Tra questo blog e i Beatles, ancora sul tetto

Forse è vero che certe cose non avvengono per caso. Stavo riordinando un po’ i vecchi post di questo modesto blog, che tutto sommato infestano il web dal 2006, valutando quali aggiornare/revisionare, quali far restare così come sono e quali invece cancellare; ebbene, l’ultimo che mi è capitato sott’occhio è stato QUESTO.

Giusto cinquant’anni fa i mitici Beatles tenevano l’ultima esibizione pubblica della loro carriera, nel più insolito dei posti, il tetto dei loro studi alla Apple di Saville Row, a Londra. Giusto dieci anni fa ne scrivevo qualche breve riga qui su Immagine Pubblica, come un mio personale omaggio. E allora come oggi, tali pur brevi righe rappresenta(va)no un modo come un altro di ripartire, di tornare ad aggiornare un blog per il solo gusto di farlo, che è poi quello di scrivere. Il gusto di scrivere, ecco, perché prendere carta & penna e iniziare un diario come s’usava una volta non fa proprio per me. E poi dovrei parlare di me? Io che mi annoio della mia stessa compagnia? Meglio scrivere di musica, di cinema, di libri (che ultimamente ho iniziato a comprare con preoccupante frequenza) e di quello che ci gira intorno. Va meglio così, davvero.

Cinquanta anni fa, i Beatles, sul tetto del mondo, per l’ultima volta. Dieci anni fa, un post su Immagine Pubblica, e non per l’ultima volta. – Matteo Aceto

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The Beatles, nuovo cofanetto deluxe per i 50 anni del White Album

The Beatles, white album 50, deluxe edition, immagine pubblicaLa notizia girava tra noi fan già da tempo e finalmente, nella giornata di ieri, è arrivata la conferma ufficiale: il 9 novembre, in occasione dei cinquant’anni del “White Album” (1968) dei Beatles, la Apple/Universal distribuirà una nuova serie di riedizioni celebrative. Insomma, così come l’anno scorso, con la pubblicazione d’un bel cofanetto dedicato a “Sgt. Pepper“, anche per questo successivo cinquantenario si è voluto procedere allo stesso modo: un nuovo mix stereo, ancora una volta curato da Giles Martin (il figlio di George Martin, storico produttore dei Beatles), il debutto del mix 5.1 surround e soprattutto – almeno per quanto mi riguarda – la pubblicazione di succosi inediti, tra cui un’embrionale versione di Let It Be della quale si favoleggiava da anni ma che nessuno – fra noi comuni mortali, intendo – aveva mai sentito, e i cosiddetti “Esher Demos” dei quali parleremo tra poco.

Facciamo prima un po’ d’ordine: album doppio da trenta brani, originariamente pubblicato il 22 novembre 1968, “The Beatles” – meglio noto come “White Album” per la sua copertina immacolata – sarà nuovamente disponibile in formato doppio vinile (in pratica lo stesso materiale e formato del ’68 ma riproposto col nuovo mix stereo curato da Martin Jr), in formato triplo ciddì (i due ciddì col disco originale – ma sempre nel nuovo mix – più un terzo ciddì contenente i soli “Esher Demos”), un cofanetto da quattro vinili (che in pratica replica il materiale del nuovo triplo ciddì) e quindi un bel cofanetto da ben sette dischi (sei ciddì audio più l’ormai inevitabile blu-ray di turno) a forma di libro. E un libro c’è davvero, in effetti, con oltre cento pagine tra informazioni, commenti e fotografie d’epoca.

Questo è il contenuto audio del cofanetto, chiamato “Super Deluxe Edition”, disco per disco (le voci con asterisco si riferiscono ai brani già precedentemente pubblicati sull'”Anthology 3″ del 1996)…

CD1: Back In The USSR, Dear Prudence, Glass Onion, Ob-La-Di Ob-La-Da, Wild Honey Pie, The Continuing Story Of Bungalow Bill, While My Guitar Gently Weeps, Happiness Is a Warm Gun, Martha My Dear, I’m So Tired, Blackbird, Piggies, Rocky Raccoon, Don’t Pass Me By, Why Don’t We Do It In The Road?, I Will, Julia.

CD2: Birthday, Yer Blues, Mother Nature’s Son, Everybody’s Got Something To Hide Except Me And My Monkey, Sexy Sadie, Helter Skelter, Long Long Long, Revolution 1, Honey Pie, Savoy Truffle, Cry Baby Cry, Revolution 9, Good Night.

CD3 (Esher Demos): Back In The USSR, Dear Prudence, Glass Onion*, Ob-La-Di Ob-La-Da, The Continuing Story Of Bungalow Bill, While My Guitar Gently Weeps, Happiness Is a Warm Gun*, I’m So Tired, Blackbird, Piggies*, Rocky Raccoon, Julia, Yer Blues, Mother Nature’s Son, Everybody’s Got Something To Hide, Sexy Sadie, Revolution, Honey Pie*, Cry Baby Cry, Sour Milk Sea, Junk*, Child Of Nature, Circles, Mean Mr. Mustard*, Polythene Pam*, Not Guilty, What’s The New Mary Jane.

CD4 (Sessions): Revolution I (Take 18), A Beginning (Take 4) / Don’t Pass Me By (Take 7), Blackbird (Take 28), Everybody’s Got Something To Hide (Unnumbered Rehearsal), Good Night (Unnumbered Rehearsal), Good Night (Take 10 with a guitar part from Take 5), Good Night (Take 22), Ob-La-Di Ob-La-Da (Take 3), Revolution (Unnumbered Rehearsal), Revolution (Take 14, Instrumental Backing Track), Cry Baby Cry (Unnumbered Rehearsal), Helter Skelter (First Version, Take 2)*.

CD5 (Sessions): Sexy Sadie (Take 3), While My Guitar Gently Weeps (Acoustic Version, Take 2), Hey Jude (Take 1), St. Louis Blues (Studio Jam), Not Guilty (Take 102), Mother Nature’s Son (Take 15), Yer Blues (Take 5 with guide vocal), What’s the New Mary Jane (Take 1), Rocky Raccoon (Take 8), Back In The USSR (Take 5, Instrumental Backing Track), Dear Prudence (Vocal, Guitar & Drums), Let It Be (Unnumbered Rehearsal), While My Guitar Gently Weeps (Third Version, Take 27), (You’re so Square) Baby, I Don’t Care (Studio Jam), Helter Skelter (Second Version, Take 17), Glass Onion (Take 10).

CD6 (Sessions): I Will (Take 13), Blue Moon (Studio Jam), I Will (Take 29), Step Inside Love (Studio Jam)*, Los Paranoias (Studio Jam)*, Can You Take Me Back? (Take 1), Birthday (Take 2, Instrumental Backing Track), Piggies (Take 12, IBT), Happiness Is A Warm Gun (Take 19), Honey Pie (IBT), Savoy Truffle (IBT), Martha My Dear (senza fiati e orchestra), Long Long Long (Take 44), I’m So Tired (Take 7), I’m So Tired (Take 14), The Continuing Story Of Bungalow Bill (Take 2), Why Don’t We Do It In The Road? (Take 5), Julia (Two rehearsals), The Inner Light (Take 6, IBT), Lady Madonna (Take 2, piano e batteria), Lady Madonna (Backing vocals della Take 3), Across The Universe (Take 6).

Blu-ray (solo audio), il “White Album” nei seguenti formati: PCM Stereo (2018 Stereo Mix), DTS-HD Master Audio 5.1 (2018), Dolby True HD 5.1 (2018), Mono (2018 Direct Transfer of “The White Album” Original Mono Mix).

Per quanto riguarda gli “Esher Demos”, la storia è più o meno questa: di ritorno da un controverso viaggio in India per “studiare” meditazione trascendentale, i Beatles presero a lavorare a quello che sarebbe diventato il “White Album” nel maggio 1968. E così, tornati in Inghilterra, i nostri si ritrovarono nella dimora di George Harrison per incidere i demo delle loro composizioni più recenti: ognuno propose diverse canzoni, addirittura undici per il solo John Lennon, anche se non tutte furono incluse nell’album (alcune, come ad esempio Junk e Jealous Guy, che allora si chiamava Child Of Nature, finirono nei successivi dischi solisti, mentre Sour Milk Sea venne affidata a Jackie Lomax). Perlopiù acustici e dal suono deliziosamente rilassato, alcuni di questi demo sono stati pubblicati su “Anthology 3” (1996) con un’eccellente resa sonora. Credo che la qualità audio non sarà da meno in queste nuove riedizioni.

Non c’è proprio tutto, bisogna però pur dire: mancano le versioni originali di Hey Jude e Revolution “riviste” anch’esse da Giles Martin che, anche se non facenti parti dell’originale album bianco perché già edite su singolo, erano state comunque registrate in quelle stesse sedute. Manca la leggendaria Helter Skelter di ben 27 minuti, manca l’alternativa Sexy Sadie chiamata Maharishi (dove John si fa beffe del guru che i Beatles seguirono in India in quel ’68), mancano due ballate acustiche ad opera di Paul McCartney chiamate Etcetera e The Way You Look Tonight. Per adesso, comunque, ci possiamo accontentare. Non ricordavo proprio, ad essere sinceri, che i Beatles avessero mai messo su nastro una cover di Baby I Don’t Care, e mi farà piacere scoprirla qui, così come quella Circles della quale non si sapeva finora poi molto. E inoltre, in conclusione, possiamo dare per certa una medesima operazione per quanto riguarda l’album “Abbey Road“. Appuntamento per l’autunno 2019. – Matteo Aceto

The Beatles, “Sgt. Pepper” 50 anni dopo, e tutto ciò che c’è da sapere

The Beatles Sgt Pepper 50 anni box 6 dischiFinalmente, dopo settimane d’indiscrezioni, è arrivata l’ufficialità: quello che a questo punto viene riconosciuto dagli stessi Beatles come il loro capolavoro, l’album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band“, verrà ripubblicato il 26 maggio in occasione del suo cinquantennale. E stavolta non si tratta dell’ennesimo remaster con tanto di nuova confezione cartonata; stavolta alla Apple hanno fatto le cose in grande.

Pubblicato originariamente in Gran Bretagna il 1° giugno 1967, “Sgt. Pepper” sarà infatti nuovamente disponibile in un lussuoso cofanetto da ben sei dischi (quattro ciddì, un divuddì e un bluray), contenente l’album originale opportunamente remixato (e non semplicemente remasterizzato) da Giles Martin (il figlio di George Martin, lo storico produttore dei Beatles, che ovviamente produsse anche “Sgt. Pepper”), la versione mono originale tanto dell’album quanto del singolo Strawberry Fields Forever/Penny Lane (due canzoni inizialmente concepite come parte integrante dell’album ma infine escluse perché la EMI preferì pubblicarle prima su singolo), una buona trentina di registrazioni alternative e soprattutto inedite delle canzoni pepperiane (una cosa alla “Anthology”, insomma), la versione 5.1 “surround” dell’album, un documentario del 1992 (debitamente restaurato) sul “making of” del disco, i videoclip di Strawberry Fields, Penny Lane e A Day In The Life, e quindi l’inevitabile serie di gadget compresi poster, inserti cartonati e il fondamentale libretto illustrativo con note storico-tecniche e fotografie (anche inedite) del periodo.

Questo, in sintesi, il cofanettone deluxe. Per i meno fanatici sarà comunque disponibile un doppio ciddì contenente sia il remix di Giles Martin dell’album che una selezione delle 33 versioni alternative dei brani altrimenti disponibili solo nel box. Il cinquantennale di “Sgt. Pepper” sarà commemorato anche attraverso il vinile: uscirà infatti un doppio trentatré contenente sia la versione remix che la versione mono, mentre già in occasione del prossimo Record Store Day, in programma il 22 aprile, verrà distribuito il singolo da sette pollici di Strawberry Fields Forever/Penny Lane.

Allora, riepilogando, il cofanettone deluxe da sei dischi conterrà quanto segue:

CD1 (il nuovo remix curato dal figlio di George Martin): 1. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, 2. With A Little Help From My Friends, 3. Lucy In The Sky With Diamonds, 4. Getting Better, 5. Fixing A Hole, 6. She’s Leaving Home, 7. Being For The Benefit Of Mr. Kite!, 8. Within You Without You, 9. When I’m Sixty-Four, 10. Lovely Rita, 11. Good Morning Good Morning, 12. Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band (Reprise), 13. A Day In The Life.

CD2 (le cosiddette “Sgt. Pepper Sessions 1966-67”): Strawberry Fields Forever, cinque versioni identificate come Take 1 (già su “Anthology 2”, 1996), Take 4, Take 7 (già su “Anthology 2”), Take 26 e Stereo Mix 2015; la Take 2 di When I’m Sixty-Four; tre versioni di Penny Lane identificate come Take 6 (strumentale), Vocal Overdubs And Speech e Stereo Mix 2017; cinque versioni di A Day In The Life identificate come Take 1, Take 2, Orchestra Overdub, Hummed Last Chord (comprendente le Take 8-11) e The Last Chord; due versioni di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ovvero Take 1 (strumentale) e Take 9; due versioni di Good Morning Good Morning (Take 1 e Take 8, quest’ultima già su “Anthology 2”).

CD3 (il seguito del secondo ciddì): due versioni di Fixing A Hole (Take 1 e Speech And Take 3); la Take 7 di Being For The Benefit Of Mr. Kite! (già su “Anthology 2”); la Speech And Take 9 di Lovely Rita; due versioni di Lucy In The Sky With Diamonds (Take 1 e Take 5, intervallate da vari Speech); due versioni di Getting Better (Take 1, strumentale, e Take 12); due versioni di Within You Without You (Take 1 e George Coaching The Musicians); due versioni strumentali di She’s Leaving Home (Take 1 e Take 6); le Take 1 e 2 di With A Little Help From My Friends; la versione Speech And Take 8 di Sgt. Peppers Lonely Hearts Club Band (Reprise).

CD4: la versione mono originale del 1967 di “Sgt. Pepper” più sei brani bonus, tutti mono anch’essi, e cioè Strawberry Fields Forever (Original Mono Mix), Penny Lane (Original Mono Mix), A Day In The Live (Unreleased First Mono Mix), Lucy In The Sky With Diamonds (Unreleased Mono Mix nr. 11, che si credeva perduto), She’s Leaving Home (Unreleased First Mono Mix) e Penny Lane (Capitol Records U.S. Promo Single, per l’edizione americana dell’epoca).

Blu-ray e dvd: “Sgt. Pepper”, Strawberry Fields Forever e Penny Lane, sia in 5.1 “surround” che in stereo ad alta risoluzione, e quindi il “Making Of” dell’album (sui cinquanta minuti, con contributi del ’92 di Paul McCartney, Ringo Starr, George Harrison e George Martin) e i tre videoclip del ’67.

Insomma, c’è davvero da leccarsi i baffi, considerando che il tutto è anche proposto in un bel box che fa pure la sua figura. Il prezzo, non proprio modicissimo, si aggira sui cento euro. Penso proprio che sia una spesa che valga la pena di fare. Sono anche tentato dall’acquisto, in occasione del Record Store Day, del 45 giri contenente il doppio lato A Strawberry Fields Forever/Penny Lane. Torneremo ad aggiornarci sull’argomento. – Matteo Aceto

Tutti gli album di George Harrison in vinile

george-harrison-tutti-gli-album-in-vinileLa notizia è di qualche giorno fa: il prossimo 25 febbraio, data di nascita del compianto George Harrison, la Universal distribuirà un lussuoso cofanetto contenente tutti gli album da solista – e in formato vinile – del chitarrista dei Beatles. Come ormai è d’obbligo in questi casi di riedizioni deluxe, ogni elleppì sarà stampato in vinile da 180 grammi e riproposto con la stessa veste grafica dell’originale dell’epoca. Oltre a tutti gli album che George Harrison ha fatto pubblicare a suo nome tra il 1968 e il 2002, il box – chiamato semplicemente “The Vinyl Collection” – conterrà anche due picture disc di 12 pollici riproducenti, rispettivamente, i singoli Got My Mind Set On You e When We Fas Fab. Nonostante due cofanetti usciti in anni recenti (“The Dark Horse Years” e “The Apple Years”, entrambi su ciddì), questa è la prima volta che tutta la produzione dell’Harrison solista viene contemplata in un’unica opera omnia. Cerchiamo ora di fare un punto della situazione, album dopo album, dei titoli presenti in “The Vinyl Collection”, con qualche piccola nota storico-critica.

“Wonderwall Music” (1968): il disco indiano di George, strumentale, colonna sonora dell’omonimo film. Inciso prevalentemente agli studi EMI di Bombay da musicisti locali, figura Harrison per lo più come produttore e supervisore generale. Ascoltato tanti anni fa, non lo trovai particolarmente memorabile; mi sembrò la versione estesa, per così dire, di brani dei Beatles come The Inner Light, Love You To e Within You Without You.

“Electronic Sound” (1969): edito dalla Zapple, l’etichetta “sperimentale” della stessa Apple di proprietà dei Beatles, è un lavoro completamente strumentale eseguito dal solo George al sintetizzatore. L’avrò ascoltato una volta, diversi anni fa, senza particolare entusiasmo; il mio sospetto è che di un album come “Electronic Sound” si continui a parlare perché presente nell’orbita Beatles, più che per i meriti intrinseci del disco.

All Things Must Pass” (1970): il vero capolavoro di George Harrison, è l’album più bello d’un Beatle in veste solista. E’ anche uno dei pochi album solistici che possono essere posti sullo stesso livello dei capolavori beatlesiani del periodo 1966-1969. Qui viene riproposto nella sua gloriosa edizione tripla con tanto di confezione scatolata. La scaletta dei brani è fedele all’originale, mentre nelle riedizioni a partire dal 2001 è sempre stata alterata dalla presenza di brani aggiuntivi.

Living In The Material World” (1973): sulla scia dei grandi successi di “All Things Must Pass” e “The Concert For Bangla Desh” (peraltro escluso da questo cofanetto del 2017), confermò tutto il talento di George con un album tanto personale quanto caldo & sentimentale. Da annoverare anch’esso tra le migliori realizzazioni beatlesiane da solista.

“Dark Horse” (1974): un disco interlocutorio, inciso quasi “per forza”, nonostante l’evidentissimo calo della voce del nostro in seguito alla tournée che aveva intrapreso parallelamente all’incisione dell’album. Un mezzo passo falso.

“Extra Texture” (1975): un lavoro più pop e gioioso del precedente, anche se non più assimilabile qualitativamente agli album del periodo 1970-73. E’ tuttavia un disco che manca fisicamente dalla mia collezione di dischi, come il precedente “Dark Horse”.

“Thirty Three & 1/3” (1976): originariamente distribuito dall’etichetta di proprietà dello stesso Harrison (la Dark Horse, per l’appunto) quando il chitarrista aveva effettivamente compiuto trentatrè anni… e quattro mesi! Un disco pregevole, suonato molto bene a discapito dell’ispirazione non sempre costante.

“George Harrison” (1979): pubblicato dopo una pausa di tre anni, questo album può essere annoverato tra i lavori migliori del nostro, forte di canzoni irresistibili come Blow Away, Faster e Your Love Is Forever.

“Somewhere In England” (1981): un lavoro mediocre, bisogna ammetterlo, ricordato per All Those Years Ago (singolo edito come risposta all’omicidio di John Lennon del dicembre ’80) e davvero poco altro.

“Gone Troppo” (1982): il punto più basso della carriera discografica di George Harrison, tanto da indurlo ad abbandonare la musica per anni, per dedicarsi prevalentemente alla sua seconda attività di impresario cinematografico.

Cloud Nine” (1987): l’album del grande ritorno e uno dei punti più alti tanto nella discografia del nostro quanto in quella dei Beatles in veste solista. Mi piacerebbe parlarne in un post ad hoc, così come di “All Things Must Pass”, la cui bozza giace da anni tra i miei appunti.

“Live In Japan” (1992): vinile doppio, contenente una registrazione dal vivo con la band di Eric Clapton del ’91. Per il nostro è una sorta di Greatest Hits Live, contenente anche diversi brani dei Beatles; un album non proprio necessario ma molto piacevole.

“Brainwashed” (2002): nonostante il clamore di “Cloud Nine”, della relativa tournée e del successo riscosso dai suoi due dischi realizzati come componente dei Traveling Wilburys, George Harrison restò inattivo come solista per tutti gli anni Novanta, tornando a proporre musica a suo nome quando era già seriamente malato. Piacevolissima sorpresa, senza dubbio tra i dischi più belli di George, “Brainwashed” uscì nel corso del 2002, quando purtroppo il musicista era già defunto. Mi piacerebbe riparlarne in un apposito post.

Fin qui gli album. Come abbiamo detto prima, “The Vinyl Collection” contiene inoltre due singoli originariamente estratti da “Cloud Nine”, ovvero la cover di Got My Mind Set On You (l’ultimo vero hit da classifica per il nostro) e la beatlesiana When We Was Fab, un brano che rifà malinconicamente il verso a I Am The Walrus e che si avvale della collaborazione dello stesso Ringo Starr (che peraltro partecipa in tanti altri episodi presenti in questo cofanetto). Insomma, siamo alle prese con un corpulento cofanettone da ben diciotto vinili… e da trecentocinquanta euro di prezzo. Uscirà comunque anche “a puntate”, album per album, ma senza i due picture disc bonus. Mi farò due conti prima di decidere se prenderlo in blocco o se andarmi ad acquistare quei singoli titoli che ancora mi mancano. Ovviamente, ma che lo dico a fare, sono molto tentato dalla prima opzione. – Matteo Aceto

The Beatles, l’album bianco, 1968

the-beatles-the-white-album-bianco-numero-1Nell’ottobre 2008 ho pubblicato due post a proposito di “The Beatles”, il famoso album bianco dei Fab Four pubblicato 40 anni prima. Cercando di riunire quei miei vecchi scritti in quest’unico post, spero d’aver coniugato un’utile condivisione d’informazioni a quella che non è mai stata una mia dote, la sintesi.

Chiamato “The White Album” per la sua confezione immacolata, il nostro è un disco ricco di sfaccettature, registrato in totale libertà creativa ma pure tra continue liti per questioni finanziarie e gestionali. Venne fuori, ad ogni modo, l’ennesimo capolavoro dei Beatles, un’epopea da 30 canzoni che spaziano dal pop all’avanguardia, fino ad anticipare alcuni generi come l’hard rock, il punk ma anche un certo epic rock da stadio; tutte sonorità che sarebbero definitivamente emerse nel decennio successivo.

Sconvolti dalla morte di Brian Epstein (agosto ’67), inesperti nel management dell’etichetta discografica (la Apple) che avevano appena fondato e di ritorno da un controverso viaggio in India, al seguito del Maharishi Mahesh Yogi per “studiare” meditazione trascendentale, i Beatles presero a lavorare a quello che sarebbe diventato un doppio album eponimo nel maggio 1968. E così, tornati in Inghilterra, i nostri si ritrovarono nella dimora di George Harrison per incidere i demo delle loro composizioni più recenti: tutti e quattro proposero diverse canzoni, addirittura 11 da parte del solo John Lennon, anche se non tutte furono incluse nell’album (alcune, come ad esempio JunkJealous Guy, che allora si chiamava Child Of Nature, finirono nei successivi dischi solisti). Perlopiù acustici e dal suono deliziosamente rilassato, questi demo sono stati parzialmente pubblicati nel terzo volume della serie “Anthology” (1996) con un’eccellente resa sonora.

Il 30 maggio, mentre da Parigi montava la più celebre delle contestazioni giovanili, i Beatles tornarono finalmente negli studi EMI di Abbey Road per registrare le canzoni da destinare alle loro prossime uscite discografiche: un album – poi diventato un doppio, quindi – e un 45 giri di grande successo. Si cominciò con una di John, la blueseggiante Revolution, che presto arrivò all’imponente durata di 10 minuti, con un finale psichedelico fatto di nastri che giravano al contrario e sovrapposizioni multiple d’effetti sonori. Lennon pensò bene di tagliare la canzone in due brani ben distinti, che divennero quindi la rilassata Revolution 1 (con tanto di sezione fiati) e Revolution 9, un folle collage sonoro realizzato grazie a quello che è il più evidente contributo di Yoko Ono a un pezzo dei Beatles. Comunque anche Harrison diede una mano, lo si sente pure nei dialoghi surreali presenti sul pezzo; nel “White Album” così come è entrato nelle nostre case, Revolution 9 viene inoltre introdotta dal frammento di una canzone di Paul McCartney, Can You Take Me Back?, altrimenti inedita e non accreditata nei titoli. Revolution 9 può essere quindi considerata un’opera dei Beatles a tutti gli effetti e non un’escursione solista di John & Yoko in un disco dei Beatles.

A giugno fu la volta del debutto di Ringo Starr come autore, l’amabile Don’t Pass Me By, per la quale s’era concepita un’introduzione orchestrale, poi scartata (vi lavorò direttamente George Martin, e la si può ascoltare comunque su “Anthology 3”, sotto il titolo di A Beginning). Quindi fu la volta di Blackbird, perla acustica scritta & eseguita dal solo Paul, così come di Everybody’s Got Something To Hide Except Me And My Monkey (titolo lungo per un testo di difficile interpretazione, in una canzone decisamente rock impreziosita da una grandiosa prova vocale di John, che ne è l’autore) e di Good Night (una delle più delicate creazioni lennoniane, affidata alla voce di Ringo e sorretta da un’orchestra e un coro diretti da George Martin).

A luglio fu quindi il turno della maccartiana Ob-La-Di, Ob-La-Da, il cui scanzonato andamento circolare e l’atmosfera complessivamente festosa ne tradiscono in realtà una gestazione lunga e complessa, con McCartney che avrebbe voluto lavorarci ancora per poi farne un singolo, prima che uno stufo Lennon dicesse basta. Il quale, stavolta rilassatissimo, mise su nastro Cry Baby Cry, guidando il resto dei Beatles in un’esecuzione amabile e accattivante. Tuttavia, se John voleva il gioco duro, Paul rispose con Helter Skelter, ovvero l’episodio più heavy di tutta la discografia beatlesiana, ad ennesima testimonianza della grande versatilità dei Beatles (e di Paul) e della loro (e sua) voglia di esplorare territori sonori inconsueti. Il colpaccio lo piazzò comunque George con la sua While My Guitar Gently Weeps: riconosciuta da Lennon – che per giunta non vi prese parte – come la miglior canzone dell’album bianco, questa dolente ballata rock impreziosita dalla chitarra solista di Eric Clapton resta senza dubbio una delle canzoni più belle dei Beatles. Una canzone nata già bella, a dire il vero, come testimonia ancora una volta “Anthology 3”, che include una versione acustica, ai primissimi stadi di lavorazione, assolutamente deliziosa. Forse colpito dalla maturazione artistica di George, ecco Paul che nel volgere di quello stesso mese di luglio, il giorno 29, introduce la sua Hey Jude nell’agenda di lavoro beatlesiana. Pubblicata su singolo un mese dopo – con una versione di Revolution appositamente riregistrata e molto più rock sul lato B – Hey Jude ottenne uno straordinario successo in tutto il mondo e tuttora è ricordata come una delle canzoni più belle e popolari dei Beatles, una per la quale non c’è davvero bisogno di presentazioni.

Ad agosto toccò invece alla lennoniana Yer Blues (un abrasivo rock-blues dove il suo autore esprime tra il serio e il faceto tendenze suicide) e alle maccartiane Mother Nature’s Son (rilassata e meditabonda, è un’altra esecuzione solista, sezione fiati a parte), Rocky Raccoon (sorta di country & western) e Wild Honey Pie (semplice improvvisazione da solo per voce, chitarra e batteria per un brano più corto d’un minuto del quale francamente potevamo tutti fare a meno). Pur se incise in quello stesso mese, altre tre canzoni dei Beatles andarono incontro a sorte diversa: la harrisoniana Not Guilty venne scartata dalla scaletta dell’album bianco per riapparire, in tutt’altra forma, nell’eponimo album solista di George del 1979; la lennoniana What’s The New Mary Jane, decisamente psichedelica, trovò posto nel catalogo ufficiale quasi trent’anni dopo, su “Anthology 3”, mentre la maccartiana Etcetera resta tuttora inedita.

Poi il fattaccio: il 22 agosto, durante una discussione mentre si lavorava alla nuova Back In The U.S.S.R., uno scanzonato rock dalle reminiscenze beachboysiane, Ringo se ne andò sbattendo la porta a causa della troppa tensione che s’era accumulata fra i quattro. La defezione del batterista venne tenuta segreta e i Beatles ridotti a trio continuarono imperterriti nel loro lavoro. Con Paul alla batteria, ecco quindi la lennoniana Dear Prudence, con quel pigro arpeggio di chitarra iniziale che è tutto un programma e la dolce voce di John che invita Prudence – la sorella di Mia Farrow ospite anch’essa del Maharishi in quella primavera ’68 – a uscire dalla sua paranoia.

Dopo il ritorno di Ringo, si procedette a settembre con le lennoniane Glass Onion (enigmatica e anche un po’ tetra, con rimandi ad altre canzoni beatlesiane) e Happiness Is A Warm Gun (costruita dall’unione di tre motivetti che Lennon aveva composto in India, mentre il titolo è stato preso da un’inquietante pubblicità di armi da fuoco), le maccartiane I Will (breve e pulsante ballata per chitarra acustica e percussioni) e Birthday (la cui ruvidità, unita al suo senso d’urgenza, sembrano anticipare le sonorità punk), e quindi la harrisoniana Piggies (insolitamente teatrale per George, forse lontana dal suo stile che, pur proponendovi un arrangiamento interessante, evidenzia nel testo una misantropia piuttosto sgradevole).

A ottobre fu la volta delle maccartiane Honey Pie (in stile anni Trenta), Martha My Dear (altra canzone dove il versatile Paul fa tutto da solo: voce, piano, basso, chitarra, batteria e battiti di mani… tutto tranne l’orchestra) e Why Don’t We Do It In The Road? (poco più di un’improvvisazione, provinata comunque in diverse forme, da una lieve e del tutto acustica eseguita dal solo Paul a questa più arrembante suonata con Ringo), delle harrisoniane Savoy Truffle (probabilmente la canzone più brutta dell’album bianco, il cui testo è stato “ispirato” da una scatola di cioccolatini particolarmente graditi dall’amico Eric Clapton) e Long, Long, Long (una ballata quasi sussurrata), e quindi delle lennoniane I’m So Tired (pigra ma isterica, lunga appena due minuti) e The Continuing Story Of Bungalow Bill (alquanto dimesso per gli standard beatlesiani del periodo, è un brano corale piuttosto scanzonato che narra le vicende di un altro ospite del Maharishi; è l’unico brano dei Beatles dove possiamo ascoltare – seppur brevemente – la voce solista di una donna, Yoko Ono) e infine Julia, ovvero una delle canzoni più belle e toccanti dei Beatles, sebbene sia un’esecuzione del solo John per voce & chitarra acustica.

Durante la lavorazione a “The Beatles”, inoltre, i nostri improvvisarono altri motivi, più o meno compiuti, come una versione di Blue Moon in medley con Helter Skelter, una jam in forma libera di Step Inside Love (una canzone scritta da Paul per una sua protetta, Cilla Black), una deliziosa alternativa di I Will chiamata The Way You Look Tonight, e una versione dissacrante di Sexy Sadie chiamata Maharishi (con pesanti insulti verso il guru ma anche contro Epstein, già defunto). Secondo alcuni tecnici di studio, infine, pare che McCartney provasse Let It Be fra una sessione e l’altra.

Come abbiamo già avuto modo di notare, buona parte di tutte queste canzoni venne eseguita da due o addirittura da un solo Beatle, con gli altri usati più come semplici musicisti che partner musicali veri e propri, e con ognuno che portava in studio i propri collaboratori di fiducia (Clapton, la Ono, ma anche Chris Thomas, in seguito famoso produttore). Tuttavia non mancano ruggenti e/o divertite esibizioni di gruppo, come Helter Skelter, Everybody’s Got Something To Hide, Ob-La-Di, Ob-La-Da o Birthday. Insomma, furono cinque mesi di registrazioni dove ognuno fece un po’ quello che gli pareva ma la libertà creativa ebbe da guadagnarci e i risultati furono eterogenei come non mai, e in molti casi assai interessanti.

“The Beatles” resta l’album più complesso e meno immediato dei Fab Four, ma il suo ascolto è sempre un’esperienza interessante, emozionante e a tratti esaltante. A chi ama questo doppio elleppì/ciddì consiglio vivamente anche l’ascolto di quella “Anthology 3” a cui abbiamo già accennato. Magari ne riparleremo in un prossimo post.

-Matteo Aceto

The Beatles, “Abbey Road”, 1969

the-beatles-abbey-road-immagine-pubblica-blogForse, e voglio rimarcare per bene il forse, “Abbey Road” è l’album migliore dei Beatles… non so se possa valere qualcosa ma è comunque il loro disco che ascolto più spesso.

L’ultimo album inciso dal celeberrimo quartetto inglese (anche se l’ultimo ad essere stato pubblicato fu “Let It Be”) iniziò a prender corpo ai Trident Studios di Londra il 22 febbraio 1969. S’iniziò con una nuova canzone di John Lennon, I Want You, una delle più suggestive dei Beatles che, secondo me, anticipa di dieci anni quel genere dark tanto caro agli inglesi dopo la sbornia punk alla fine degli anni Settanta.

Per giungere al risultato finale, tuttavia, le sessioni per I Want You si protrassero fino ad agosto, col brano che aveva assunto il titolo definitivo di I Want You (She’s So Heavy) e che durava la bellezza di oltre sette minuti, con tanto di rumore bianco (generato dal primo sintetizzatore ad essere usato nelle sessioni dei Beatles) ad intrufolarsi nel tenebroso arpeggio finale ad opera di George Harrison e dello stesso Lennon. Incisive parti d’organo ad opera di Billy Preston contribuiscono ad arricchire il già notevole risultato complessivo.

Nel frattempo altre canzoni presero corpo: il 25 febbraio, giorno del suo compleanno, George mise su nastro tre bellissimi demo acustici, ovvero Old Brown Shoe, All Things Must Pass e Something (è possibile ascoltarli su “Anthology 3”): solo quest’ultima venne lavorata dai Beatles per l’album “Abbey Road”, mentre la prima finì come lato B del prossimo singolo della band e la seconda divenne la title track del primo album post-Beatles di Harrison.

Nei giorni successivi, i nostri si presero una pausa per tentare di riordinare le precedenti sedute, quelle di “Get Back”, poi edito come “Let It Be” (ad aprile uscì il primo singolo estratto da questo materiale, Get Back / Don’t Let Me Down, che volò al 1° posto della classifica) ma, ormai stressati, i Beatles si separano per un po’. Ringo Starr iniziò quindi le riprese del film “The Magic Christian”, George andò all’estero, John sposò Yoko Ono, e Paul McCartney produsse altri artisti.

Le sessioni ripresero finalmente il 14 aprile allo Studio 3 degli EMI Studios di Londra, in Abbey Road per l’appunto: erano però presenti i soli John e Paul, per incidere un’impellente canzone con cui Lennon voleva denunciare le invasioni dei mass media nella sua vita privata. Il brano, chiamato appropriatamente The Ballad Of John And Yoko, si avvale quindi dei soli Lennon e McCartney alle voci e alla strumentazione; un risultato davvero notevole, pensato appositamente come lato A del prossimo singolo dei Beatles. I quattro si ritrovano comunque due giorni dopo, sempre allo Studio 3, per incidere quindi il lato B del singolo, la già citata Old Brown Shoe di George.

Diligenti & professionali come sempre, i Beatles mandarono avanti pure il nuovo album (anche se a quel punto non era ancora identificato dal titolo “Abbey Road”), lavorando sulla bellissima Something, sempre di George. Considerata da molti appassionati come la canzone più bella firmata da Harrison, la dolce e romantica Something rappresenta di certo uno dei vertici artistici dei Beatles per arrangiamento complessivo (bellissime le parti di basso e quelle orchestrali) e sentimento espresso.

Il 20 aprile si cominciò con un nuovo brano, stavolta ad opera di Paul, Oh! Darling: una bella canzone in stile doo-wop caratterizzata da un’urlante voce di McCartney. Sei giorni dopo e Ringo pure presentò una sua canzone, la scanzonata e divertente Octopus’s Garden, una sorta di Yellow Submarine in chiave country, mentre a fine mese si sovraincisero alcune parti di quello che doveva essere il secondo singolo tratto dal materiale di “Get Back”, ovvero Let It Be / You Know My Name. Ma anche qui le cose non sembrarono andare per il verso giusto e i Beatles tornarono a dedicarsi ai nuovi brani.

Un’altra nuova canzone venne introdotta da Paul il 6 maggio, la commovente You Never Give Me Your Money: un pezzo a dir poco superbo, senza dubbio fra i migliori dei Beatles, la testimonianza palese che McCartney vedeva il futuro più chiaramente degli altri, tanto che alle stesse conclusioni John sarebbe arrivato soltanto un anno dopo, nel suo “John Lennon/Plastic Ono Band”. Seguono quindi altri lavori infruttuosi per “Get Back” e più concretamente la pubblicazione del singolo The Ballad Of John And Yoko / Old Brown Shoe, il quale volò anch’esso al 1° posto della classifica inglese.

Altra grande prova di Paul, che il 2 luglio incise col gruppo la sua Golden Slumbers/Carry That Weight, un’altra stupenda e memorabile canzone che il bassista ha regalato ai Beatles (sia Golden Slumbers che You Never Give Me Your Money condividono lo stesso tema – la fine di quell’avventura straordinaria chiamata Beatles – e parte della musica, tanto commovente quanto maestosa). Poi, quasi per scherzo, Paul registrò in solitaria l’acustica Her Majesty che sarà collocata casualmente in chiusura di “Abbey Road”.

Il 7 luglio George presentò la gentile e ottimistica Here Comes The Sun, mentre due giorni dopo Paul introdusse la grottesca Maxwell’s Silver Hammer: se la prima è un’altra delle opere più memorabili di Harrison, tanto spensierata quanto deliziosa, la seconda è una delle canzoni meno amate (anche da Lennon) composte da McCartney, soprattutto per via del suo testo disturbante.

In quel periodo John Lennon ebbe un incidente automobilistico, avvenuto mentre scorrazzava in famiglia per la Scozia, che lo costrinse al ricovero: tornò in studio il giorno 21 con un classico dei Beatles, Come Together. Il brano, che comunque è una scopiazzatura di You Can’t Catch Me del grande Chuck Berry, è molto potente – anche se decisamente tenebroso – e verrà scelto come canzone d’apertura dell’album. Se si pensa a ciò che è accaduto a John l’8 dicembre 1980, è ancora inquietante sentirlo sussurrare ‘shoot me’ in alcuni punti di Come Together… è anche vero, d’altra parte, che il verbo ‘to shoot’ in slang inglese è un riferimento alla droga e in quel periodo John stava sperimentando l’eroina.

Terminata questa prima fase d’incisioni, Paul ebbe una (ennesima) idea: creare un medley che potesse riempire l’intera facciata B dell’album. Ciò diede l’opportunità ai Beatles di liberarsi di alcuni frammenti di vecchie canzoni che non erano state completate e di legarli fra di essi: da qui i brani Sun King (disteso e sonnacchioso), Mean Mr. Mustard (memore delle sonorità di “Sgt. Pepper”), Polythene Pam (nervoso e sarcastico), She Came In Through The Bathroom Window (disteso e sicuro di sè) e, come gran chiusura, l’apposita The End (brano decisamente progressivo, perlopiù strumentale, con tanto di unico assolo batteristico di Ringo in tutta la sua carriera beatlesiana) ad opera del solito Paul. Il 1° agosto, tuttavia, John introdusse una nuova canzone, la corale ma tetra Because, dopo la quale i Beatles tornarono a perfezionare e raffinare i lavori per l’album, avvalendosi per la prima volta anche del sintetizzatore al quale ho accennato sopra. Suonato alternativamente da George, John e Paul, quest’ultimo e innovativo strumento elettronico compare sempre in modo calibrato e funzionale tra le canzoni, senza mai stravolgere l’autenticità delle stesse.

Il produttore storico dei Beatles, George Martin, si occupava nel frattempo delle dovute partiture orchestrali, anche queste sempre ben mirate e mai invasive sugli arrangiamenti originali. Insomma, con “Abbey Road”, stiamo parlando pur sempre d’un capolavoro.

Il tutto, fra incisioni vere e proprie, ritocchi & ripensamenti, tagli e missaggi, terminò il 25 agosto, dopodiché i Beatles andarono a farsi la storica passeggiata sulle strisce pedonali davanti agli Abbey Road Studios per la copertina del disco. Disco che venne pubblicato il 26 settembre 1969 dalla Apple/EMI, che riscosse il solito enorme successo mondiale e che, giustamente, viene oggi considerato una pietra miliare nella storia del rock. Forse, e ripeto il forse, l’album migliore dei Beatles.

Il giorno 9/9/09 è stato ristampato tutto il catalogo beatlesiano, fra cui ovviamente anche “Abbey Road”, in una versione Digital Remaster notevolmente più nitida e pulita per quanto riguarda l’audio [

– Matteo Aceto