferito di Pescara, mi imbattei nella tetra immagine di copertina di “The Raven” e ne rimasi subito colpito. Attratto anche dal prezzo basso, decisi di fare così l’acquisto del ciddì a scatola chiusa, senza averne mai sentito prima una sola nota e senza nemmeno conoscere chissà che degli Stranglers (avevo giusto Golden Brown in una compilation di canzoni anni Ottanta).

Stuzzicando una tetraggine di fondo che consapevolmente o meno mi sono sempre portato dentro, “The Raven” è stato quindi per me uno di quei rari casi in cui l’acquisto d’un disco è stato basato più sull’apparenza che sul contenuto. Ad ogni modo, con mio sommo sollievo, una volta ascoltato l’album ho poi scoperto che non era affatto male: condito da abbondanti abbellimenti sintetizzati ma comunque forte di belle parti di basso, batteria e chitarra, “The Raven” è di fatto uno splendido rappresentante della new wave inglese che imperversava in quei tardi anni Settanta.

Non mancano, inoltre, quei due o tre pezzi che bastano da soli a giustificare l’acquisto di tutto un album: c’è Don’t Bring Harry, la malinconica ballata pianistica dalla tematica antidroga che resta probabilmente una delle canzoni più belle degli Stranglers, c’è l’irresistibile power-pop di Duchess, all’epoca edito anche come singolo e con tanto di videoclip censurato, e soprattutto c’è la meravigliosa Ice, con tutti quegli accordi di sintetizzatore saltellanti ma al contempo tetri (che poi si ripropongono minacciosi sul finale di un altro brano del disco, Shah Shah A Go Go).

Oltre alle undici canzoni originali contenute in “The Raven”, la mia copia in ciddì – un remaster della EMI datato 2001 – include inoltre quattro brani bonus (tra cui una versione in francese di Don’t Bring Harry) che contribuiscono a modo loro ad aumentare l’eclettismo e l’originalità di questo quarto lavoro in studio degli Stranglers. Infine, a chi come me è rimasto colpito dalla copertina di “The Raven”, segnalo che, nelle prime tirature dell’elleppì originale, l’immagine dell’inquietante corvo era tridimensionale. Penso che, prima o poi, dovrò procurarmene una. – Matteo Aceto [novembre 2008 / ottobre 2021] Continua a leggere “The Stranglers, “The Raven”, 1979″

Un ricordo, un punto della situazione e qualcos’altro

Lo so, oggi è il primo anniversario della morte di David Bowie, così come l’altro ieri è stato il settantesimo anniversario della sua nascita, e qualcosa in proposito dovrei pur scrivere su questo modesto blog. Stavo rimaneggiando un mio vecchio scritto a proposito di “Low”, uno degli album del nostro che più amo, tuttavia non sono ancora dell’umore giusto. Infatti, da un anno a questa parte si è scritto & detto molto su David Bowie, e la cosa non può che farmi piacere. Sono semplicemente colto da un leggerissimo sospetto: che non avrei molto altro da aggiungere.

Al pari dei Beatles, di Bob Dylan e di pochi altri ancora, David Bowie è oggetto di studi in ogni parte del mondo e di bei libri sulla sua vicenda artistica e/o umana ne sono usciti parecchi. Uno che mi attrae da molti anni ma che finora non ho ancora letto è “Bowie in Berlin: A New Career In A New Town”, scritto da Thomas Jerome Seabrook e pubblicato in Italia dalla Arcana col titolo ben più ruffiano di “La trilogia berlinese” (2014). Un libro che invece ho comprato molti anni fa e che mi sento di consigliare a qualsiasi appassionato del lavoro (più che della vita) di David è l’enciclopedico “The Complete Bowie” di Nicholas Pegg, un testo che reputo fondamentale per apprezzare a dovere le molte sfaccettature di una carriera fenomenale come poche.

La mia è un’edizione Arcana del 2005 ma, di recente, il buon Pegg ha ampliato ancora la volta il discorso, arrivando così a includere tutte le informazioni sugli album “The Next Day” (2013) e “Blackstar” (2016) che mancavano per ovvi motivi cronologici dalla precedente edizione. In questo caso, credo, dovrebbe aver scritto l’edizione definitiva del suo interessantissimo libro. Aspetterò, ad ogni modo, una traduzione italiana dell’opera – che dovrebbe comparire in libreria a breve – per valutarne il (ri)acquisto, anche se credo proprio che si trattino di soldi ben spesi.

Cosa posso dire, per il resto? Beh, che fu proprio la morte di David Bowie – per me davvero scioccante – a indurmi a tornare a scrivere come blogger. Pensa & ripensa, e meno di un mese dopo avevo fatto risorgere Immagine Pubblica, un blog che avevo cancellato al principio del 2012 senza alcuna lungimiranza. Non per il suo intrinseco valore, ci mancherebbe, ma perché quella di blogger è un’attività che tutto sommato mi piace e mi ha fatto incontrare (purtroppo soltanto virtualmente) persone decisamente interessanti, con le quali ho condiviso e discusso apertamente i miei interessi. Sono grato a quelli che da un annetto a questa parte mi hanno letto, si sono iscritti al blog, vi hanno lasciato un commento o anche soltanto un “mi piace”. Non ho sempre ricambiato, anzi, e di questo me ne dispiace. Ormai tengo famiglia e il tempo a mia disposizione è quello che è. Comunque, il poco tempo che passiamo “insieme” attraverso Immagine Pubblica è per me assai gradito. Spero che lo sia anche per voi. – Matteo Aceto

Miles Davis, “Pangaea”, 1975

miles-davis-pangaea-immagine-pubblica-blogRiprendendo un discorso introdotto un paio di post fa con “Agharta“, passiamo quindi a “Pangaea”, l’altro doppio live che è stato tratto dalle due esibizioni che la band di Miles Davis tenne il 1° febbraio 1975 all’Osaka Festival Hall.

Controparte essenziale di “Agharta”, il nostro è un album formato da due sole lunghe composizioni, Zimbabwe e Gondwana, una per ciddì. Dalla durata di ben 41’48”, Zimbabwe inizia con lo stesso frenetico funk che dà avvio alle danze in “Agharta”, con Miles che entra già a 1’17” per il suo primo assolo. Il sax solista di Sonny Fortune entra invece a 5’10”, dopo aver accompagnato l’assolo di Miles in alcuni punti. L’intervento di Sonny, molto bello, anticipa di poco un rallentamento del ritmo che si verifica a 5’44”. Invece a 8’35” parte l’assolo di chitarra di Pete Cosey, avvolgente e stridente, sparato sul canale sinistro dello stereo. Il ritmo accelera a 11’05”, mentre la tromba di Miles rientra a 11’27”; di lì a poco, tuttavia, l’intensità del brano diminuisce, lasciando per brevi tratti il solo basso e le percussioni a condurre le danze. A 16’03” ritroviamo il frenetico funk iniziale, seguìto pochi secondi dopo da una melodia all’unisono da parte di Davis e Fortune; Cosey torna quindi protagonista con la sua abrasiva chitarra a 18’02”, mentre a 18’39” – nel pieno di quell’assolo – il ritmo rallenta ancora una volta. La tromba di Miles annuncia a 21’51” un cambiamento d’atmosfera del brano, che si fa quindi più pacato ma anche più sinuoso e sensuale; un assolo compiuto di Davis inizia così a 23’22”, seguìto a 27’33” dal sax alto di Fortune. Anche il chitarrista ritmico Reggie Lucas si prodiga in un brillante assolo, a 30’29”, mentre il bassista Michael Henderson dà vita ad un possente groove che di fatto sorregge tutta quella sequenza del brano. Cosey torna a farsi sentire a 33’24” con una serie di pigre distorsioni – seguìto a ruota da Lucas – quando la musica placa l’incedere incalzante di poco prima per entrare in una dimensione quasi onirica. A 35’07” Miles puntella con un sommesso assolo alcuni passaggi che portano Zimbabwe a concludersi fra le originali percussioni ad acqua di Mtume.

Il secondo brano in programma, Gondwana, è invece un’opera più d’atmosfera, o anche decisamente dark se vogliamo. Si parte col flauto di Fortune in bell’evidenza, con Henderson, Mtume e il batterista Al Foster a procurargli un lento ma intenso tappeto sonoro, ricco di suggestioni africane. La tromba di Miles sostituisce il flauto di Sonny a 4’51”, per un pacato assolo che si prolunga fino a 9’34”, poco prima d’una notevole riduzione di volume & intensità della musica che si verifica a partire dal decimo minuto. Qui sono gli effetti percussivi di Mtume a farla da padrone, mentre a 14’19” Foster è l’artefice di una lenta ma vigorosa ripresa del ritmo, suggellata a 15’33” dal ritorno della tromba del leader. A 18’12” ha inizio – seppur in modo poco appariscente – il primo intervento da solista di Cosey in Gondwana, che si farà decisamente più incisivo una volta che la musica cambia atmosfera a 19’35”. A quel punto, infatti, il grandioso assolo di Cosey marca una sezione del brano più epica e drammatica che prosegue fino a 25’48”, quando il ritrovato vigore della lunga composizione sembrerà spegnersi ancora una volta. Alcuni fraseggi d’organo da parte di Davis e vivaci percussioni di Mtume daranno poi l’avvio ad una terza parte del brano, sempre dal ritmo medio-lento ma decisamente più incalzante. A 28’11” Davis torna a soffiare pacatamente nella sua tromba, ancora una volta resa tremolante dal wah-wah, mentre la musica torna anch’essa a placarsi. A 30′ esatti, Henderson e Foster suggeriscono una ritmica più jazzata e dinamica, per quanto molto delicata, mentre Miles procede nel suo assolo di grande suggestione. La chitarra di Cosey rientra timidamente a 35’59”, mentre Davis passa all’organo per svariate coloriture di superficie. Questa piacevolmente swingata atmosfera jazz si prolunga – con altri interventi più o meno di coloritura – fino alla conclusione del brano, che termina fra distorsioni e dissonanze a 46’50”.

Come per “Agharta”, anche qui il pubblico giapponese è stato così composto (o forse sconvolto…) che per parte nostra si ha la gradevole sensazione di ascoltare un disco registrato in studio. Tuttavia, il fatto che questa musica straordinaria sia il frutto di una lunga improvvisazione più o meno calcolata sul palco fa sì che “Pangaea” – assieme ad “Agharta” – si traduca in uno dei capitoli dal vivo più eccitanti della sterminata discografia di Miles Davis.

Nel corso del 2015, in occasione del quarantennale di questi due dischi, mi sarei aspettato dalla Sony una riedizione deluxe che potesse comprendere in un unico cofanetto la registrazione integrale di quanto Miles e la sua band fecero sentire il quel di Osaka il 1° febbraio di quattro decenni precedenti. Sono infatti certo che il produttore Teo Macero, per quanto abilissimo come sempre, abbia fatto gli opportuni tagli con tanto di editing creativo per far entrare il tutto in  otto facciate di vinile dell’epoca. Tuttavia, a parte la piccola soddisfazione di leggere che anche uno storico davisiano come Paul Tingen si augurava quello che mi auguravo anch’io, la Sony ha disatteso le nostre aspettative. Ha sì continuato a distribuire dell’interessante materiale per la collana “The Bootleg Series” ma ha proseguito in modo non sempre logico e soprattutto non cronologico. Resto comunque in fiduciosa attesa per il futuro e, nel caso, sapremo tornare sull’argomento. – Matteo Aceto [dicembre 2008 / gennaio 2017]

Elton John, “The Very Best Of”, 1990

elton-john-the-very-best-of-1969-1990-immagine-pubblica-blogE’ vero, tutte quelle belle canzoni che Elton John ha pubblicato con gli album “The One” (1992) e “The Lion King Soundtrack” (1994) esulano dal contesto del presente post ma, a mia discolpa, posso dire di non essere mai stato un suo fan. Mi ritengo comunque un collezionista di belle canzoni, e quel doppio vinile/ciddì chiamato “The Very Best Of Elton John” e distribuito dalla Polygram nel 1990 è esattamente questo: una collezione di belle canzoni, e quindi un prodotto per me indispensabile.

Di raccolte di Elton John ne sono uscite un bel po’, dal 1990 in poi, eppure questa che include i maggiori successi del nostro del periodo 1969-1989 (più un paio di notevoli inediti, inclusi per l’occasione) continua a restare per me la migliore. E, detto in confidenza tra noi, continua a restare l’unico titolo della sterminata discografia di Elton John che reputo necessario. Non fraintendetemi, non ho nulla contro il buon Elton, è che col tempo ho capito quei tanti critici che non soltanto non l’hanno mai davvero amato ma che, peggio, non l’hanno mai preso sul serio. In effetti, vedendo un video d’annata di Elton John, magari proprio alle prese con una di quelle sue favolose canzoni degli anni Settanta, ciò che colpisce di più è proprio quel suo look eccentrico, con quegli occhialoni stravaganti, le scarpe argentate con la zeppa & tutto il resto che contribuisce a mostrarcelo – diciamocelo pure senza alcun rancore, ci mancherebbe – come un perfetto coglione. Ecco, in quel caso, l’attenzione è tutta su di sé, nel bene e nel male, lasciando la canzone in sottofondo, fosse pure una delle canzoni più belle del mondo.

E in questa raccolta ci sono davvero alcune delle canzoni più belle del mondo: Your Soung, tanto per cominciare, ormai un autentico pezzo di musica classica, se vogliamo ampliare il termine visto che ormai siamo definitivamente nel Ventunesimo secolo, e poi Candle In The Wind, indimenticabile così come lo è Marilyn Monroe; e ancora Don’t Let The Sun Go Down On Me (che purtroppo, di questi tempi, ci ricorda più la triste fine di George Michael) e Rocket Man, un’altra perla di canzone che può essere messa nella stessa categoria della Space Oddity bowiana. In “The Very Best Of Elton John” non mancano poi la struggente Goodbye Yellow Brick Road, la mesta Sorry Seems To Be The Hardest Word, la malinconica Song For Guy, la consolatoria Blue Eyes e la sopraffina Nikita (brano che si avvale della collaborazione del già citato George Michael, oltre che di un magnifico Pino Palladino).

Tra le mie preferite metto inoltre I Guess That’s Why They Call It The Blues, con tanto di Stevie Wonder all’armonica, la trascinante I Don’t Wanna Go On With You Like That e l’inedita (per il 1990) Easier To Walk Away. Discorso a parte per Someone Saved My Life Tonight: da anni ho questa raccolta di Elton John, e quindi questa canzone, ma soltanto di recente mi sono reso conto di quanto sia bella. Una sera di qualche mesetto fa, desideroso di ascoltare delle canzoni anni Settanta/Ottanta cantate da qualcuno che fosse ancora in vita (e Elton John è ormai uno dei pochi, almeno tra i nomi presenti nelle mie collezioni), metto sul piatto del giradischi il primo dei due vinili di questo best of… arrivo così a Someone Saved My Life Tonight e quasi mi commuovo per l’emozione. Come se non l’avessi mai sentita prima! Questo per dire quanto ingombrante possa essere stato il personaggio Elton John a discapito del bravissimo autore/cantante/musicista che risponde a quello stesso nome. – Matteo Aceto

Miles Davis, “Agharta”, 1976

Miles Davis - AghartaNon ho mai avuto un debole per i dischi dal vivo. Ho gli album live più importanti dei miei beniamini giusto per completare le rispettive collezioni, ma ammetto di sentire quei dischi davvero poco. Tuttavia, Miles Davis, grande innovatore, ha innovato anche le mie abitudini stereofile: certi suoi album dal vivo sono in realtà alcuni dei dischi più belli che io abbia mai ascoltato. In particolare, due di questi sono diventati in poco tempo i miei ascolti preferiti in fatto di musica live: “Agharta” e “Pangaea“, due straordinari documenti sonori registrati il 1° febbraio 1975 all’Osaka Festival Hall, in Giappone, e inizialmente pubblicati (ognuno in doppio vinile) nel solo mercato nipponico tra il 1975 e il ’76.

Tralasciando ora “Pangaea”, del quale però ci occuperemo presto, eccoci quindi ad “Agharta”, che contiene la registrazione del primo dei due concerti che Miles Davis e la sua band tennero quel giorno in terra d’Oriente. Qui Miles è al capolinea di quello che può essere considerato il suo primo periodo elettrico, considerato che al termine di quel fatidico 1975 si ritirò dalle scene per quasi sei anni (il secondo periodo elettrico caratterizza invece gli ultimi dieci anni di vita del nostro, tra il 1981 e il ’91). Seppur sofferente per numerosi acciacchi, alle prese con dipendenze di vario tipo e sostanzialmente disilluso dal mondo dello show business, Miles appare qui in buona forma, anche grazie a un gruppo di sei musicisti che riesce a fondere prodigiosamente sonorità funky con approcci jazzistici e rock. Ciò che ne viene fuori è un’emozionante sequenza di lunghe e pastose jam-session che costituiscono l’apoteosi della black music, con delle sonorità tuttora freschissime e, in certi casi, ancora insuperate.

Il primo brano in programma, Prelude, dura la bellezza di 32 minuti & mezzo e basta già da solo a farci capire quanto straordinario sia questo disco. A 2’29” dall’inizio, mentre i chitarristi Pete Cosey e Reggie Lucas scavano un feroce groove coi loro strumenti, ecco il primo assolo di Miles Davis, con la tromba ad effetto wah-wah. A 8 minuti esatti, ecco invece l’assolo di sax di quello che secondo me è il miglior solista di questa esibizione, Sonny Fortune. Anticipato da un brusco stacco d’organo elettrico suonato da Davis a 11’20”, la staffetta del solista passa così a Cosey: il musicista si prodiga in uno dei più viscerali e urlanti assoli che io abbia mai sentito, fa letteralmente strillare la sua chitarra (soprattutto a partire da 14’44”), sparata a manetta sul canale sinistro dello stereo, mentre il resto della band sfodera un funk indiavolato. Le acque si calmano un po’ a 16 minuti e mezzo dall’inizio, col funk che si fa più sinuoso e ipnotico; a 19’19” torniamo quindi ad apprezzare l’effetto tremolante della tromba di Miles. A 22’17” sentiamo invece all’unisono la tromba di Miles e il sax di Sonny, in quello che è il primo accenno di melodia dopo oltre venti minuti di musica. Un minuto dopo sarà il solo Fortune a cimentarsi nell’assolo, mentre la melodia all’unisono sax-tromba sarà riproposta in seguito per altre tre volte, intervallate dagli interventi chitarristici di Cosey e percussionistici di Mtume.

Superiore alla versione da studio apparsa poco tempo prima sull’album “Get Up With It” (1974), Maiysha offre nelle sue parti più melodiche una calda e rilassata atmosfera bossa nova, scandìta dal dolce flauto solista di Fortune e dall’organo elettrico di Davis. Non mancano comunque gli assoli di Cosey e, ovviamente, uno centrale di Miles con la sua caratteristica tromba.

Il lungo brano che dà avvio al secondo ciddì, Interlude, parte con un funk veloce e nervoso, di lì a poco abbellito dal sax solista di Fortune. Quando il ritmo rallenta facendosi più epico e incalzante, a 3’08”, ecco invece il lungo assolo di Cosey. Il tutto si traduce, quando il brano ha oltrepassato i 6 minuti di durata, nel pulsante Theme From Jack Johnson (che per errore viene accreditato come titolo del brano successivo). A 8’10” entra Miles con la sua tromba, mentre la musica si fa più pacata, seppur ancora trascinante. Terminato l’assolo del leader a 13’19”, con la musica che vira in una direzione più ambient e ipnotica e lo stesso Davis che passa all’organo, ecco a 17’41” il flauto solista di Fortune che viene sorretto da un tetro ma epico groove che ci ricorda alcune suggestioni della musica africana. A 21’16” Miles torna con un nuovo assolo di tromba, per un finale che diventa via via più dinamico e incalzante.

La musica non conosce interruzioni col successivo Theme From Jack Johnson (tanto che in alcune edizioni di “Agharta” i due pezzi sono editati come una lunga composizione di oltre 50 minuti), così come viene chiamato per sbaglio il quarto e ultimo brano in programma. E’ il numero più sperimentale di “Agharta”, anticipatore delle sonorità che caratterizzeranno il secondo concerto (e quindi l’album “Pangaea”) del gruppo di Davis in quel 1° febbraio del ’75. Dopo un inizio fatto di distorsioni chitarristiche e ipnotici tappeti percussivi, a 3’21” abbiamo finalmente un assolo da parte del chitarrista Reggie Lucas, fino a quel punto del concerto “relegato” in funzione ritmica. A 5’11” ritroviamo invece la tromba di Davis, ancora una volta a marcare una sequenza musicale più pacata. A 9’03” è il nuovo turno da solista per Cosey, che scandisce un passaggio sonoro in cui l’atmosfera del brano si fa più drammatica. La musica si tranquillizza di nuovo e la staffetta dei solisti torna a Miles, che rientra a 12’47”. La natura più ambient e sperimentale di questo brano non viene però smentita e così, dopo altri cambi d’atmosfera, assoli, distorsioni e svariati effetti sonori, esso giunge a conclusione quando il display segna 25’16”.

Abbiamo parlato degli interventi solistici di Miles Davis, Pete Cosey, Sonny Fortune e, occasionalmente, Reggie Lucas, ma non si possono tacere le straordinarie abilità del bassista Michael Henderson (che ha avuto modo di suonare per il nostro nel corso di cinque lunghi anni, tanto in studio quanto dal vivo), del batterista Al Foster (uno dei più bravi che possiamo trovare accanto a Davis in un suo album live) e del percussionista Mtume. Questi sei fantastici musicisti, sotto la guida d’un leader carismatico come pochi, hanno dato vita ad uno dei dischi più impressionanti che io possa vantare nella mia collezione. Da segnalare, infine, la compostezza (o forse lo sgomento…) del pubblico giapponese che fa sì che “Agharta” suoni quasi come una meravigliosa opera da sala d’incisione. Per la gioia delle mie orecchie. – Matteo Aceto [novembre 2008 /  gennaio 2017]

Philip Roth, lo “Zuckerman Scatenato” e l’eccetera

philip roth, zuckerman scatenato, immagine pubblica“Portarsi i libri da una vita all’altra non era, per Zuckerman, una novità. Aveva lasciato la famiglia per Chicago nel 1949 mettendo nella valigia le opere annotate di Thomas Wolfe e il Roget’s Thesaurus. Quattro anni dopo, ventenne, lasciò Chicago con cinque scatole di classici, comprati di seconda mano con i soldi per le piccole spese, che rimasero nel solaio della casa dei suoi genitori nei due anni in cui fece il servizio militare. Nel 1960, quando divorziò da Betsy, trenta furono le scatole da riempire con i libri tolti da scaffali non più suoi; nel 1965, quando divorziò da Virginia, le scatole da portare via erano quasi sessanta; e nel 1969 lasciò Bank Street con ottantuno scatole di libri”.

Da “Zuckerman Scatenato” (1981) di Philip Roth, traduzione italiana di Vincenzo Mantovani per Einaudi.

Sto appunto leggendo questo libro, in questi giorni, sono soltanto a pagina 40 ma ho trovato particolarmente divertenti – e illuminanti – le righe che ho riportato sopra. I libri occupano il nostro spazio, insomma, e col tempo se ne prendono sempre di più. Quando mi trasferii dal paese alla città per andare all’università, anch’io portai come me qualche libro ma altri ancora ne comprai nel frattempo. E così, una volta tornato a casa, ne avevo ancora di più da (ri)portarmi con me. In effetti, quello che racconta Roth in questo passaggio del suo libro, è una cosa che dev’essere capitata a qualsiasi lettore affezionato che nel mentre si è trovato a cambiare casa almeno un paio di volte.

Dopo l’università m’è toccato di traslocare in qualche altra occasione (convivenza, matrimonio, eccetera), e anche lì gli scatoloni coi libri diventavano più voluminosi o semplicemente crescevano di numero. Devo dire che oggi, nella casa in cui vivo con moglie & figlia, i miei libri hanno più o meno occupato tutto lo spazio disponibile, tra un po’ avrò necessariamente bisogno di qualche mensola, se non proprio di una nuova (e più decente) libreria. Mi sono salvato, in parte, acquistando il Kindle, l’ormai famoso lettore di libri digitali della Amazon, che mi ha permesso in effetti di risparmiare non tanto i soldi quanto appunto lo spazio.

Da qualche anno a questa parte, inoltre, ho preso la cattiva (?) abitudine di leggere due, tre, quattro, perfino sette libri contemporaneamente, come sto facendo in questi ultimi tempi. Ecco, se ora mi capitasse di leggere una storia in cui il protagonista legge sette libri contemporaneamente, avrei quanto meno il sollievo di sapere che forse la mia è una condizione normale e non una patologia. O forse è semplice curiosità sospinta dalla noia. -Matteo Aceto