Cannonball Adderley, “Somethin’ Else”, 1958

cannonball-adderley-somethin-else-miles-davisE’ da un paio d’autunni che continuo a rimandare un post dedicato a “Somethin’ Else”, probabilmente l’album più famoso di Cannonball Adderley. Autunni perché questo disco così delizioso comincia proprio con Autumn Leaves, che in effetti adoro associare alla stagione autunnale.
“Somethin’ Else” è un album di Cannonball Adderley s’è detto poco fa; in realtà si tratta d’un lavoro che il celebre altosassofonista ha realizzato col preziosissimo supporto d’un altro celebre collega, il trombettista Miles Davis, ovvero uno dei miei artisti preferiti. Ma “Somethin’ Else” non sarebbe quello che è se all’epoca delle registrazioni, datate 9 marzo 1958, non v’avessero preso parte altri leggendari jazzmen: il pianista Hank Jones, il batterista Art Blakey, il bassista Sam Jones e il produttore Alfred Lion, fondatore della Blue Note, la prestigiosa etichetta per la quale uscì “Somethin’ Else”.

Insomma, come tutti i capolavori della musica contemporanea, pure “Somethin’ Else” è il frutto pressoché perfetto d’un’unione di personaggi dallo spiccato talento individuale che, messi assieme, realizzano un disco sopraffino, godibilissimo anche oggi, dopo oltre mezzo secolo dalla sua prima edizione. Del resto, si sa, i classici non hanno tempo, ignorano le mode, e questo “Somethin’ Else” è davvero qualcos’altro.

Cinque i brani presenti sul disco (tre standard e due composizioni originali), più un brano aggiunto nelle recenti ristampe del quale parleremo poi. Ora passiamo ad una piccola analisi track-by-track di “Somethin’ Else”, chiarendo fin da subito che sarà molto gradìta ogni vostra utile aggiunta tra i commenti.

Autumn Leaves
Ecco, a me basterebbero anche soltanto gli 11 minuti di Autumn Leaves per giustificare la presenza di “Somethin’ Else” nella mia collezione di dischi. Originariamente scritto da Joseph Kosma e diventato col tempo uno standard del jazz, il brano è qui reinterpretato in modo semplicemente e irresistibilmente grandioso. Al baldanzoso incedere iniziale del piano di Hank – sorretto dal basso di Sam e dalla batteria di Art – si sovrappongono all’unisono gli strumenti di Cannonball e Miles, finché dopo 52 secondi il solo Miles – con la sua caratteristica tromba sordinata – introduce il tema portante, così piacevolmente malinconico, scandito dallo swingare in tempo medio del trio Jones/Jones/Blakey. In seguito si ascolteranno prima un assolo dello stesso Adderley e poi un continuo alternarsi di assoli tra Davis e Hank Jones, i quali procederanno così fino alla lunga chiusura del brano (a partire da 8’57”, grazie a un passaggio bellissimo) che riprende – anche se più sommessamente – il baldanzoso tema iniziale. Insomma, nell’economia complessiva di questa versione di Autumn Leaves, il brano è certamente più una creazione di Miles Davis (con uno straordinario Hank Jones) che di Cannonball Adderley, ma all’epoca il nostro altosassofinista era ancora poco esperto nella conduzione d’un gruppo jazz, e del resto faceva ancora parte del gruppo dello stesso Miles. Per cui fu ben felice, credo, di lasciarsi guidare dal suo leader in un album che contribuì una volta per tutte a solidificare il nome di Julian “Cannonball” Adderley tra gli appassionati di musica. Ad ogni modo, questa Autumn Leaves è davvero splendida, senza dubbio fra le cose migliori che io abbia mai sentito.

Love For Sale
Scritta da quel genio di Cole Porter e interpretata negli anni da molti altri artisti (tra i quali segnalo Aretha Franklin con una versione superba), Love For Sale può essere tranquillamente inserita in qualsiasi “best of” di Miles Davis, anche se, come sappiamo, questa versione è accreditata all’Adderley solista. In effetti il carismatico trombettista tornò di lì a poco in studio – precisamente il 26 maggio – col suo gruppo (con tanto di Cannonball nei ranghi) per una “sua” versione, che però restò inedita fino al 1975. La versione di “Somethin’ Else” resta però superiore, francamente indimenticabile: dalla lenta ma elegante introduzione di piano, il brano si vivacizza con un alternarsi di assoli – nell’ordine – di tromba, di alto sax, di tromba, di piano (breve) e infine di tromba finché il tutto sfuma.

Somethin’ Else
Il brano che dà il titolo all’album, scritto proprio da Miles Davis, è uno swing vivace e piacevolmente sostenuto, che inizia con un irresistibile botta e risposta tra gli strumenti di Miles e di Cannonball. Seguiranno gli assoli veri e propri – prima Davis e poi Adderley – e quindi uno ad opera di Hank Jones; quest’ultimo, però, viene anticipato e infine seguìto da altri gioiosi scambi di fraseggi del duo Miles/Cannonball. Il tutto in 8 minuti di durata che scorrono via che è una bellezza.

One For Daddy-O
Secondo e ultimo brano originale in programma, One For Daddy-O è stato invece scritto dal fratello di Cannonball, quel Nat Adderley che spesso e volentieri legò la sua vicenda artistica con quella dell’illustre consanguineo. Dal passo felpato e sicuro di sé, One For Daddy-O è un brano che trovo sempre piuttosto sfuggevole: sì, insomma, riesce a fregarmi, a partire da quell’irriverente scambio tra sezione fiati e piano che si ascolta all’inizio (per poi riproporsi alla fine). Il primo assolo è stavolta affidato proprio a Cannoball, seguìto dal reciproco alternarsi di due assoli a testa per Miles e Hank. Alla fine del brano si ascolta distintamente la voce di Miles che, rivolgendosi al produttore, gli chiede: “era questo quello che volevi, Alfred?”. Ad ogni modo, One For Daddy-O ci regala altri 8 minuti di letizia sonora.

Dancing In The Dark
Scritta dal duo Schwartz/Deitz, questa memorabile ballata ha l’onore di chiudere un album altrettando memorabile. Unica esecuzione in programma a non figurare Miles Davis, la romantica Dancing In The Dark è una vetrina melodica per il sax alto di Cannonball, sorretto dalla puntuale eleganza del trio Jones/Jones/Blakey.

Bangoon
Gioioso e movimentato, noto anche come Alison’s Uncle, questo brano è stato aggiunto come bonus nelle recenti riedizioni remaster di “Somethin’ Else”. Scritto da Hank Jones e registrato nella stessa seduta del 9 marzo 1958, Bangoon non venne però inserito nell’edizione originale di “Somethin’ Else” e restò in archivio per oltre ventanni. Il suo ascolto è comunque interessante perché, oltre ai “consueti” assoli di Miles, Cannoball e Hank, troviamo una grande prova solistica di Art Blakey, la cui batteria si rende sempre più protagonista a partire da 3’50”.

Volendo chiudere un post che forse s’è dilungato pure troppo, aggiungo un ultimo commento personale: “Somethin’ Else”, album registrato al celebre studio allestito da Rudy Van Gelder a Hackensack, alle porte di New York, è un capolavoro che non mi stanco mai d’ascoltare, perfetto sia con lo stereo di casa che in auto. Ah, davvero ultimissima considerazione: in tutto il disco, il pianista Hank Jones esegue in maniera eccellente la sua funzione, ovvero quella di fare da cuscinetto tra sezione fiati e sezione ritmica. Un gigante, il buon Hank. – Matteo Aceto

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Isaac Hayes, “Black Moses”, 1971

Isaac Hayes Black Moses copertina originale LPDa anni conoscevo il nome di Isaac Hayes, principalmente come autore dei due classiconi Soul Man e Hold On, I’m Coming interpretati da Sam & Dave, e poco, molto poco, come autore in proprio. All’indomani della sua morte, avvenuta nel 2008, la Stax Records ha iniziato a ristampare il catalogo di Hayes, tra cui “Black Moses”, la cui recensione su non-so-più-quale-rivista aveva suscitato la mia curiosità. Mi aveva colpito in particolare la confezione del ciddì, che veniva riproposta per la prima volta così come era stata presentata con l’originale doppio vinile del 1971: apribile da più lati, fino a formare una croce nella quale Isaac Hayes viene immortalato proprio come un Mosè nero, in attesa di ricevere un comandamento divino.

Tuttavia, preso dai tanti interessi musicali, quasi avevo dimenticato la ristampa di “Black Moses”, finché, nella scorsa primavera, non l’ho adocchiata per caso in un negozio di Pescara. Per un giorno ci ho meditato su: edizione deluxe, mini replica dell’originalissima confezione del ’71, doppio ciddì, critiche benevole, grande artista. Ebbene, sono tornato al negozio di dischi e, a scatola chiusa, senza aver ascoltato un solo brano e senza nemmeno chiedere preventivamente il prezzo, ho comprato la mia bella copia di “Black Moses”.

Va da sé che non mi sono affatto pentito dell’acquisto, altrimenti non starei nemmeno qui a parlarne: “Black Moses” è un disco bellissimo, appassionato & appassionante, colmo di grande soul music d’annata, a sua volta accompagnata da grandiose partiture orchestrali, registrato in un decennio che ha prodotto della musica eccezionale sotto tutti i punti di vista. E che grande che è (stato, purtroppo) questo Isaac “Ike” Hayes: canta con la sua tipica voce baritonale, esegue i cori in falsetto, suona il piano, l’organo e altre tastiere, arrangia e conduce l’orchestra, e infine produce il tutto. Non scrive perché “Black Moses” è sostanzialmente un album di cover (tranne l’originale Good Love), descritto però dallo stesso Ike come il suo lavoro più personale, incentrato sugli alti & bassi delle storie d’amore.

Le canzoni di “Black Moses” non costituiscono tuttavia una semplice raccolta d’interpretazioni altrui, bensì sono state sottoposte ad un intenso processo di riarrangiamento (forse addirittura di ricomposizione) da parte del nostro, che le ha quindi riplasmate come se in effetti fossero sue. E se fra queste canzoni quella che meno preferisco è proprio Good Love, per quanto molto interessante e anticipatrice del sound che verrà, le altre tredici sono davvero l’una meglio dell’altra, fondamentalmente tutte in tempo medio e parecchio estese in durata. Alcune di esse sono ormai diventate tra le mie preferite in assoluto, già essenziali per il nutrimento sonoro delle mie orecchie. Sto parlando di Never Can Say Goodbye (l’originale è dei Jackson 5), (They Long To Be) Close To You (originale dei Carpenters), Nothing Takes The Place Of You (originale di Toussaint McCall), Man’s Temptation e Need To Belong To Someone (entrambe di Curtis Mayfield), Never Gonna Give You Up (del celebre duo Gamble & Huff) e soprattutto Your Love Is So Doggone Good, l’originale dei Whispers che qui viene reso come un incredibile orgasmo sonoro da ben 9 minuti e 20 secondi.

Notevoli anche le restanti cover, vale a dire Part-Time Love (di Johnny Taylor), A Brand New Me (portata al successo da Aretha Franklin), Going In Circles (dei Friends Of Distinction), Help Me Love (di Luther Ingram), For The Good Times (di Kris Kristofferson) e la bacharachiana I’ll Never Fall In Love Again (originariamente interpretata da Dionne Warwick). Alcune di queste canzoni, infine, sono introdotte dai caratteristici Ike’s Rap, vale a dire introduzioni parlate da parte del nostro, in uno stile che poi ha fatto scuola (vedi, ad esempio, la produzione di Barry White).

Prima di concludere, qualche breve annotazione storica e tecnica. Quando venne pubblicato, nel novembre ’71, “Black Moses” segnò un piccolo primato: a parte i dischi dal vivo, le colonne sonore e le compilation, l’album fu il primo doppio vinile per un artista afroamericano. Oltre ad Ike, vi suonano sia i Bar-Keys, assidui collaboratori del nostro, e sia altri abili turnisti, tra i quali mi preme segnalare il batterista Willie Hall. Diventerà ancora più famoso alla fine del decennio, quando entrò a far parte dei Blues Brothers, con tanto di parte nell’omonimo cult-film diretto da John Landis. Le note all’interno del libretto sono ad opera di Rob Bowman, autore del libro “Soulsville U.S.A.: The Story of Stax Records”. Unica nota dolente: estrarre i due ciddì dalla confezione senza traumi per essa è un’impresa alquanto difficile; ho rimediato procurandomi una custodia di plastica dove riporre a parte i dischi, salvando così l’integrità della bella confezione.

In definitiva, a parte tutto, non posso che lasciare un solo suggerimento: fatevi un regalo, comprate “Black Moses” di Isaac Hayes, è un disco che saprà come prendersi cura delle vostre ferite. – Matteo Aceto

Nina Simone

nina-simone-immagine-pubblica-blogIn questi giorni ho ascoltato così tanto Nina Simone che infine ho deciso di fare una piccola follia: oggi pomeriggio sono andato a comprarmi a scatola chiusa “To Be Free: The Nina Simone Story”, un cofanetto di tre ciddì e un divudì! E ne sono rimasto così entusiasta che ora provo a scrivere alcune mie impressioni su questa grandissima protagonista della canzone americana del ‘900.

Molto probabilmente, la prima volta che ho sentito parlare di Nina Simone è stata per via di David Bowie, quando in una sua intervista disse che la sua cover di Wild Is The Wind non era altro che una pallida rivisitazione d’una grande ballata interpretata diversi anni prima dalla Simone. Qualche anno fa, invece, e precisamente nell’estate del 2003, ho ritagliato e conservato degli articoli sulla morte di questa grande cantante… non so, intuivo che in un certo qual modo, prima o poi, sarei arrivato alla sua musica. E ora eccomi qui!

Non conosco (ancora) molto della vita artistica e privata di Nina Simone, so che ha dato comunque vita, fra gli anni Cinquanta e Settanta, ad una sfilza notevole di canzoni famose: I Loves You Porgy, My Baby Just Cares For Me, I Want A Little Sugar In My Bowl, I Put A Spell On You, Don’t Let Me Be Misunderstood, Ain’t Got No – I Got Life, la stessa Wild Is The Wind e altre ancora. Pur partendo da un repertorio jazzistico – tanto che pure oggi Nina Simone continua ad essere classificata come un’artista jazz – la nostra si è anche destreggiata abilmente con il soul, il blues, il rhythm & blues, il folk, il funk, il reggae, il pop e la canzone d’autore europea (davvero impressionante, in quest’ultimo caso, la sua versione di Ne Me Quitte Pas di Jacques Brel). Nel repertorio di Nina Simone si trovano altresì grandi cover di artisti del calibro di George Gershwin, Kurt Weill, Duke Ellington, Miles Davis, The Beatles, PrinceBee Gees, Bob Dylan, Leonard Cohen, Tina Turner e Aretha Franklin.

Posso tranquillamente affermare che Nina Simone, classe 1933, diva irrequieta e sempre orgogliosa del colore della sua pelle, è stata una delle più brave, appassionate e impressionanti interpreti della musica del secondo dopoguerra, un’artista la cui musica dovrebbe trovare posto in ogni seria collezione di dischi. – Matteo Aceto

Aretha Franklin, “Soul ’69”, 1969

aretha-franklin-soul-69-immagine-pubblicaDavvero molto gradevole “Soul ’69”, forse uno degli album più sottovalutati della divina Aretha Franklin. Personalmente lo trovo divertente, elegante, caldo e sensuale, un disco fortemente intriso di jazz, una scelta stilistica che all’epoca dispiacque non poco ai fan della prim’ora della divina. Accompagnata da una cazzuta big band di turnisti guidati dal celebre arrangiatore/conduttore Arif Mardin, “Soul ’69” ci mostra tuttavia una Franklin straordinariamente a suo agio e dalla potenza vocale & espressiva davvero al top.

Prodotto da Jerry Wexler e da Tom Dowd (in seguito noto produttore dei successi di Rod Stewart e Eric Clapton), “Soul ’69” offre dodici grandi interpretazioni di classici vecchi e nuovi (per quei tempi) dimostrando che la divina poteva tranquillamente affrontare il jazz senza perdere nulla del suo stile, per quanto il titolo dell’album cercava di mascherare il cambio di direzione. Infatti, in seguito, Wexler disse che il titolo originale dell’album era “Aretha’s Jazz Album”.

Tutte le sedute d’incisione per “Soul ’69” si tennero negli studi dell’Atlantic di New York, a partire dal 17 aprile 1968: quel giorno, accompagnandosi al piano, la divina registrò una nuova, immensa versione di Today I Sing The Blues (l’aveva già proposta qualche anno prima), assieme al singolo The House That Jack Built (pubblicato di lì a poco), la famosa I Say A Little Prayer e The Night Time Is The Right Time (queste ultime due saranno però pubblicate sull’album da studio precedente a “Soul ’69”, ovvero “Aretha Now”). Altra seduta per il giorno dopo, con una calda & rilassata cover Tracks Of My Tears di Smokey Robinson & The Miracles, dopodiché Aretha si trasferì in Europa per effettuare il suo primo tour nel vecchio continente.

Le sessioni ripresero quindi il 23 settembre, per cinque giorni consecutivi al termine dei quali verranno messe su nastro l’elegante So Long, la rilassata I’ll Never Be Free, l’irresistibile soul-jazz di Ramblin’, la sensuale Pitiful (il classico pezzo da jazz club cantato da una soul woman…), la suadente Gentle On My Mind, la briosa Bring It On Home To Me, l’intensa Crazy He Calls Me, la grandiosa Elusive Butterfly, la scintillante River’s Invitation e la stupenda If You Gotta Make A Fool Of Somebody. Durante queste sedute vennero incise almeno altre due canzoni, Talk To Me e I Can’t Turn You Loose, scartate però dal progetto finale.

Suonato da una schiera di musicisti comprendenti tastieristi, pianisti, organisti (fra i quali Joe Zawinul), chitarristi, bassisti, batteristi, percussionisti, sassofonisti (fra i quali King Curtis), flautisti, trombettisti, trombonisti e coriste, “Soul ’69” venne pubblicato nel gennaio 1969 riscuotendo soltanto un modesto successo e non diede vita a nessun vero hit single. Ma oggi come oggi chi se ne frega… sono passati quarantanni ma quella contenuta in “Soul ’69” resta sempre grande musica! – Matteo Aceto