Spesso anche i fan beatlesiani più convinti hanno criticato a Paul McCartney l’incostanza di alcuni suoi dischi, cioè il fatto che accanto a grandi canzoni nello stesso album figurassero brani minori del tutto trascurabili. A mio modesto avviso non è che il ben più quotato John Lennon abbia fatto di meglio. C’è tuttavia almeno un album lennoniano che considero consistente nel vero senso del termine: “John Lennon/Plastic Ono Band”.
Pubblicato alla fine di quel fatidico 1970 che vide la conclusione della parabola artistica dei Beatles, “John Lennon/Plastic Ono Band” segna per il nostro un punto d’arrivo e un punto di partenza al contempo: la fine del periodo beatlesiano e degli ideali del 1967-68, l’inizio della sua carriera solista e la parallela presa di coscienza come artista impegnato per i diritti civili. Il John Lennon che il pubblico conoscerà negli anni Settanta sarà molto diverso dal gioviale componente dei Beatles negli anni Sessanta e la sua musica finirà col risentirne parecchio.
“John Lennon/Plastic Ono Band” è un album piuttosto scarno, dai testi duri, disillusi, molto autobiografici, per quello che è uno dei lavori più crudi e sinceri mai proposti da un musicista pop-rock. Lennon non si fece infatti scrupoli ad esternare i suoi demoni e i suoi tormenti esistenziali, anche all’indomani della fine del mito Beatles: dopo che lui e Yoko Ono si sottoposero ad alcuni mesi di terapia primal scream condotta dal medico Arthur Janov, in modo da affrontare vecchi traumi infantili (soprattutto la prematura morte della madre, un tema che ricorre nel disco in questione), John tornò negli studi di Abbey Road nel settembre ’70 con pochi ma fidati amici – Ringo Starr (batteria), Klaus Voormann (basso), Billy Preston (piano) e la stessa Yoko – per produrre, assieme al celeberrimo Phil Spector, quello che ritengo essere il suo miglior album da solista.
Le undici canzoni contenute qui sono state messe su nastro in poche take, alcune praticamente in presa diretta, probabilmente come reazione da parte di Lennon all’esasperante perfezionismo dei grandi capolavori beatlesiani del periodo 1966-69. S’inizia in modo alquanto tetro, con delle campane che suonano a morto: poi entra l’aspro canto di John e l’implacabile e monotona batteria di Ringo per quella che è una rabbiosa e indimenticabile ballata, Mother. La ben più mite Hold On è invece una ballata dove John infonde coraggio a se stesso – ma anche a Yoko e al mondo intero – nel tenere duro e nel cercare di andare avanti; nonostante tutto, il tipico ottimismo beatlesiano sembra ancora intatto.
Dal ritmo più serrato e secco, I Found Out figura un altro cantato aspro da parte di John, il quale annuncia che finalmente ha aperto gli occhi sulla realtà che lo circonda, citando anche un certo Paul. La nota Working Class Hero è una canzone acustica che figura il solo Lennon con la sua chitarra: su ipnotici accordi, John canta un testo duro e disincantato, memore dello stile di Bob Dylan ma al contempo così tipicamente lennoniano. Con Isolation ritroviamo un po’ di dolcezza in quella che è una canzone davvero memorabile, una delle mie preferite nel catalogo di John: una ballata pianistica, anch’essa così tipicamente lennoniana, forte di una bella melodia e d’un indimenticabile bridge (‘I don’t expect you / to understand’ / ecc…) che poi sarà ripreso per vari provini di Real Life.
Caratterizzata da un incalzante pianoforte quale principale strumento ritmico, Remember si segnala soprattutto per la bella prova vocale da parte del nostro. Le fa seguito la famosa Love, un brano tanto semplice quanto bellissimo, fra i pezzi lennoniani più amati di sempre, dolcissimo in tutta la sua delicatezza acustica. Da segnalare, in Love, l’unico contributo strumentale di Phil Spector a questo disco, accompagnando al piano John che suona la chitarra acustica.
La minacciosa Well Well Well è altro pezzo caratterizzato dal tono aspro e rabbioso della voce di John (sul finale diventa urlata, in una sorta di esercizio primal scream), col tutto sorretto abilmente dalla pestante batteria di Ringo e dal cupo basso di Klaus. Ritroviamo un altro momento di dolcezza con la placida Look At Me, sorella di Julia, brano dei Beatles datato 1968: scritte praticamente insieme, qui Lennon propone per la prima volta questa delicata e sentimentale ballata acustica.
Ed eccoci infine a God, della quale ho già parlato… per non ripetermi rimando a quel vecchio post… però questa è una signora canzone, come si può non parlarne?! Straordinaria, che altro dire… se amate i Beatles e non avete mai sentito God correte ad ascoltarla… vi sorprenderà!
La conclusione di “John Lennon/Plastic Ono Band” è però affidata alla breve ma triste My Mummy’s Dead, una lenta filastrocca acustica che suona lontana e gracchiante, come se fosse filtrata da una radio. Mi ha sempre colpito il fatto psicologico che il dolore assorbito da piccoli e rimosso dalla spensieratezza giovanile prima o poi torna dal fondo della coscienza per chiedere il conto, anche ad uno come John Lennon, che all’epoca aveva trentanni, aveva appena messo fine alla storia più bella dell’arte del Ventesimo secolo, i Beatles, era fresco sposo ed era ricchissimo. – Matteo Aceto