Record Store Day 2018: le succose novità

David Sylvian, Dead Bees On A Cake, RSD 2018Le case discografiche hanno cominciato a diffondere le prime immagini e le informazioni relative alle uscite previste in occasione del Record Store Day 2018, che si terrà in tutti i negozi di dischi del mondo il prossimo 21 aprile. Se negli ultimi anni non avevo avuto modo d’andarci, l’anno scorso ci sono stato eccome, in entrambi i negozi di dischi della mia città, Pescara, trovando dei titoli che pur non essendo essenziali non mi hanno fatto dubitare sulla necessità di acquistarli (vuoi per il formato, vuoi per la grafica, vuoi ancora per una bella confezione).

Quest’anno, da quel che ho visto & letto finora, l’edizione che più m’interessa – la sola che vorrei acquistare davvero – è la riedizione di “Dead Bees On A Cake” (nella foto), l’album di David Sylvian datato 1999. Ristampato in doppio vinile bianco, con una nuova copertina, con tutte le foto di Anton Corbijn e soprattutto con quattro brani in più (quelli che, pur incisi durante la lavorazione dell’album, sono invece stati inclusi nella successiva raccolta del 2000, “Everything And Nothing”), l’album “Dead Bees On A Cake” viene finalmente presentato – per dirla con le parole dello stesso Sylvian – “come il doppio album che avevo sempre inteso di proporre, prima che l’etichetta perdesse la pazienza aspettandone l’arrivo”.

“Dead Bees On A Cake”, infatti, rappresentava un grande ritorno dopo anni di collaborazioni e dischi sperimentali. Di fatto, “Dead Bees”, uscito come ricordato nel 1999, fu il primo vero album di David Sylvian dai tempi di “Secrets Of The Beehive“. Sarà quindi l’occasione per godere ancora una volta e ancora di più (grazie all’inserimento di altri quattro splendidi brani, tra cui The Scent Of Magnolia e Cover Me With Flowers) di un album che a mio modesto avviso è stato un tantino sottovalutato. Gran disco, a parte tutto, mi piacerebbe dedicargli un post ad hoc, magari proprio a partire da questa ristampa, se mai riuscirò a portarmene a casa una copia.

Per quanto riguarda gli altri titoli riservati ad altri artisti, quelli che mi hanno fatto drizzare di più le orecchie sono i seguenti, tutti in vinile, e tutti in rigoroso ordine alfabetico.

Ac/Dc – “Back In Black”: il primo album della celeberrima band australiana con Brian Johnson alla voce, probabilmente il loro disco più famoso, ristampato addirittura in cassetta per questo RSD 2018.

Big Audio Dynamite II – “On The Road Live ’92”: un EP di soli cinque pezzi – tutti dal vivo, e mai prima d’ora stampati in vinile – in formato dodici pollici per la seconda reincarnazione del gruppo post-Clash di Mick Jones.

David Bowie – In questo caso abbiamo tre interessanti proposte. Partiamo in ordine cronologico, con la ristampa dell’album eponimo del 1967, “David Bowie” per l’appunto: edizione doppia in elleppì, contenente la versione mono (in vinile rosso) e la versione stereo (in vinile blu) dello stesso album. La seconda proposta, sempre su vinile, è un dodici pollici da 45 giri contenente la versione demo di Let’s Dance del dicembre 1982, pubblicata nella sua lunghezza integrale (sul lato B del singolo troviamo invece una versione live dell’epoca della stessa Let’s Dance). Infine, il nome di Bowie è legato a un triplo vinile, “Welcome To The Blackout”, contenente un inedito concerto londinese del 1978.

Johnny Cash – “At Folsom Prison: Legacy Edition”: forse il disco più famoso di Cash e senz’altro uno degli album live più acclamati di tutti i tempi, qui proposto in un lussuoso box da ben cinque vinili, contenente per la prima volta entrambi i concerti integrali che Cash e la sua band tennero nel carcere di Folsom in quel lontano 1968. Secondo me il tutto costerà un botto ma con ogni probabilità saranno soldi ben spesi. Ci sto facendo un pensierino.

John Coltrane – “My Favorite Things, Part I & II”: soltanto mille copie per questo singolo contenente entrambi i single edit di My Favourite Things, brano portante dell’omonimo e storico album uscito per la Atlantic nel 1961.

The Cure – Due uscite per la band di Robert Smith, decisamente peculiari: “Torn Down” è un doppio elleppì (entrambi in picture disc) contenente sedici nuovi remix curati dallo stesso Smith, mentre “Mixed Up”, anch’esso in doppio picture disc, è la riproposizione dell’album di remix dei Cure uscito nel 1990.

Miles Davis – “Rubberband EP”: quando ho letto “Rubberband” sono saltato sulla sedia! Quello, infatti, è il titolo dell’album inedito che Miles registrò nel 1985 come primo disco da far distribuire alla sua nuova etichetta, la Warner Bros. Poi s’imbatté nei demo di Marcus Miller e ricominciò daccapo con un nuovo progetto, che quindi divenne il celebre “Tutu”. In questo caso siamo però alle prese con un EP di soli quattro brani, e per giunta non tutti originali: c’è infatti qualche remix attuale, accanto al materiale inciso all’epoca da Miles e i suoi collaboratori del periodo. Sono tentato dall’acquisto ma anche fortemente dubbioso. Spero che questo EP sia invece l’anticipazione di qualcosa di più consistente che la Warner potrebbe distribuire in autunno.

Bob Dylan & The Grateful Dead – “Dylan & The Dead”: originariamente uscito nel 1989, questo live nel quale Bob Dylan era accompagnato dai Grateful Dead viene riproposto in un vinile dalle facciate diversamente colorate (quella A è rossa, quella B è blu). Un po’ troppo poco, forse? I soli Grateful Dead, ad ogni modo, potrebbero consolare i fan con un ben più corposo cofanetto da quattro vinili contenente un loro concerto al Fillmore West di San Francisco del 1969.

Fleetwood Mac – “The Alternate Tango In The Night”: se l’anno scorso è stato stampato un acclamato box da ben cinque dischi dedicato al trentennale di “Tango In The Night”, in occasione del RSD 2018 la sola versione alternativa dell’album (ovvero con mix diversi tratti dalle varie sedute d’incisione) viene qui estrapolata per un’edizione nel più tradizionale elleppì nero, il tutto disponibile in sole 8500 copie.

Marvin Gaye – Due uscite anche nel caso di questo leggendario soul singer, ovvero “Let’s Get It On” – uno dei suoi dischi più belli, datato 1973, del quale vorrei presto parlare in un post ad hoc – in vinile rosso da 180 grammi di peso, e quindi “Sexual Healing: The Remixes”, ovvero un altro vinile rosso contente sette versioni – vecchie e nuove – della classica Sexual Healing, il formidabile hit single del 1982.

Van Morrison – “The Alternative Moondance”: ovvero il classico album “Moondance” del 1970 qui ricreato a partire dalle versioni alternative / demo / provini tratti dalle sedute d’incisione originali (come nel caso di “Tango In The Night” dei Fleetwood Mac che abbiamo visto sopra, insomma).

Pink Floyd – “The Piper At The Gates Of Dawn”: edizione in vinile, e mono, per il primo album della storica band inglese, quando ancora era dominato dalla figura e dall’estro di Syd Barrett. In questo caso si tratta, stando al comunicato stampa ufficiale, di “a new mono 2018 remaster by James Guthrie, Joel Plante and Bernie Grundman. Remastered from the original 1967 mono mix”. Anche la grafica promette bene, con una sovracopertina tutta nuova.

Prince – “1999”: questa, vi dirò, non l’ho capita. Si tratta di una riduzione a soli sette brani dell’originale doppio album che il folletto di Minneapolis diede alle stampe nel 1982. C’è una nuova grafica ma mi sembra pochino… perché non distribuire di nuovo l’album nel suo glorioso doppio formato, magari con l’aggiunta dei B-side o versioni alternative?

Rolling Stones – “Their Satanic Majesties Request”: la risposta degli Stones, a quanto pare non troppo riuscita, al “Sgt. Pepper” beatlesiano. Qui siamo in presenza d’un vinile colorato ma trasparente, con tanto d’immagine lenticolare in copertina. Potrà bastare?

Bruce Springsteen – “Greatest Hits”: ovvero la riedizione in due vinili della prima raccolta antologica del Boss, edita per la prima volta nel 1995. Si tratta d’una gran bella antologia, stavolta riproposta in vinili rossi per un’edizione limitata & numerata. Anche qui, c’è il pensierino (e la minaccia al portafogli).

Neil Young – “Roxy: Tonight’s The Night Live”: due vinili contenenti un concerto losangelino inedito del 1973, quando l’album “Tonight’s The Night” doveva ancora uscire.

Questo è quanto, per ora, ma sono più che sicuro che da qui al prossimo 21 aprile ne sentiremo ancora delle belle. Magari ci sarà l’occasione per dare un seguito a questo post. – Matteo Aceto

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Depeche Mode, “Violator”, 1990

Depeche Mode, Violator, immagine pubblica blogL’album dei Depeche Mode che più amo, “Violator”, rappresenta per me il vertice creativo ed espressivo della band inglese, dopo una straordinaria (e unica, a ben vedere) ricerca elettrosonora durata per tutti gli anni Ottanta. Disco orecchiabile & oscuro in egual misura, intenso, coinvolgente, “Violator” vanta un’elettronica mai così calibrata nella discografia dei nostri, lasciando spazio a chitarre, percussioni e arrangiamenti orchestrali senza perciò alterare minimamente lo stile tipico dei Depeche Mode. Il risultato, di fatto, rappresenta tuttora il loro maggior successo commerciale nella categoria degli album.

Album che si apre sulle note ipnotiche del singolo World In My Eyes, quasi una breakdance psichedelica; col suo invito a intraprendere un viaggio con la mente, è proprio l’apertura adatta. Segue l’intensa The Sweetest Perfection, dove Martin L. Gore canta una delle migliori canzoni dei Depeche Mode: l’approccio complessivo del brano è piuttosto rock, immerso però in un’atmosfera alquanto sofferta e solenne.

A seguire troviamo la famosa Personal Jesus, primo estratto dall’album, uscito già nell’agosto 1989; canzone ripetitiva e martellante ma assolutamente irresistibile, grazie anche all’utilizzo ritmico della chitarra, Personal Jesus resta tuttora un grande cavallo di battaglia negli spettacoli dal vivo dei Depeche Mode. Quindi è la volta di Halo, brano drammatico e coinvolgente che fonde elementi techno con influenze rock; la voce di Dave Gahan è poi da brividi. Seppure mai pubblicata come singolo, Halo venne tradotta in immagini da Anton Corbijn in un bel videoclip dai richiami felliniani.

La lenta Waiting For The Night, in pratica un duetto fra Dave e Martin, è una delle canzoni d’atmosfera più memorabili dei nostri: sei minuti che ci trasportano in una dimensione onirica e crepuscolare, e mai titolo è sembrato più adatto. Segue la strafamosa Enjoy The Silence, probabilmente il brano più rappresentativo e conosciuto dei Depeche Mode: un ritmo dance, una chitarra in bell’evidenza con tanto di dita che slittano sulle corde (un effetto che alcuni considerano un errore di esecuzione ma che a me piace troppo), un ritornello orecchiabilissimo, un’elettronica misurata e coinvolgente. Pubblicata come singolo nel febbraio 1990, Enjoy The Silence è stata rilanciata nel 2004 dall’efficace remix di Mike Shinoda dei Linkin Park, nella versione Reinterpreted.

Al termine di Enjoy The Silence siamo alle prese con un breve interludio chitarristico chiamato Crucified (la voce distorta che si sente è quella di Andy Fletcher), dopodiché irrompe Policy Of Truth, un brano più vicino agli stilemi del pop-rock; forte d’un testo piuttosto impegnato, con rimandi politici e sociali, Policy Of Truth è un’altra canzone memorabile, edita anch’essa su singolo.

Con Blue Dress ritroviamo Martin al canto, protagonista d’una pulsante e soffusa ballata elettronica, al termine della quale ci imbattiamo in un secondo interludio, quasi un frammento d’opera lirica, con la voce di Gore sovraincisa più volte; questo di Blue Dress è un capitolo molto emozionante, semplicemente fra i migliori registrati dai Depeche Mode. Il tutto sfuma infine nella minacciosa introduzione di Clean: è la canzone più dark del disco, forte anche d’una maiuscola prestazione vocale di Dave Gahan che fa di questo brano una maestosa conclusione per quello che è indiscutibilmente uno degli album più rappresentativi degli anni Novanta.

In “Violator” si possono quindi ascoltare alcune delle più belle canzoni mai scritte da Martin Gore e alcuni fra gli arrangiamenti più suggestivi curati da Alan Wilder, l’architetto sonoro della band negli anni 1983-1994. Un disco imperdibile per poter apprezzare pienamente la musica dei Depeche Mode. – Matteo Aceto

Anton Corbijn, “Control”, 2007

anton-corbijn-controlFinalmente ieri sera ho visto “Control”, l’atteso film di Anton Corbijn sulla vita di Ian Curtis, il tormentato leader dei Joy Division morto suicida nel 1980. Film che è uscito nelle sale sul finire del 2007, che sta continuando ad aggiudicarsi premi e riconoscimenti ma che da noi, nella come-al-solito-arretrata-Italia, non è nemmeno stato distribuito. Me lo disse un negoziante di dischi in tempi non sospetti, ‘a Mattè, l’Italia è l’Africa dell’Europa!’. E come dargli torto? Ma vabbé, polemiche a parte, passiamo al film.

Un mio amico smanettone s’è scaricato “Control” nelle settimane scorse, dopodiché mio fratello s’è fatto fare una copia in divuddì, copia che ieri sera, per l’appunto, è finita nel mio vecchio caro portatile. E così, imbacuccatissimo a letto per via dell’influenza che mi ha tormentato in questi ultimi giorni, mi sono sparato questo film tutto d’un fiato, nella versione originale, senza sottotitoli.

E’ un film magistralmente girato in bianco e nero, dove lo stile del regista, Anton Corbijn – uno dei più acclamati fotografi/scenografi rock (io ho imparato ad apprezzarlo negli anni per le sue tante collaborazioni coi Depeche Mode) – è perfettamente riconoscibile. Le ambientazioni – ovvero Manchester & sobborghi fra il 1973 e il 1980 – sono ben fatte, un po’ meno i costumi, soprattutto per quanto riguarda l’attore che impersona Peter Hook, il bassista dei Joy Division, che pare vestire come se fosse una delle solite band fintopunk di derivazione Green Day. Ma a proposito di attori, è stato veramente bravissimo il giovane Sam Riley, quello che impersona lo stesso Ian Curtis, bravissimo nell’interpretarlo in tutti i mutevoli stati emotivi dell’angustiato cantante, dalla presenza sul palco con la band alle improvvise crisi epilettiche, passando per gli sconfortanti momenti di solitudine. Per giunta gli somiglia pure fisicamente! Altrettanto bravissima – e in questo caso me l’aspettavo perché ho avuto modo d’apprezzarla in altri film – è Samantha Morton, che qui interpreta Deborah Curtis, la moglie di Ian, autrice del libro biografico “Touching From A Distance” dal quale Corbijn ha poi tratto la storia del film (per la gioia dei fan joydivisioniani questo libro è stato tradotto anche in italiano… almeno quello ce lo siamo cagati…). Incredibilmente somigliante all’originale è anche l’attore che interpreta Bernard Sumner, il chitarrista dei Joy Division, in seguito nei New Order con gli stessi Peter Hook e Stephen Morris. Ecco, l’attore che impersona quest’ultimo, il batterista del gruppo, è quello meno caratterizzato nel film, ma c’è da dire che gli stessi New Order sono (stati) persone molto poco appariscenti, per cui forse Corbijn non è riuscito a cavare molto dalla collaborazione effettiva della band (che ha anche composto dei brevi interludi strumentali come colonna sonora) e della stessa vedova Curtis.

La poca caratterizzazione dei personaggi è per me il vero punto debole di “Control”, film che gioca più sulle sensazioni scaturite dalle immagini (e il bianco & nero scelto per la pellicola è azzeccatissimo) che sulla psicologia dei protagonisti, per quanto (e lo ripeto) i due attori principali – la Morton e Riley – sono stati bravissimi. Un altro punto debole di “Control” è la lentezza della storia: mi aspettavo più dinamismo, confesso che a tratti la visione del film mi ha annoiato.

Altra cosa che mi ha convinto a metà è stata la colonna sonora: ottimo David Bowie – lo si ascolta un sacco nella prima parte del film e lo si vede molto come poster & ritagli & dischi nella cameretta di Ian – ma veramente non ho capito perché soltanto due sono le canzoni originali dei Joy Division che si ascoltano nel film, vale a dire le pur splendide Love Will Tear Us Apart e Atmosphere. Le altre sono infatti eseguite dagli stessi attori che interpretano i Joy Division: sono stati bravi anche in questo caso, per carità, ma io ho visto questo film principalmente per sentirmi i pezzi originali dei miei amati Joy Division! Eccheccazzo!

Però, tutto sommato, ammetto che è stato piacevole vedere la storia di Ian Curtis e dei Joy Division in forma di film e mi dispiace davvero che “Control” non sia uscito nel circuito cinematografico italiano.

Ah, ultima cosa, mi sono emozionato quando scorrevano i titoli di coda (con Shadowplay rifatta dai Killers e non nella versione originale, sgrunt, ma lasciamo perdere…) e fra i ringraziamenti il buon Anton ha incluso Martin L. Gore dei Depeche Mode. Gli amici non si dimenticano mai. – Matteo Aceto

New Order

new-order-immagine-pubblicaLa storia dei New Order inizia a Manchester nella primavera del 1980, all’indomani del suicidio di Ian Curtis, cantante dei Joy Division. Sì perché i New Order sono Bernard Sumner, Peter Hook e Stephen Morris, rispettivamente chitarrista, bassista e batterista dei Joy Division, che, dopo il comprensibile smarrimento iniziale, decidono di darsi un nuovo nome e di continuare insieme.

I New Order debuttano quindi al principio del 1981 col singolo Ceremony / In A Lonely Place, entrambe canzoni dei Joy Division mai completate: la prima è un brano pop-punk formidabile (vale la pena di andarsi ad ascoltare anche la versione live dei Joy Division sull’album postumo “Still”) mentre la seconda è addirittura cantata da Ian Curtis, in quello che è uno dei pezzi più tenebrosi della band. In seguito, i New Order aggiungono stabilmente all’organico una tastierista, Gillian Gilbert (già ragazza di Stephen) con la quale reincidono completamente il singolo Ceremony / In A Lonely Place (il risultato, oltre che più pulito, è comunque migliore) e ritoccano alcune canzoni inedite dei Joy Division da inserire nel loro terzo ed ultimo album, “Still” (1981).

Sempre nel corso del 1981, inoltre, esce “Movement”, il primo album dei New Order: lo stile non si discosta poi molto da quello dei Joy Division (del resto i musicisti sono gli stessi…) ed il risultato è già strepitoso. Un disco della durata di appena 36 minuti per 8 brani che tuttavia è in perfetto equilibrio tra new-wave, punk, elettronica e dark. Due brani sono cantati da Peter, gli altri sei da Bernard: di lì a poco la band capisce che il ruolo di cantante spetta solo a quest’ultimo, il quale, pur non possedendo una gran voce ha tuttavia un timbro molto riconoscibile che ben s’incastra nel sound complessivo dei New Order. E la storia può riprendere il volo…

Nel 1983 esce il singolo Blue Monday ed è una rivoluzione: il suo ritmo disco-club sostenuto dalla drum machine, i suoi synth gelidi e la voce impassibile di Bernard che canta un testo di rivalsa ne fanno un classico istantaneo e una pietra miliare nella storia della musica. Blue Monday è il primo incrocio credibile tra rock e dance, una strada che in seguito verrà tentata da altri artisti, anche più famosi. Il brano, inoltre, può anche essere considerato un precursore di quel genere house che sarebbe esploso commercialmente sul finire del decennio.

Sempre nell’83 esce il secondo album dei New Order, “Power Corruption & Lies”, che si distacca dal suono dei Joy Division – puntando maggiormente sull’elettronica – senza però rinnegarne le origini. Davvero un gran disco, così come il successivo “Low-life” del 1985. I New Order sono sulla cresta dell’onda ed i vari manager ed intermediari vorrebbero farne delle star: i quattro di Manchester non ci stanno, l’unica concessione è l’inserimento delle loro foto (per la prima e ultima volta), in un loro disco, “Low-life” per l’appunto, distribuito in USA dall’etichetta di Quincy Jones, più noto come geniale produttore di Michael Jackson. Il fatto è che l’amarezza per la morte prematura di Curtis è un fantasma ancora molto ingombrante col quale i New Order riusciranno a convivere solo in anni recenti.

Nel 1986 esce un altro bel disco, “Brotherhood” (uno dei miei preferiti), contenente la celebre Bizarre Love Triangle (ma a me fa impazzire Angel Dust…). L’anno dopo è la volta di “Substance 1987”, una strepitosa doppia raccolta contenente lati A e B dei singoli, molti dei quali non presenti sugli album, più due inediti, le stupende 1963 e True Faith (probabilmente quest’ultima è, con Blue Monday, il brano più famoso dei New Order).

Nel gennaio ’89 i New Order volano al 1° posto della classifica inglese con l’indimenticabile album “Technique”, il mio album preferito tra quelli della banda di Manchester, lanciato da singoli innovativi come Fine Time, Run e Round And Round. Il momento di gloria si ripete l’anno dopo, con l’uscita del singolo World In Motion: scritto come inno della nazionale inglese per i mondiali di calcio, World In Motion è stata votata di recente come miglior inno scritto da un gruppo inglese per la propria nazionale calcistica.

Ma la solidità dei New Order inizia a dare i primi segni di cedimento: tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta, i membri della band formano diversi gruppi paralleli (gli Electronic per Sumner, che si unisce a Johnny Marr degli Smiths, i Revenge prima e i Monaco dopo per Hook, e gli Other Two per il duo – ormai sposato – Morris-Gilbert), mentre la casa discografica storica, la Factory Records (già distributrice dei Joy Division e in seguito di Happy Mondays e Stone Roses) è in grave crisi finanziaria. E’ proprio per tentare di salvare la Factory che dei riluttanti New Order tornano in studio per dar vita ad un nuovo album: “Republic”, che vede la luce nel ’93, quando la Factory è ormai spacciata, è forse il peggior album della band (ma non è brutto, state tranquilli…) anche se c’è la splendida Regret, con un video molto bello girato a Roma. Résisi forse conto di aver fatto un mezzo passo falso, i New Order sembrano guardare al passato: reincidono alcuni vecchi brani e li pubblicano con altri hits nella raccolta “(The Best Of) NewOrder” del 1994, poi, praticamente, la band si scioglie.

Lo scioglimento dei New Order, mai ufficializzato, termina sul finire degli anni Novanta: nel 1999 esce un brano nuovo, Brutal, per la colonna sonora del film “The Beach”, mentre la band è al lavoro sul nuovo album, che vede quindi la luce nel 2001. Così, il settimo album da studio dei New Order s’intitola “Get Ready” e con mio sommo piacere scopro che è uno dei migliori dischi del gruppo. Intanto, i New Order sono in grado di eseguire senza problemi concerti di due ore, mentre una nuova generazione di musicisti, in primis i Chemical Brothers, li inneggia come propri padri musicali.

Negli ultimi anni, una figlia della coppia Morris-Gilbert è stata gravemente malata: la mamma, per prendersene cura, ha abbandonato l’attività dei New Order, mettendo a rischio la vita stessa della band. Tuttavia, su insistenza della stessa Gilbert, i New Order sono tornati in pista con un nuovo tastierista/chitarrista, Phil Cunningham, un nuovo album, “Waiting For The Siren’s Call” (2005), e un nuovo tour.

Recentemente, dopo aver dato alle stampe un paio di raccolte, i New Order sono stati impegnati con la colonna sonora del film “Control”: girato da Anton Corbijn (storico fotografo e videomaker dei Depeche Mode), ripercorre la vita di Ian Curtis, voce dei Joy Division, e la parabola del gruppo stesso. Tuttavia quest’altro ritorno al passato non s’è tradotto nella nostalgia per il lavoro comune: nel corso del 2007 il bassista Peter Hook ha annunciato infatti la sua dipartita dai New Order e la formazione d’una nuova band, i Freebass, in compagnia di componenti degli Smiths e degli Stone Roses.

Ufficialmente i New Order non sono finiti e il sottoscritto crede che il buon Peter tornerà sui propri passi dopo essersi tolto lo sfizio di pubblicare un disco a nome Freebass. Staremo a vedere, per il momento ci possiamo accontentare delle ristampe degli album dei New Order pubblicati negli anni Ottanta, con disco aggiuntivo di materiale bonus per ogni titolo. (

Depeche Mode: storia e discografia

depeche modeBasildon, Inghilterra, 1980, tre compagni di scuola – Vince Clarke, Andy Fletcher e Martin Gore – stanno cercando un cantante per il loro gruppo, i Composition Of Sound, che adotta una strumentazione completamente elettronica fatta di tastiere e sintetizzatori. Il cantante in questione si rivela essere Dave Gahan, il quale propone anche un nuovo nome per la band, ovvero Depeche Mode: pare rifarsi a una rivista di moda francese, tale Mode Depeche, cioè ‘moda spicciola’, ‘moda veloce’.

I Depeche Mode debuttano quindi discograficamente col brano Photographic, incluso in una compilation d’artisti vari per l’etichetta Some Bizarre, ma la svolta avviene dall’incontro con Daniel Miller, proprietario dell’etichetta Mute, casa per la quale i nostri hanno incideranno fino al 2009 (nonostante il marchio sia stato precedentemente acquistato dalla EMI). Nel febbraio ’81, quindi, esce il singolo Dreaming Of Me, seguìto qualche mese più tardi dall’album “Speak & Spell”. Da questo primo album dei Depeche Mode vengono estratti i singoli New Life e la famosa & scanzonata Just Can’t Get Enough che permettono a “Speak & Spell” di piazzarsi nella Top Ten inglese.

Tuttavia, poco prima delle registrazioni per il secondo album, Vince Clarke abbandona la band: Vince è a quel punto il tastierista più abile nonché l’autore delle canzoni (Martin Gore scrive solo un paio di brani su “Speak & Spell”) e i Depeche Mode sono dati già per spacciati. Vince se ne va per fondare gli Yazoo con la bravissima Alison Moyet (più tardi The Assembly con Feargal Sharkey e poi, definitivamente, gli Erasure con Andy Bell) mentre i Depeche Mode decidono di andare momentaneamente avanti come trio, con Martin ad assumersi l’intera responsabilità compositiva. E’ come trio che la band realizza così “A Broken Frame”, pubblicato nel 1982: il singolo See You fa addirittura meglio di Just Can’t Get Enough in classifica, restituendo fiducia alla band. Ma è con l’ingresso nella formazione di Alan Wilder – abilissimo tastierista, pianista e percussionista, nonché fine arrangiatore – che i Depeche Mode iniziano a puntare in alto: pubblicano il singolo Get The Balance Right (gennaio ’83) e approntano del nuovo materiale, togliendosi di dosso una volta per tutte le sonorità più smaccatamente pop e adottando uno stile più dark e sperimentale. Nel corso dell’anno esce quindi “Construction Time Again”, preceduto da uno dei singoli più famosi dei nostri, Everything Counts. In questo terzo album, mixato a Berlino, è prevalente l’uso dei campionatori: il brano Pipeline, cantato da Martin, è realizzato totalmente con queste macchine; uno stile che sarà ancora più evidente nel successivo “Some Great Reward”, album che vede la luce nel 1984.

“Some Great Reward” si spinge oltre i confini raggiunti con “Construction Time Again”: inciso a Berlino, il suono complessivo dell’album è più duro, più metallico e dalle tematiche più cupe. Brani come i singoli People Are People, Master And Servant e Blasphemous Rumours sono la perfetta combinazione tra elettronica, industrial e pop di classe; ma non mancano i momenti romantici, come la toccante Somebody, cantata da Martin. “Some Great Reward” estende la notorietà del gruppo ma segna anche un punto di non ritorno per i Depeche Mode: nel 1985 pubblicano infatti una raccolta, “The Singles 81>85”, che capitalizza il successo acquisito presentando anche due nuovi brani, la ritmata It’s Called A Heart e soprattutto la bellissima Shake The Disease. Il tempo della maturità è finalmente giunto.

Nel marzo ’86 esce un singolo strepitoso, Stripped: i Depeche Mode non avevano mai pubblicato niente di simile, un mix fra musica ambient, ritmi orientali, campionamenti e atmosfere dark ed intimiste, con quell’incrocio finale tra le voci di Gahan e Gore che mette i brividi. Stripped fa da apripista al nuovo album, il grandioso “Black Celebration”, che porta i Depeche Mode al 3° posto della classifica inglese. Oltre ad essere una pietra miliare nella carriera dei Depeche Mode, “Black Celebration” chiude anche un’altra importante fase: è l’ultimo album a figurare un contributo autoriale di Alan Wilder (da qui in avanti tutto il resto sarà scritto da Martin), l’ultimo ad avvalersi della preziosa collaborazione tecnico-sperimentale di Gareth Jones, l’ultimo a figurare nella produzione anche Daniel Miller. Ma è anche il primo album che apre la lunga e prolifica collaborazione dei Depeche Mode col noto fotografo/videomaker Anton Corbijn: insieme girano l’ultimo estratto di “Black Celebration”, A Question Of Time, con Corbijn che col tempo diverrà il direttore d’immagine della band.

Nel 1987 i Depeche Mode sono al lavoro col produttore Dave Bascombe: ne esce il miglior album degli anni Ottanta per la band, ovvero “Music For The Masses“, supportato da due singoli incredibilmente potenti e melodici come Strangelove e Never Let Me Down Again (quest’ultima è una delle canzoni che più amo in assoluto). Segue un fortunatissimo tour internazionale che culmina nel luglio 1988 al Pasadena Rosebowl Stadium (California), di fronte a 72mila fan estasiati. Il tutto viene immortalato dal film e dal doppio elleppì “101”, entrambi usciti nel 1989. Ma i Depeche Mode non dormono sugli allori: già ad agosto esce infatti Personal Jesus, uno dei loro singoli più famosi e fortunati, mentre il gruppo si getta a capofitto nell’incisione del prossimo album, realizzato con la produzione di Flood.

Anticipato dalla superlativa Enjoy The Silence (forse la canzone più famosa e rappresentativa dei nostri), edita come singolo nel febbraio ’90, “Violator” conduce i Depeche Mode al 2° posto della classifica britannica. E’ l’album della band che amo di più, per me è il loro biglietto da visita, quello che contiene, oltre a Personal Jesus ed Enjoy The Silence, alcune delle migliori canzoni dei Depeche in assoluto, come The Sweetest Perfection, Policy Of Truth, Clean, Halo e la ballata d’atmosfera Blue Dress… dimenticavo Waiting For The Night, duetto suggestivo tra Martin e Dave. Insomma, un gran bel disco! Il World Violation Tour ha successo in tutto il mondo e i Depeche Mode sono invitati dal regista Wim Wenders a fornire una canzone per il suo film “Fino alla Fine del Mondo”: anche Death’s Door, cantata da Martin, è una gran bella canzone, testimoniando ancora una volta un periodo di grande forma compositiva ed espressiva della band.

Periodo che prosegue nel corso del 1992, mentre i Depeche Mode sono impegnati tra Spagna e Germania per il nuovo album, ancora con Flood alla console. Ma in realtà ci sono alcune crepe: Dave dichiara che non è più interessato a fare brani danzerecci coi Depeche Mode, vedendo nella nascente scena ‘alternative’ americana il futuro della musica. Ed è proprio di genere ‘alternative’ il nuovo miracolo dei Depeche Mode: pubblicato nella primavera del ’93, “Songs Of Faith And Devotion” giunge al 1° posto sia in patria che negli USA. Promosso da cinque singoli straordinari (I Feel You, One Caress, Walking In My Shoes, Condemnation e In You Room), il nuovo album – che contempla l’uso di chitarre, batterie, orchestre e coriste – viene supportato con un tour lungo un anno e mezzo che porta praticamente i Depeche Mode in ogni angolo del pianeta. Ma la stanchezza e gli eccessi si fanno sentire: dopo il Devotional Tour, Dave Gahan, ormai tossicodipendente, tenta il suicidio mentre Alan Wilder decide di lasciare il gruppo nel giugno ’95. Ancora una volta i Depeche Mode sono dati per spacciati ma ancora una volta la storia smentirà tutte le peggiori ipotesi.

Anche col formidabile Wilder fuori dai ranghi, i Depeche Mode tornano in azione nel febbraio ’97, col potente singolo Barrel Of A Gun. Poi è la volta d’un altro singolo, il fortunatissimo It’s No Good, e finalmente del nuovo album, “Ultra“. Seguìto da altri due singoli eccezionali, Home e Useless, “Ultra” si rivela un successo mondiale confermando ancora una volta l’amore incrollabile dei fan per i propri beniamini. Dave Gahan si è ripulito una volta per tutte e nel 1998 la band è pronta per tornare in pista: un tour in grande stile promuove in tutto il mondo la nuova raccolta dei Depeche Mode, “The Singles 86>98”, un altro grande successo. La storia si ripete anche all’uscita dei due successivi album in studio della band, “Exciter” (2001) e “Playing The Angel” (2005, album che per la prima volta si avvale anche del contributo autoriale di Dave): singoli molto validi e performance generose fanno dei Depeche Mode uno dei gruppi più amati e credibili dell’odierna scena musicale.

Mentre la band terminava il Playing The Angel tour (anch’io c’ero il 17 luglio 2006 allo stadio Olimpico di Roma), la Mute ripubblicava tutti gli album da studio dei Depeche Mode remasterizzati, mentre in autunno usciva una raccolta comprensiva del periodo 1981-2005 più un brano inedito, Martyr. Dopo alcune escursioni solistiche (ricordo il bell’album di cover realizzato da Martin Gore nel 2003, “Counterfeit2”, i due album realizzati dal solo Dave Gahan tra il 2003 e il 2007, e anche il progetto Client curato da Andy Fletcher), i Depeche Mode sono tornati in grande stile nel 2009 con un nuovo album, “Sounds Of The Universe”, e un nuovo tour internazionale di grande successo.

Gli anni Dieci del nuovo millennio hanno visto un riavvicinamento alla band non solo di Alan Wilder ma addirittura anche di Vince Clarke: se entrambi hanno curato un remix a testa per un’antologia tematica dei Depeche Mode, Vince ha perfino realizzato un album con Martin, un curioso album techno chiamato “Ssss” e pubblicato nel 2012. Ad ogni modo, già l’anno successivo i Depeche Mode come gruppo sono tornati in azione con l’album “Delta Machine“, il primo dopo il prestigioso passaggio alla Sony, e la relativa tournée mondiale.

Anticipato dal singolo Where’s The Revolution, il nuovo album “Spirit” ha invece visto la luce nel marzo 2017, con i Depeche Mode già in fase di riscaldamento per un nuovo tour mondiale. Se gli spettacoli dal vivo sono come sempre stati accolti calorosamente dal pubblico, non così si può dire di “Spirit”. Secondo la mia modesta opinione, l’album è il peggiore dei nostri. Considerando tuttavia i tempi lunghi tra un album e l’altro, spero con tutto il cuore di ritrovare i Depeche Mode in forma migliore nel disco che dovrebbero far pubblicare nel 2021. [ultimo

-Matteo Aceto

DISCOGRAFIA

Speak & Spell (1981)

A Broken Frame (1982)

Construction Time Again (1983)

Some Great Reward (1984)

Black Celebration (1986)

Music For The Masses (1987)

Violator (1990)

Songs Of Faith And Devotion (1993)

Ultra (1997)

Exciter (2001)

Playing The Angel (2005)

Sounds Of The Universe (2009)

Delta Machine (2013)

Spirit (2017)