L’aspetto visuale della musica pop

michael-jackson-moonwalker-film-1988Sono decenni che sento parlare della visionarietà di gruppi e cantanti come Pink Floyd, Queen, Michael Jackson e Peter Gabriel, tanto per dirne qualcuno, eppure nessuna delle opere filmiche associate ai miei beniamini musicali mi ha mai veramente esaltato. Escludendo infatti una manciata di videoclip, magari girati pure da illustri registi cinematografici, solitamente l’aspetto visuale della musica pop non mi ha mai convinto del tutto. Quando ad esempio esce un nuovo album, e l’edizione deluxe include semplicemente un divuddì, state pur certi che io vado a comprarmi l’edizione standard dell’album in questione, lasciando il divuddì al tempo che trova.

Certo, oltre a uno strabiliante quantitativo di pezzi strafamosi in tutto il mondo, uno come Michael Jackson ci ha lasciato anche tutta una serie di videoclip che hanno a dir poco lasciato il segno: pensiamo soltanto a Thriller e Black Or White, girati entrambi da John Landis, rispettivamente nel 1983 e nel 1991. Eppure, quella volta che si è cimentato con il cinema vero e proprio, col film “Moonwalker”, non ci ha lasciato niente di veramente memorabile, per non dire di fondamentale per la comprensione dell’artista. Così come Prince, il quale si è cimentato per ben tre volte con l’opera filmica in quanto tale: i suoi “Purple Rain” (1984), “Under The Cherry Moon” (1986) e “Graffiti Bridge” (1990) sono tutto fuorché memorabili pellicole da guardare e riguardare per la gioia degli occhi.

E che dire dei miei amati Queen? C’è chi sostiene che quello girato per Bohemian Rhapsody nel 1975 sia il primo videoclip della storia (anche se, secondo me, i Beatles hanno preceduto tutti con Strawberry Fields Forever e Penny Lane, se non già con Paperback Writer e Rain dell’anno prima, il 1966), ma ad ogni modo non fa che animare la copertina di “Queen II”, un album uscito l’anno prima. Insomma, per quanto possa essere considerato innovativo per l’epoca, un video come Bohemian Rhapsody sembrava più guardare al passato che annunciare il futuro. E in effetti, i videoclip dei Queen che gli sono susseguiti negli anni non sono particolarmente memorabili o quantomeno espressivamente rilevanti.

Ci sono stati casi di commistione disco/film più interessanti nel caso di Who e Pink Floyd: entrambi questi storici gruppi inglesi hanno prodotto delle opere che possiamo definire multimediali, come nel caso di “Tommy” (1975, diretto da Ken Russell) e “Quadrophenia” (1979, diretto da Franc Roddam) per i primi e “The Wall” (1982) per i secondi. Vi dirò la mia: pur avendo ascoltato (e in un caso comprato) i due classici degli Who, non ho mai sentito l’esigenza d’andarmi a vedere i loro film (li considero dei tipici film generazionali, buoni cioè per quella generazione che li ha visti al cinema, all’epoca), mentre “The Wall” di Alan Parker è tutto fuorché una visione piacevole. Musica a parte, è uno di quei film che puoi vedere una volta, anche due o tre, ma poi basta così, grazie.

Nel corso degli anni Ottanta, quando il videoclip iniziò a farsi inevitabilmente più spettacolare (anche e soprattutto per il fenomeno Jackson), molti musicisti provarono a dare uno sfogo più compiuto alla loro visionarietà. Ne ricordo alcuni tra quelli che ho visto o meno, da Matt Johnson, alias The The, che mise assieme i videoclip girati per ognuno dei brani dell’album “Infected” (1986), presentando il tutto come un mini film da un’ora di durata, a David Byrne che con “True Stories” (1986) realizzò un vero e proprio film, passando per “Hell W10” (1983) dei Clash e “JerUSAlem” (1987) degli Style Council, tanto sconosciuti al grande pubblico quanto ambìti dai cacciatori di rarità.

Sorvolando sui trascorsi cinematografici di MadonnaDavid Bowie e Sting (i quali hanno però preso parte a pellicole cinematografiche “pure”, per così dire, film realizzati a prescindere dai loro dischi e non necessariamente di tipo musicale), passo infine a Beyoncé, che dal 2013 ha iniziato a distribuire i suoi album sotto forma di veri e propri dischi audio/video, dove all’immagine è riservata la stessa importanza data alla musica. Tuttavia, per quanto io trovi mooooolto fisicamente attraente la bella Beyoncé, non ho finora sentito l’esigenza di procurarmi queste che, tutto sommato, dovrebbero essere pure delle prove creative degne di nota. Insomma, mi accontento di ammirare la sua avvenenza in quelle rare occasioni in cui sintonizzo la mia tivù su quale canale musicale.

E questo, per quanto mi riguarda, vale un po’ per tutti i nomi che ho citato e per quelli che, pur avendo visto, ho al momento dimenticato. Il mondo del pop, in definitiva, quando ha lasciato lo studio d’incisione per entrare in un set cinematografico non mi ha mai veramente colpito. Non so se resta soltanto una mia impressione. – Matteo Aceto

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Pink Floyd, “The Wall Live 1980-81”, 2000

pink-floyd-the-wall-live-1980-1981Sempre a proposito di album dal vivo, Miles Davis non è certamente il solo ad aver pubblicato dei live coi controcazzi: fra di essi c’è infatti un epocale doppio album dal vivo dei Pink Floyd, lo straordinario “Is There Anybody Out There? / The Wall Live 1980-81”, edito nel 2000 in occasione del ventennale del celebre “The Wall“.

Un fantastico doppio album che andai a comprare quasi subito, optando per la più costosa ma più bella ‘limited edition’, ovvero i due ciddì cofanettati in una lussuosa confezione cartonata (nella foto). Si tratta della rappresentazione integrale che i Pink Floyd diedero del loro capolavoro, fra il 1980 e il 1981, in quattro selezionate arene fra gli USA e l’Europa: partita dalla Los Angeles Sports Arena nel febbraio ’80, la rappresentazione dal vivo di “The Wall” continuò per un anno per concludersi quindi alla Wastfallenhande di Dortmund (Germania) nel febbraio ’81. Le altre due arene erano il Greater Nassau Coliseum di New York (febbraio ’80) e la celebre Earl’s Court di Londra (agosto ’80 e giugno ’81).

Se il limite principale di un’opera come “The Wall” stava nei suoi sofisticati effetti sonori, di difficile riproposizione in un contesto dal vivo (tanto che si fece abbondante ricorso a nastri di effetti che, manovrati dal tecnico James Guthrie, entravano fra le canzoni quando dovevano entrare), è anche vero che questi concerti fornivano la storia in musica della versione originariamente concepita da Roger Waters. Un’opera dalla lunghezza prossima alle due ore e bastevole a riempire tre elleppì; come sappiamo, invece, “The Wall” venne ridotto fino a rientrare in due canonici vinili ma dal vivo l’opera non perse nulla della sua forza, includendo anche alcune canzoni che – sempre per motivi di spazio & tempo – erano state scartate dall’edizione discografica.

Personalmente continuo a preferire la classica versione da studio di “The Wall”, un disco che reputo pressoché perfetto, tuttavia devo ammettere che diverse canzoni contenute in questo “Is There Anybody Out There?” suonano decisamente meglio nella loro esecuzione dal vivo. C’è da dire, però, che il prodotto audio finale è un magistrale taglia-e-cuci dei momenti migliori della spettacolare versione live di “The Wall”, anche all’interno delle canzoni stesse, per cui, per fare un esempio, può essere che il cantato (o parte di esso) di una canzone sia stato inciso in Germania nel 1981 mentre gli assoli di chitarra possono risalire ad un concerto americano dell’anno prima. Il risultato finale è comunque meraviglioso e ci offre la miglior rappresentazione sonora possibile dei Pink Floyd in azione dal vivo con “The Wall”, in quello che fu l’ultimo tour di Waters in seno alla band, nonché l’ultimo tour dei Pink Floyd come quartetto.

Fatte queste debite introduzioni e precisazioni, addentriamoci ora in una breve disanima traccia dopo traccia del contenuto di “Is There Anybody Out There?” così come è stato pubblicato dalla EMI nel 2000.

  1. MC: Atmos: introduzione dello show da parte del presentatore Gary Yudman, il quale dà il benvenuto al pubblico inglese dell’Earl’s Court (in realtà, come già detto, questa non è l’esibizione integrale di un preciso concerto ma un montaggio audio coi momenti migliori dell’intero tour).
  2. In The Flesh?: irrompe brutalmente mentre il buon Yudman sta dando le ultime noiose raccomandazioni al pubblico. E’ però una versione un po’ fiacca, nettamente inferiore alla In The Flesh? incisa in studio.
  3. The Thin Ice: anch’essa non riesce ad eguagliare la bellezza della versione da studio; David Gilmour è fin troppo impassibile (sia alla voce che alla chitarra) mentre il canto di Roger tradisce un po’ d’emozione. Insomma, l’inizio di questo disco lascia un po’ a desiderare…
  4. Another Brick In The Wall, Part 1: questa versione riesce invece ad emozionare alla stessa maniera del pezzo originale, anzi la dimensione dal vivo risalta ancor di più la sua maestosa atmosfera dark.
  5. The Happiest Days Of Our Lives: abbastanza fedele all’originale da studio, con tanto di effetto d’elicottero in avvicinamento.
  6. Another Brick In The Wall, Part 2: rende giustizia al duetto vocale fra Roger e Dave (mentre il mix da studio favoriva Dave) e inoltre annovera ulteriori passaggi strumentali, molti dei quali chitarristici.
  7. Mother: oltre ad essere più lenta, estesa ed atmosferica rispetto alla versione da studio, è addirittura migliore di quella, grazie soprattutto ad un lungo ed emozionante assolo di chitarra centrale.
  8. Goodbye Blue Sky: praticamente identica alla versione da studio.
  9. Empty Spaces: leggermente più lunga nella parte cantata, con Roger che recita il testo originariamente concepito, con il tutto che si raccorda al brano successivo come un’unica sequenza.
  10. What Shall We Do Now?: rock martellante e suggestivo, scartato dall’album del ’79 (tanto che la precedente Empty Spaces – che di fatto ne costituiva l’introduzione – venne riscritta) ma sempre presente negli spettacoli dal vivo di “The Wall”, così come nella versione filmica di Alan Parker.
  11. Young Lust: piuttosto fedele alla versione da studio anche se possiamo apprezzarne quell’attacco iniziale che su disco si perdeva a causa della sua sovrapposizione alla precedente Empty Spaces.
  12. One Of My Turns: ricalca fedelmente la versione da studio ma si avverte benissimo la performance dal vivo di quest’altra magnifica canzone.
  13. Don’t Leave Me Now: fra i pezzi meno adatti ad essere riproposti dal vivo, la sequenza finale è forse più vivace della versione in studio.
  14. Another Brick In The Wall, Part 3: appena più accelerata, questa versione è anch’essa più accattivante rispetto alla versione da studio.
  15. The Last Few Bricks: non è una canzone inedita (così come pubblicizzò la EMI nel 2000) ma un interessante medley strumentale fra The Happiest Days, Young Lust e Empty Spaces. Oltre ad estendere lo spettacolo, questa sequenza dava anche più tempo agli operai d’innalzare il (finto) muro di mattoni fra il pubblico e la band.
  16. Goodbye Cruel World: leggermente più lunga ma fedele all’originale, quando Roger finiva di cantarla, due operai sul palco fissavano l’ultimo mattone del muro, che andava proprio a nascondere il volto del bassista. A questo punto dello spettacolo finiva la prima parte della rappresentazione e in questo caso giunge a conclusione il primo ciddì.
  17. Hey You: qui la band suona ormai dietro quel muro che la separa dal pubblico. Si tratta di una versione piuttosto fedele alla magnifica canzone originale, con la presenza del pubblico che contribuisce un po’ ad alleviarne il senso di sconforto.
  18. Is There Anybody Out There?: almeno nella sequenza iniziale, quella più dark dove Roger chiede se ‘c’è qualcuno là fuori [oltre il muro]?’, siamo alle prese col nastro della versione da studio mentre il pubblico grida & risponde all’insistente domanda. La seconda parte, invece, presenta dal vivo il bel duo di chitarre acustiche mentre tutti gli altri effetti sono anch’essi preregistrati.
  19. Nobody Home: fra i brani più introspettivi e commoventi dei Pink Floyd, questa versione dal vivo veniva salutata dal pubblico ogni volta che da una finestrella del muro spuntava Waters seduto tutto solo nella sua (finta) camera d’albergo. Anche qui siamo in presenza di numerose parti preregistrate (orchestra, televisione in sottofondo e schiamazzi vari) ma il canto dal vivo di Roger resta intenso ed appassionato.
  20. Vera: anche quest’altro toccante numero è registrato dal vivo solo per metà ma il canto di Roger pone tutto nella giusta prospettiva.
  21. Bring The Boys Back Home: fedele all’originale in studio, anche perché la base e il coro sono gli stessi, con la voce di Waters in maggior evidenza.
  22. Comfortably Numb: non solo una delle canzoni più belle dei Pink Floyd ma anche una delle canzoni più belle del mondo, questa versione ci permette di apprezzarne appieno tutta l’intensità rock, soprattutto nell’assolo finale di Gilmour, portato a conclusione e non sfumato come nella versione da studio. Per il resto l’orchestra è preregistrata, l’esecuzione è alquanto fedele ma l’emozione di ascoltare questo capolavoro è sempre grandissima. Da pelle d’oca!
  23. The Show Must Go On: fra le cose più interessanti di questo “The Wall Live”, giacché possiamo apprezzarne il testo integrale – cantato da Dave – che sul disco del ’79 veniva notevolmente abbreviato.
  24. Mc: Atmos: sempre la sola voce del presentatore Yudman, stavolta con un ridicolo effetto di nastro rallentato, che annuncia quella che – secondo la trama della rappresentazione – era un ‘ gruppo surrogato’ giacché Pink stava male in albergo. E’ qui che i Pink Floyd rientrano in scena – ponendosi davanti al muro – con quel discusso abbigliamento in stile nazista.
  25. In The Flesh: se l’iniziale In The Flesh? risulta opaca rispetto alla versione da studio, questa è invece molto più convincente e riesce a non far rimpiangere troppo quella su disco.
  26. Run Like Hell: introdotta da una sarcastica arringa di Roger agli spettatori, questa versione è superiore a quella ben più nota da studio ed è più convincente di qualsiasi altra esecuzione di Run Like Hell che i Pink Floyd del dopo-Waters hanno proposto nei loro concerti. Da brividi il rabbioso scambio di versi – di fatto un duetto – fra Dave e Roger, con la musica tesa, tirata e incalzante. Fra i momenti culminanti di questo disco, sette minuti di puro godimento!
  27. Waiting For The Worms: pur piuttosto fedele all’originale, non riesce tuttavia a riprodurne la totale drammaticità della versione da studio.
  28. Stop!: breve interludio per piano e voce, anch’esso fedele all’originale.
  29. The Trial: il brano più teatrale dei Pink Floyd, in una versione leggermente estesa ma alquanto fedele, con Roger ad interpretare magnificamente tutti i personaggi di questo processo (mentre sul muro venivano proiettate quelle magnifiche sequenze animate di Gerald Scarfe che poi sarebbero state reimpiegate nel film di Parker) al termine del quale – accolto da un boato del pubblico – viene abbattuto il muro.
  30. Outside The Wall: una versione più lunga e molto meno scarna di quella apparsa su disco, al termine della quale un sensibilmente soddisfatto Waters ringrazia e saluta il pubblico e i dodici componenti del gruppo (sì… i quattro Floyd più altrettanti musicisti aggiuntivi, più i quattro coristi) fanno i dovuti inchini alla folla.

Descrivendo alla bellemmeglio queste trenta canzoni, ho citato diverse volte lo spettacolo visuale che faceva parte integrante del concerto: nel 2000 Roger Waters impedì una pubblicazione anche in formato video di “The Wall Live 1980-81” ma pare che in questo 2009 dovrebbe veder la luce anch’esso. Se non altro, qualche mese fa lessi che Roger stava visionando alcuni filmati per poi scegliere le sequenze migliori… speriamo bene! Per il resto, a chi volesse arricchire questa lettura con ulteriori dettagli, consiglio quest’altro post. In conclusione, dunque, chi ama quel capolavoro di “The Wall” non potrà non apprezzare anche questa magnifica versione dal vivo: la consiglio perciò caldamente a tutti gli appassionati floydiani. Un annetto fa la versione standard del live è stata deprezzata per la categoria ‘special price’, per cui quale occasione migliore per colmare una tale eventuale lacuna?

– Matteo Aceto

Peter Gabriel

peter-gabriel-immagine-pubblicaNel mio vecchio blog, Parliamo di Musica, avevo già dedicato un post a Peter Gabriel ma ho preferito non trasferirlo qui e scriverne quindi uno nuovo. In effetti si trattava più di una protesta che della storia del celebre cantante inglese, perché ritengo Peter un tantino sopravvalutato. A quanto pare sono uno dei pochi appassionati dei Genesis che non lo rimpiange, avendo nutrito sempre più simpatia per Phil Collins che per lui. Credo che l’era Gabriel dei Genesis (1969-1975) abbia prodotto dei dischi stupendi non per la presunta grandezza del nostro, ma dal contributo di cinque grandi artisti – Gabriel compreso, ovviamente – che hanno fatto un lavoro eccellente finché hanno lavorato insieme. Poi, a giudicare dai due album realizzati dai Genesis prima dell’arrivo di Phil Collins e Steve Hackett, cioè “From Genesis To Revelation” (1969) e “Trespass” (1970), e da quello immediatamente successivo all’abbandono di Peter, vale a dire “A Trick Of The Tail” (1976), mi lascia pensare che la mente più ispirata in seno ai Genesis non fosse certamente Peter Gabriel. Questo confrontando inoltre la produzione post-Gabriel dei Genesis coi lavori solisti di Peter. Voglio dire, non mi pare che i Genesis guidati da Phil Collins abbiano fatto così tanto schifo così come non mi pare che i dischi solisti di Gabriel siano tutti dei capolavori. Fatta questa premessa – spero non troppo contorta – passo più specificatamente alla carriera solista del nostro.

Peter Gabriel, classe 1950, abbandona la band che gli aveva dato una prima notorietà internazionale, i Genesis per l’appunto, nella primavera del ’75, dopo essere stato il maggior ispiratore del primo concept-album del gruppo, lo stupendo “The Lamb Lies Down On Broadway” (1974). Tuttavia, col resto dei Genesis che procede come quartetto incontrando per giunta il maggior successo in classifica fino a quel punto della loro storia col magnifico “A Trick Of The Tail” (1976), Peter si concede un anno sabbatico, in modo da riordinare le sue turbolente idee. Tornerà alla ribalta l’anno successivo, nel 1977, con un indimenticabile singolo,
Solsbury Hill, e un primo album omonimo dalla resa altalenante. Prodotto da Bob Ezrin (già al lavoro con Lou Reed e in seguito coi Pink Floyd), “Peter Gabriel” è comunque un risultato pregevole, suonato da ospiti prestigiosi (cosa che si ripeterà per tutti i dischi successivi di Peter) quali Robert Fripp, Tony Levin e lo stesso Phil Collins, tuttora grande amico del nostro.

Peter Gabriel bissa l’operazione nel ’78, con un secondo album omonimo, stavolta con Robert Fripp anche in veste di produttore. Purtroppo il lavoro si rivela essere il peggiore fra gli album del nostro, tanto che nella sua prima raccolta, “Shaking The Tree” (1990), figureranno brani estratti da ogni album di Peter tranne che da questo. Nel ’78, tuttavia, Peter Gabriel ha la possibilità di riavvicinarisi, almento dal punto di vista umano, ai suoi ex colleghi dei Genesis, comparendo a sorpresa in un bis d’un loro concerto.


Prodotto da
Steve Lillywhite, ecco nel 1980 un terzo album omonimo da parte di Gabriel, quello contenente I Don’t Remember, Games Without Frontiers, Family Snapshot e soprattutto la straordinaria Biko. Per me è questo suo terzo album il migliore della discografia solista di Peter Gabriel, l’unico del quale non potrei mai separarmi, anch’esso forte della partecipazione di ospiti illustri: oltre agli ormai abituali Tony Levin (che suona il basso nelle canzoni e nei concerti di Peter anche oggi) e Robert Fripp, l’album vanta nuovamente Phil Collins ma anche John Giblin, Kate Bush e Paul Weller, all’epoca ancora leader dei Jam. Per quanto bello e importante, c’è da dire che questo disco non ottenne chissà quale successo mentre in quell’anno i Genesis ottenevano il loro primo numero uno nella classifica inglese con l’album “Duke”, un lavoro certamente non commerciale (con Steve Hackett ormai fuori dal gruppo) che non ha nulla da invidiare all’arte di Peter Gabriel.

Il primo vero successo di Peter è considerato invece il suo quarto album, pubblicato nel 1982, l’ultimo della quadrilogia di dischi omonimi, spinto dall’irresistibile singolo di
Shock The Monkey, senza dubbio uno dei pezzi più famosi del nostro. Un bel disco questa quarta fatica di Gabriel, non c’è che dire, con una virata maggiore in direzione della world music (introdotta già in alcune sonorità del suo album precedente) e un’accentuazione delle atmosfere dark. Oltre a Shock The Mokey, voglio ricordare la stupenda San Jacinto, la saltellante I Have The Touch e l’intensa The Rhythm Of The Heat. Il 1982 è un anno importante per Peter Gabriel anche per un altro motivo: organizza la prima edizione del noto festival etnico chiamato WOMAD (World Of Music And Dance), il quale, stentando a lanciarsi nei primi giorni, viene rivitalizzato da un’inaspettata reunion di Peter Gabriel coi Genesis, che eseguono quindi un set tratto da “The Lamb Lies Down On Broadway”.

Sono anni, per il nostro, in cui comincia a cimentarsi in altri territori, quali il cinema e il supporto ad artisti provenienti dal terzo mondo (il senegalese Youssou N’Dour è probabilmente la maggiore scoperta di Peter in questo senso). E così, dopo aver pubblicato un album dal vivo nel 1983, “Plays Live”, Gabriel realizza la colonna sonora d’un film di Alan Parker, “Birdy” (1984), peraltro riciclando alcune basi strumentali già impiegate nei suoi album. Torna col suo quinto album solista soltanto nel 1986, stavolta un disco con un titolo tutto suo, “So”: tuttora il maggior successo commerciale del nostro e molto probabilmente l’album più amato dai suoi fan, “So” vanta brani memorabili come la famosa Sledgehammer, la tenera Don’t Give Up (dove Peter torna a collaborare con Kate Bush), la ritmata Big Time e soprattutto la straordinaria e imponente Red Rain.

Nel 1988 Peter Gabriel torna a cimentarsi con le colonne sonore, stavolta musicando il controverso film “L’Ultima Tentazione di Cristo” di
Martin Scorsese. Pesantemente intrisa di world music e suonata con strumenti e musicisti mediorientali, la celebrata colonna sonora verrà pubblicata nel 1989 col titolo di “Passion”, mentre Peter torna in studio per incidere il suo sesto album da solista. E qui comincia quella lungaggine nella lavorazione d’un disco da parte del nostro che continua tuttora: il risultato finale delle sedute vede infatti la luce solo nel ’92, anche se si tratta d’un buon disco, “Us”, forte del singolo Steam (una rivisitazione del fortunato Sledgehammer) ma anche di Blood Of Eden (un duetto con Sinéad O’Connor, che all’epoca ebbe una storia col nostro), Digging In The Dirt e Come Talk To Me.

Per quanto Peter Gabriel non sia affatto inattivo nella parte restante degli anni Novanta (collabora con altri artisti, incide musiche sperimentali – arrivando a far suonare dei gorilla in studio – realizza suoni e canzoni per opere multimediali, compone colonne sonore, partecipa a lodevoli iniziative umanitarie…), “Us” risulterà il suo unico album da studio pubblicato in quel decennio. Bisognerà infatti attendere il 2002, ben dieci anni dopo, per vederne un seguito nei negozi, vale a dire il deludente “Up”. Non che “Up” sia un brutto disco ma, fin dalla prima volta che l’ho ascoltato, ho avuto la netta impressione di trovarmi alle prese con una raccolta di brani inediti più che un lavoro unitario e compatto. E’ a quel punto che comincio a disaffezionarmi a Peter Gabriel… fa aspettare i fan per dieci anni e poi fa uscire una roba del genere?!

All’epoca il buon Peter promise che i suoi fanatici ammiratori non avrebbero dovuto aspettare tanto per il seguito di “Up”, che sarebbe uscito addirittura nel 2004. Siamo nel 2007… sono già passati cinque anni… confesso che non faccio più parte di quelli che stanno ad aspettare il nuovo ciddì di Peter Gabriel. Oggi come oggi non potrebbe fregarmene di meno. – Matteo Aceto

Pink Floyd, “The Wall”: i mattoni sparsi

pink-floyd-the-wall-film-alan-parker-immagine-pubblicaEccomi qui alle prese con l’ultimo post dedicato a “The Wall” dei Pink Floyd, una pietra miliare del rock… o meglio, un muro miliare del rock!

Dunque, tra il dicembre ’79 e il gennaio ’80, l’album volò al vertice della classifica in molti Paesi, tra i quali la nativa Gran Bretagna e gli Stati Uniti: oggi, coi suoi venticinque milioni di copie vendute, “The Wall” è il disco degli anni Settanta più venduto al mondo, una cifra ancora più straordinaria se si pensa che si tratta d’un doppio. Ora però procediamo con la storia, che i record e i numeri non mi hanno mai affascinato troppo.

Uno dei temi portanti di “The Wall” è la dimensione alienante tra artista ed audience sperimentata in prima persona col tour “In The Flesh” del 1977: Roger Waters è assolutamente contrario a portare lo spettacolo di “The Wall” negli stadi. Sono così previsti degli show in arene con un massimo di quindicimila posti, dove tutti possano godersi la musica e gli straordinari effetti visivi appositamente preparati: la costruzione effettiva da parte d’una squadra di operai d’un muro di cartone alto oltre quattro metri e lungo oltre i dieci; dei montacarichi per permettere agli operai di muoversi ma anche alla band di seguire alcune ambientazioni della storia; il classico schermo circolare tipico dei concerti dei Pink Floyd dove proiettare gli incredibili cartoni animati realizzati dalla squadra di Gerald Scarfe; ultimi ma non ultimi, gli effetti scenici degli enormi pupazzi gonfiabili, con tanto di luci accessorie, che rappresentano i vari protagonisti della storia narrata in “The Wall”.

Mentre la band ed i propri collaboratori progettavano questo nuovo spettacolo si era pensato anche di creare di volta in volta una speciale arena da montare in ogni città attraversata dal tour. La struttura era caratterizzata esteriormente da una forma a lumaca nuda che infine, per complicanze logistiche, si decise di accantonare: si scelsero invece quattro arene dove replicare più volte lo stesso spettacolo. E così, partita dalla Los Angeles Sports Arena nel febbraio ’80, la rappresentazione dal vivo di “The Wall” continuò per un anno per poi concludersi alla Wastfallenhande di Dortmund (Germania) nel febbraio ’81. Le altre due arene ‘intermedie’ erano il Greater Nassau Coliseum di New York (febbraio ’80) e la celebre Earl’s Court di Londra (agosto ’80 e giugno ’81).

Un’eccellente sintesi di queste quattro lunghe performance nelle quali i Pink Floyd eseguivano per intero “The Wall” costituisce l’album “Is There Anybody Out There?/The Wall Live“, pubblicato nel 2000. In due CD viene così riproposto lo spettacolo completo (solo audio però) della rappresentazione di “The Wall” da parte dei nostri: molte delle canzoni acquisiscono più spessore dal vivo, alcune sono invece estese per permettere nel frattempo agli operai di completare la costruzione effettiva del muro (l’ultimo mattone veniva posto appena Roger finiva di cantare Goodbye Cruel World, terminando la prima parte dello spettacolo). La cosa più interessante è però l’inclusione di parti che per ragioni di tempo e di sintesi narrativa erano state escluse dall’album in studio (il produttore Bob Ezrin convinse Waters a realizzare due LP da quaranta minuti l’uno): e così possiamo ascoltare canzoni escluse (la potente What Shall We Do Now? ma anche un grandioso medley strumentale chiamato The Last Few Bricks) o nella loro forma originaria (Empty Spaces e The Show Must Go On, entrambe più lunghe e con testi diversi). Da segnalare che in questi incredibili spettacoli dal vivo i Pink Floyd erano ben otto (!) più quattro coristi: otto perché Roger Waters (voce, basso, chitarra), David Gilmour (voce, chitarra, basso), Nick Mason (batteria) e il povero Rick Wright (tastiere) erano supportati dal bravissimo Snowy White (chitarra, già coi nostri dal vivo prima e dopo “The Wall”), da Peter Woods (tastiere), da Andy Bown (basso), da Willie Wilson (batteria) e da Andy Roberts (che sostituì White alla chitarra negli spettacoli del 1981). Tutte le altre informazioni su “The Wall Live”, comprese le note tecniche & i disegni & le foto del progetto & le interviste & tutto quello che più desiderate sapere su quest’affascinante rappresentazione rock-teatrale lo trovate nel cofanetto di “Is There Anybody Out There?” (2000), un disco che consiglio a tutti gli amanti sfrenati dei Pink Floyd come me.

Dopo i concerti, si passò all’ultima fase della multimedialità insita in “The Wall”, ovvero la realizzazione del film vero e proprio. Qui le cose si fecero notevolmente più complicate e, in definitiva, più stressanti: il film, chiamato semplicemente “Pink Floyd The Wall”, uscì nel corso del 1982 riscuotendo comunque un grosso successo. Diretto da Alan Parker (più volte in rotta di collisione con Waters, che scrisse la sceneggiatura), il film figura un giovane Bob Geldof – allora leader dei Boomtown Rats – nella parte principale, quella di Pink. C’è anche il bravissimo attore Bob Hoskins ma le cose che personalmente apprezzo di più in questo film sono le bellissime sequenze animate: davvero un’arte sopraffina, molto immaginifica e coinvolgente. E poi la musica… anche qui sono state incluse alcune canzoni che non avevano trovato spazio nell’album del 1979, ovvero What Shall We Do Now? e la versione lunga di Empty Spaces. Manca Hey You ma c’è una nuova composizione watersiana, When The Tigers Broke Free (pubblicata come singolo nell’aprile ’82), ci sono alcune riesecuzioni, come le nuove versioni di Mother, Bring The Boys Back Home e In The Flesh (quest’ultima gridata più che cantata da Bob Geldof), una In The Flesh? e una Stop! cantate ancora da Geldof, un breve interludio strumentale che anticipa Your Possible Pasts (completa nel prossimo album dei Pink Floyd, “The Final Cut“). Anche Outside The Wall, che accompagna i titoli di coda, è notevolmente diversa: oltre ad essere necessariamente più lunga, include anch’essa parti musicali che Roger Waters stava orchestrando con Michael Kamen e che vedranno la luce sul successivo “The Final Cut”.

Ora, questo legame tra “The Wall” e “The Final Cut” è molto stretto: inizialmente, Waters pensava di pubblicare gli scarti di “The Wall” (What Shall We Do Now?, Your Possible Pasts, The Hero’s Return, ma anche la nuova When The Tigers Broke Free) su un album dei Floyd chiamato “Spare Bricks”. Poi il nome cambiò in “The Final Cut”, tanto che quando uscì il singolo di When The Tigers Broke Free, sul retro copertina veniva chiaramente indicato questo titolo. Il nome alla fine restò quello ma il contenuto cambiò notevolmente: in quei giorni l’Inghilterra imperialista di Margaret Thatcher aveva dichiarato guerra all’Argentina di Leopoldo Gualtieri per quattro isolotti chiamati Falklands. Quest’inutile guerra suscitò la profonda indignazione di Roger Waters, tanto da spingerlo a scrivere del nuovo materiale e a far pubblicare il suo ultimo album con i Pink Floyd nell’aprile 1983… una commovente critica alla guerra dedicata al suo papà morto ad Anzio nel ’44. Ma questa è un’altra storia che sicuramente meriterà di essere raccontata in un altro post. – Matteo Aceto

Pink Floyd: storia e discografia

pink-floyd-classifica-immagine-pubblica-blogLa mia conoscenza di questo gruppo inglese parte veramente da lontano, molto lontano: in casa ho delle fotografie di quando avevo solo tre anni che mi mostrano con delle enormi cuffie collegate al potente stereo di mio zio… in famiglia mi hanno detto che stavo ascoltando proprio loro, i grandissimi Pink Floyd.

In un post precedente, parlando di Syd Barrett, ho citato l’esordio di questa celebre band, per cui vado avanti con la storia, che riparte quindi dal principio del 1969. I Pink Floyd, un quartetto costituito da Roger Waters (voce e basso), Richard Wright (tastiere e voce), Nick Mason (batteria) e dal nuovo acquisto David Gilmour (voce e chitarra), sembrano aver smarrito la strada del pop e pensano di riciclarsi come compositori di musiche per film. Accettano così la proposta del regista francese Barbet Schroeder di musicargli il film “More”: ne esce fuori una colonna sonora apprezzabile, chiamata anch’essa “More”, che restituisce fiducia ai quattro e li spinge a tornare in studio per un terzo album.

I Pink Floyd, stavolta, intendono realizzare un disco altamente sperimentale e psichedelico, e per rendere più appetibile il tutto lo abbinano ad un elleppì dal vivo, contenente anche una fantastica versione della barrettiana Astronomy Domine: il doppio album vede la luce in ottobre col titolo di “Ummagumma”, uno slang studentesco per indicare il rapporto sessuale. Ma la creatività del gruppo non si arresta e porta alla composizione d’una lunga suite strumentale che viene presentata in Francia con un corpo di ballo. Il brano diventerà Atom Heart Mother grazie alla collaborazione dell’arrangiatore e orchestratore Ron Geesin (ai primi del 1970 al lavoro con Roger Waters su un’altra colonna sonora, “The Body”) e costituirà l’intera facciata A del nuovo album dei Pink Floyd, l’omonimo “Atom Heart Mother”. Sul lato B ci sono tre canzoni scritte e cantate dai rispettivi autori (If per Waters, Summer ’68 per Wright e Fat Old Sun per Gilmour) più l’incredibile pezzo psichedelico Alan’s Psychedelic Breakfast, una composizione collettiva tra le più suggestive dei nostri. “Atom Heart Mother” viene pubblicato nell’ottobre 1970 e la sua copertina è una delle più famose ed imitate al mondo: la mucca al pascolo che si gira a guardarci incuriosita, chi non ce l’ha presente?!

Sempre nel ’70, i Pink Floyd incidono anche alcuni brani per la colonna sonora del film di Michelangelo Antonioni, “Zabriskie Point”, ma l’esperienza non si rivela delle più ispirate. Comunque, nel 1971, la band torna con un nuovo album, “Meddle”, contenente la famosa One Of These Days e la mastodontica suite di Echoes. In estate i Pink Floyd suonano dal vivo fra le rovine di Pompei e vengono quindi immortalati nel suggestivo film musicale intitolato “Live At Pompeii” (1972).

Nel ’72 la band è nuovamente in pista con un’altra colonna sonora: si tratta di musicare il seguito di “More”, un film chiamato “La Vallée”. Ne viene fuori “Obscured By Clouds”, probabilmente l’album più debole dei Pink Floyd, tuttavia interessante per alcune soluzioni che adotta e che saranno riproposte con ben altri risultati nei lavori successivi. Nel corso di quell’anno, inoltre, i Floyd presentano dal vivo quello che viene comunemente inteso come il loro capolavoro, “Dark Side Of The Moon”, un album straordinario che viene pubblicato nel marzo ’73. Il disco riscuote subito un enorme successo mondiale, spedendo per la prima volta i Pink Floyd in vetta alla classifica americana. Tuttora “Dark Side” è l’album che nella storia del rock è stato per più tempo in classifica: dal ’73 al ’88 è stato ininterrottamente tra i cento dischi più venduti negli USA, ricomparendo più volte negli anni successivi.

Tornando al 1973-74, per i Pink Floyd il successo e il clamore diventano una sbornia che lascia i segni: il gruppo è ormai ‘arrivato’, s’è fatto un sacco di soldi, la sua musica è la sintesi magnifica di cinque anni consecutivi di sperimentazioni. Che altro possono fare, si chiede soprattutto Roger Waters. Fino a quel punto ogni membro dei Pink Floyd ha collaborato, chi più chi meno, alla composizione del materiale e alla sua produzione. Dopo “Dark Side” la storia cambia, con Roger che inizia ad assumere il controllo della band: è grazie al suo impulso che i Pink Floyd tornano in studio alla fine del ’74 per dare un seguito a “Dark Side”. Si lavora sul tema dell’assenza, che Roger percepisce dai rapporti tra i membri del gruppo, ma anche dalla nostalgia per Syd Barrett. Da qui canzoni malinconiche come Wish You Were Here e Shine On You Crazy Diamond, ma anche brani che cantano la disillusione per i lustrini dello show-business come Have A Cigar e Welcome To The Machine. Checché ne dica Waters, l’atmosfera in studio genera un nuovo capolavoro, “Wish You Were Here”, forse l’album più immaginifico dei Pink Floyd. Altro numero uno in tutto il mondo & uno dei dischi più venduti ed apprezzati della storia del rock.

“Wish You Were Here” non vede nessun contributo compositivo da parte di Mason, mentre il successivo album, “Animals”, non contemplerà nessun contributo compositivo da parte di Wright. “Animals”, pubblicato nel gennaio ’77, può essere infatti considerato il primo d’una trilogia di album fortemente watersiani, dove il bassista diventa il protagonista indiscusso del suono e delle tematiche floydiane. Se i suoni si fanno più duri e cattivi, i testi diventano via via più personali e sempre più intrisi di cruda realtà (il dramma della guerra, l’abuso della grande industria ai danni dell’ambiente, la competizione arrivistica, i sistemi oppressivi sperimentati fin dalla scuola, lo status di rockstar che comporta barriere tra se stessi e le persone amate) a dispetto dell’immaginazione e della divagazione psichedelica. Tutto ciò sfocia in maniera più compiuta nell’album successivo, il celeberrimo “The Wall”, un doppio album che viene pubblicato nel novembre 1979. L’album, oltre ad avvalersi della sola composizione di Waters (soprattutto lui) e Gilmour, non viene più prodotto dai Pink Floyd, bensì dai soli Waters e Gilmour col produttore-arrangiatore canadese Bob Ezrin. I tre danno però vita ad un capolavoro indiscusso del rock, il mio album preferito in assoluto.

Ma “The Wall” è un concept-album che travalica l’idea stessa di album musicale: i Pink Floyd vi lavoreranno per altri tre anni, rappresentandolo in una serie di concerti e immortalandolo in un film diretto da Alan Parker. L’album conclusivo della trilogia watersiana, chiamato profeticamente “The Final Cut”, vede comunque la luce nella primavera del 1983: in pratica è un album solista di Roger, tanto che viene dedicato a suo padre, morto nel ’44 durante la guerra. Ai lavori partecipano i soli Mason e Gilmour, seppur col minimo apporto, con Wright che viene fatto fuori al termine del tour di “The Wall” nel 1981 (anche se la sua effettiva partecipazione alle sedute di “The Wall” è discutibile). Checché se ne dica, “The Final Cut” è uno dei dischi migliori dei Pink Floyd, un sincero e sentito atto di accusa contro la guerra, nonché una commovente commemorazione dei caduti per un mondo migliore, un mondo che finora non ha mantenuto di certo le sue promesse.

Per la prima volta dopo la pubblicazione d’un loro album, i Pink Floyd non vanno in tour, anzi ognuno torna in studio per contro proprio tanto che nel 1984 usciranno quattro album solisti, uno per ogni componente della band. La storia sembra concludersi definitivamente solo nel dicembre ’85, quando Roger Waters annuncia la sua dipartita dai Floyd: nella sua mente, la band non ha più nulla d’aggiungere e perciò merita un dignitoso scioglimento. Non così nella mente di Dave Gilmour, il quale pensa bene di continuare come Pink Floyd: inizialmente come duo col solo Mason e più tardi contattando Wright come semplice turnista. E così nel 1987 esce “A Momentary Lapse Of Reason”, fortunato album dei redivivi Pink Floyd, accompagnato da un fortunatissimo tour mondiale che si conclude nel 1989 a Venezia.

Roger Waters non resta di certo a guardare: tra le due parti inizia una lunga serie di reciproche accuse e soprattutto di cause legali per l’uso del nome e della spartizione dei diritti. Waters ottiene tutto quello che vuole ma non può impedire ai Pink Floyd di continuare ad esistere: nel ’94 esce quindi un altro album, il rock struggente di “The Division Bell” (qui Wright è un membro a tutti gli effetti e il sound ci guadagna). Segue un altro fortunato tour in giro per il mondo al termine della quale i Pink Floyd sembrano riposare una volta per tutte.

Intanto, negli anni Novanta, il pop-rock giunge alla sua storicizzazione, anche perché il panorama musicale è piuttosto povero: tutti gli album dei Pink Floyd vengono ristampati, con tanto di nuove raccolte, altri dischi dal vivo e divuddì, spesso tornando nei quartieri alti delle classifiche. Poi nel 2005 il miracolo: Bob Geldof già organizzatore dello storico Live Aid, annuncia al mondo la reunion dei Pink Floyd con tanto di Roger Waters! La cosa si materializza a luglio, rendendo il momento storico del Live 8 ancora più storico di quello che sarebbe stato. I Pink Floyd, come tutti gli altri protagonisti in programma, eseguono un set di soli venti minuti ma sono venti minuti di grandi emozioni per tutti. Personalmente, mentre il gruppo suonava Comfortably Numb e alle sue spalle si materializzava lo slogan ‘make poverty history’ con la stessa grafica di “The Wall” proiettata sulla copertina di quel disco… beh, ho avuto la pelle d’oca!

All’indomani del Live 8, il sito ufficiale di Roger Waters scriveva ottimisticamente che ‘tutto è possibile’ su una foto dei quattro musicisti riuniti, lasciando ben intendere per una reunion più sostanziosa in futuro. Invece, a parte le recenti dichiarazioni di Dave Gilmour sul fatto che ormai i Pink Floyd appartenevano definitivamente al suo passato, il 15 settembre 2008 è venuto improvvisamente a mancare Richard Wright. A questo punto – e lo scrivo con profondo rammarico – i Pink Floyd appartengono al passato di tutti noi.

DISCOGRAFIA

The Piper At The Gates Of Dawn (1967)

A Saucerful Of Secrets (1968)

More (1969)

Ummagumma (1969)

Atom Heart Mother (1970)

Meddle (1971)

Obscured by Clouds (1972)

Dark Side Of The Moon (1973)

Wish You Were Here (1975)

Animals (1977)

The Wall (1979)

The Final Cut (1983)

A Momentary Lapse Of Reason (1987)

The Division Bell (1994)

The Endless River (2014)

Vedi anche…

Amused To Death (1992, Roger Waters solo)

Is This The Life We Really Want? (2017, Roger Waters solo)

Rattle That Lock (2015, David Gilmour solo)

The Madcap Laughs (1970, Syd Barrett solo)

The Pros And Cons Of Hitch Hiking (1984, Roger Waters solo)