Depeche Mode, “Spirit”, 2017

Depeche Mode Spirit immagine pubblicaComprato venerdì 17, nel giorno della sua uscita, “Spirit”, il nuovo album dei Depeche Mode, si è già rivelato per me una delusione. Un disco brutto non direi, anche perché, di dischi letteralmente brutti, i nostri non ne hanno mai fatto, ma un disco superfluo, che non aggiunge niente alla storia gloriosa di questa band che tiene botta dal 1981 è un qualcosa che posso dire pacificamente, nonostante il grande amore che da sempre provo per i Depeche Mode. Già il singolo apripista, il ben poco esaltante Where’s The Revolution, aveva ridimensionato le mie aspettative, ma i tre quattro ascolti che finora ho dedicato a “Spirit”, sia con lo stereo a palla, che con le cuffie e sia in autoradio hanno confermato le mie impressioni iniziali: un disco del quale si potrebbe anche fare a meno.

“Spirit” è sostanzialmente un disco dark, come probabilmente non se ne fanno più, o almeno non farebbe più una band del calibro e con la storia dei Depeche Mode, e la cosa di per sé sarebbe pure un merito. Tuttavia, in fatto di atmosfere tenebrose, notturne, crepuscolari & simili, i nostri hanno già dato prove decisamente superiori. Qui mancano melodie riconoscibili, ritornelli cantabili, passaggi musicali memorabili; è tutto un po’ dimesso, con un’elettronica più minimale rispetto a quanto sentito negli ultimi tre album ma anche decisamente meno coinvolgente. Mi viene da rimpiangere “Delta Machine“, ecco il punto.

In alcuni brani, inoltre, la voce di Dave Gahan – una delle più belle di sempre in ambito pop-rock, una voce che per giunta è letteralmente sbocciata da almeno quindici anni a questa parte, arricchendo essa stessa da sola ogni puntuale uscita dei nostri – è stata anche fastidiosamente ritoccata con effetti da studio. Magari la cosa resta funzionale al sound che si voleva dare alla canzone in questione, tuttavia ritoccare una voce così bella al naturale è per me un peccato gravissimo.

Inizio già a provare profonda antipatia per quel tale, James Ford, un signor nessuno per quanto mi riguarda, che è subentrato a Ben Hillier in qualità di produttore. Il signor Ford, stando a quanto riferito dalle mie orecchie, non sembra avere una sua personalità; se ce l’ha, le mie povere orecchie non l’hanno proprio avvertita dall’ascolto di “Spirit”. Un ascolto complessivo che, per giunta, mi ha portato alla noia all’approssimarsi puntuale della nona decima canzone (sulle dodici totali).

In definitiva, è tutto da buttare? Diciamo che si può salvare il primo brano in programma, Going Backwards, decisamente il meglio che “Spirit” abbia da offrire: tetro, pulsante, amaro, disilluso, con quel finale in cui le voci di Dave Gahan e Martin L. Gore, intrecciandosi, affermano che noi – uomini moderni alle prese con una vera e propria involuzione (è questo un po’, se vogliamo, il manifesto del disco, o il suo spirito, per restare sul pezzo) – non sentiamo più niente dentro perché in fondo non abbiamo più niente dentro. Posso anche essere d’accordo. Se però in questo “noi” includiamo gli stessi Depeche Mode, ovviamente. – Matteo Aceto

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Depeche Mode, “Delta Machine”, 2013

Depeche Mode Delta Machine immagine pubblicaNell’attesa di “Spirit“, il nuovo album dei Depeche Mode che uscirà venerdì 17 (data fatidica!), sono andato a risentirmi il disco precedente della band inglese, ovvero “Delta Machine”, pubblicato giusto quattro anni fa. Confesso di non averlo sentito granché in questi ultimi anni, un bel po’ di ascolti ripetuti – soprattutto alla guida – in quella prima parte del 2013 e quindi riposto nello scaffale tra gli altri titoli della mia collezione. Non che non mi sia piaciuto l’album, è che i Depeche Mode stanno praticamente riciclando il loro stesso sound almeno dal 2005, con l’album “Playing The Angel”, per cui a uno come me, che possiede tutti i loro dischi e li ascolta da decenni, il “nuovo” album di turno suona tutto fuorché nuovo.

Anche dall’imminente “Spirit” non mi aspetto granché, sono tuttavia curioso di ascoltarlo, così come ero curioso quattro anni fa mentre mi recavo in negozio per comprarmi la mia bella copia di “Delta Machine”. Perché i Depeche Mode, in fondo in fondo, un disco brutto non l’hanno mai fatto e perché a certe cose ci si affeziona; è come andare a trovare dei vecchi amici, che sono vecchi per davvero: magari ti ripetono sempre le stesse storie, sono sempre meno in forma, anche la lucidità comincia a fare cilecca, eppure resta un piacere starli a sentire, andarli a trovare, tanto per il gusto di salutarli di tanto in tanto. E poi i Depeche Mode fanno pubblicare un album ogni quattro anni, per cui l’acquisto della loro ultima “fatica” è un “sacrificio” che possiamo benissimo sostenere.

Mi sto dilungando in maniera preoccupante. Anche io sono invecchiato, e non sono più il blogger di una volta. Quel che mi premeva dire, ad ogni modo, è che riascoltato oggi, un album come “Delta Machine” non è affatto male: prima di tutto perché contiene Heaven, che era e rimane una delle più belle e intense canzoni dei Depeche Mode, poi perché brani come Soothe My Soul e Goodbye ricordano piacevolmente alcuni pezzi di “Violator” (che era e rimane il più bel disco dei nostri), e poi perché la voce di Dave Gahan è sempre più bella (ascoltarla in Should Be Higher oppure in quel revival del sound modiano anni Ottanta che è Secret To The End per credere). Anche quel taglio blueseggiante che hanno diverse canzoni di “Delta Machine” (tra cui la stessa Heaven) contribuisce felicemente alla resa sonora complessiva, mentre per quanto riguarda il brano più brutto (davvero brutto, risentito stamane mi è sembrato pure peggio di come me lo ricordavo), ovvero Soft Touch/Raw Nerve, i nostri hanno avuto almeno il buon gusto di farlo durare meno degli altri.

Ultimo di una trilogia di album dei Depeche Mode prodotta da Ben Hillier, “Delta Machine” non potrà mai essere annoverato come uno dei lavori più rappresentativi della band inglese – che ormai calca le scene da ben trentasei anni, è bene ricordarlo – ma tuttavia resta un’efficace testimonianza della classe e della bravura che questo trio devoto all’elettropop non ha mai perso, a dispetto degli anni e dei decenni che scorrono via inesorabilmente. – Matteo Aceto