McCoy Tyner, “The Real McCoy”, 1967

McCoy Tyner, The Real McCoy, immagine pubblica blogScomparso lo scorso 6 marzo, il grande pianista jazz McCoy Tyner è noto soprattutto per la sua lunga e prolifica collaborazione con John Coltrane. Ha tuttavia dato vita ad una discografia solistica di tutto rispetto, una di quelle che mi piacerebbe approfondire in un prossimo futuro e che per ora è rappresentata tra i miei dischi da un solo album, ovvero “The Real McCoy”, edito dalla Blue Note nel 1967.

Inciso in un solo giorno, il 21 aprile ’67, nell’ormai leggendario Van Gelder Studio in New Jersey (USA), “The Real McCoy” si avvale della partecipazione del sassofonista Joe Henderson, del bassista Ron Carter (all’epoca ancora membro del celebre secondo grande quintetto di Miles Davis) e del batterista Elvin Jones (già compagno di avventure di McCoy Tyner nel John Coltrane Quartet), oltre ovviamente del nostro pianista che qui compare per la prima volta come leader in un suo album della Blue Note.

“The Real McCoy” è inoltre il primo album del nostro a figurare materiale interamente composto da lui, per un totale di cinque brani: due più dinamici e spumeggianti (l’iniziale Passion Dance e Four By Five), due di matrice blues (Contemplation e il conclusivo Blues On The Corner) e quindi una ballata (Search For Peace, il classico pezzo che da solo giustifica i soldi spesi per l’acquisto del disco).

Un lavoro, questo “The Real McCoy”, che deve molto agli anni in cui il signor Tyner è stato il pianista di Coltrane, tanto che ne sembra l’ideale prosecuzione stilistica, sebbene si ha la sensazione che il nostro sia andato a recuperare il filo del discorso che il Coltrane Quartet aveva reciso attorno al 1964 (l’anno degli album “Crescent” e “A Love Supreme“, tanto per intenderci). Un grande album, insomma, con della grande musica, che rifugge tuttavia gli aspetti più sperimentali e dissonanti degli ultimi anni della collaborazione con Coltrane, a tutto vantaggio della melodia e del più puro piacere per noi poveri ascoltatori. – Matteo Aceto

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Wayne Shorter, “Adam’s Apple”, 1966

wayne shorter adam's apple immagine pubblicaDecimo album da leader per Wayne Shorter, “Adam’s Apple” è uno di quei dischi che ho scelto per caso e acquistato a scatola chiusa, senza cioè conoscerne prima una sola nota. Insomma, una volta entrato in negozio con l’intenzione di comprarmi un disco, non ho saputo resistere a una ristampa del 2013 d’un classico della Blue Note uscito originariamente nel 1966. Anche perché l’album vanta due dei miei musicisti preferiti, ovvero il pianista Herbie Hancock e ovviamente il sassofonista Wayne Shorter, qui esclusivamente alle prese col sax tenore.

Registrato anch’esso come tanti altri capolavori del jazz allo studio di Rudy Van Gelder, “Adam’s Apple” figura cinque composizioni originali, tutte scritte dallo stesso Shorter, e una magnifica reinterpretazione di 502 Blues (Drinkin’ And Drivin’), originariamente firmata da Jimmy Rowles. Tutti i brani sono stati incisi il 24 febbraio ’66 – tranne quella Adam’s Apple che dà il titolo al disco, messa su nastro tre settimane prima – e tutti sono eseguiti da un quartetto composto dai già citati Wayne Shorter e Herbie Hancock e quindi dal bassista Reggie Workman e dal batterista Joe Chambers.

La prima facciata del nostro vinile è caratterizzata soprattutto dall’avvolgente latineggiare di Adam’s Apple e di El Gaucho, intervallati comunque dal romantico incedere di 502 Blues. Invece Footprints, l’ammaliante brano che apre il lato B, è forse più noto nella versione incisa da Miles Davis sul finire di quello stesso 1966: sono due registrazioni magistrali, non c’è che dire, ma questa originale di Shorter (lui che comunque compare nella versione davisiana assieme ad Hancock) è quella che preferisco perché più essenziale e in qualche modo più ordinata di quella che figura su “Miles Smiles” (1967). Oltre a figurare un bellissimo assolo iniziale da parte di Wayne, inoltre, la Footprints shorteriana vanta un raro (almeno qui) ma notevole assolo di Workman, per quanto non molto esteso.

Teru è invece una di quelle sopraffini ballad jazzistiche che sembrano suonate in punta di piedi, tanto sono lievi e delicate, quasi che non si volesse disturbare troppo chi ascolta. Il conclusivo Chief Crazy Horse deve qualcosa allo stile compositivo/esecutivo che John Coltrane aveva introdotto col suo quartetto storico qualche anno prima in certi suoi brani dal sentore più blues; da qualche parte, inoltre, avevo letto che Chief Crazy Horse era proprio un esplicito omaggio a Coltrane. Ad ogni modo è un brano che forse non spicca per originalità ma che resta tuttavia un’esperienza d’ascolto interessante, soprattutto per il gran lavoro di Joe Chambers.

Album senza fronzoli, brioso e melodico a un tempo, suonato da quattro musicisti in stato di grazia, “Adam’s Apple” non può non piacere; dovrebbe risultare più che gradito anche a chi si avvicina all’arte di Wayne Shorter per la prima volta. Un disco godibile in quanto tale, indipendentemente dalle etichette, dalle epoche e dalle recensioni. – Matteo Aceto

Il mio Miles Davis

miles-davisNell’acquistare ogni disco che suscitava il mio interesse non ho badato (quasi mai) a spese. Contrariamente all’opinione comune, sborsare una ventina di euro per un ciddì non mi sembra una follia, come se l’edizione fresca di stampa d’un qualsiasi libro non ci alleggerisse di altrettanti soldini (e nonostante un’IVA decisamente più bassa). Eppure, chissà perché, non sento nessuno lamentarsi del caro-libri, se non a settembre, nei confronti dei libri di testo scolastici. Per me è una follia spendere 600 euro per un telefono, ecco il punto, senza parlare di chi spende allegramente 30mila euro per il più fesso degli status symbol: l’automobile.

Qualche follia, però, l’ho fatta anch’io, in particolare per i dischi di Miles Davis, probabilmente l’artista per cui ho speso più soldi. “Colpa” anche di quelle magnifiche edizioni Sony uscite tra il 1996 e il 2007, quei cofanetti da quattro, cinque, sei o addirittura sette ciddì con la rilegatura laterale in metallo che li tiene a mo’ di libro. Io non mai ho saputo resistere e, nel giro di pochi anni, sono andato a comprarmeli tutti, questi cofanetti deluxe, comprese le ristampe “economiche” riproposte di recente con le sole custodie cartacee. Dannata Sony, hai stampato e ristampato di tutto, bastava che recasse il nome Miles Davis sopra! E io ci sono cascato in pieno, facendo la gioia dei vostri geni del marketing! Ma me ne sono pentito? NO.

Anche la Warner Bros, che ha avuto Miles Davis sotto contratto nei suoi ultimi cinque anni di vita (1986-1991), ci è andata giù abbastanza pesantemente. Mi pubblica un costoso cofanetto da 20 (venti!) ciddì contenente tutte le sue esibizioni al Montreux Jazz Festival? Ebbene, io sono andato a comprarmelo! E le incisioni Blue Note? Le Capitol? Le Prestige? Tutte, prese tutte! La mia debolezza sentimentale, tuttavia, è per le etichette di proprietà della Sony, ovvero quelle che coprono gli anni d’incisione 1955-1985, un trentennio tondo tondo di musica straordinaria che, per quanto mi riguarda, rappresenta la più bella avventura musicale del secondo dopoguerra, seconda forse a quella dei Beatles.

Ecco, volevo scrivere un post più biografico su Miles Davis, in questo 2016 che segna il novantesimo anniversario della nascita e il venticinquesimo della morte, e non scrivendo dei dischi. Almeno non ora. Però, a ben vedere, i dischi sono l’unica cosa che posso vantare a proposito dell’universo di Miles Davis giacché, per questioni anagrafiche, ho iniziato a interessarmi all’arte e alla figura del celeberrimo trombettista soltanto molti anni dopo la sua morte.

A breve mi piacerebbe ripubblicare quanto scritto sulle precedenti incarnazioni di questo modesto blog; i miei “archivi segreti” contengono cinque post originariamente pubblicati tra il maggio 2008 e il maggio 2009, più l’abbozzo d’un sesto. Con le dovute revisioni, vorrei riproporli qui nelle settimane prossime, non perché particolarmente memorabili ma perché forse non saprei fare di meglio. Sarà inoltre un’occasione per lasciarmi ispirare nello scrivere qualche nuovo post. Ad ogni modo, mi riserverò una “milesdavizzazione” di Immagine Pubblica che forse ho rinviato anche troppo, un po’ come la “freddiemercuryzzazione” degli scorsi mesi. Tra un post e l’altro, come sempre, avremo comunque modo di parlare d’altro.

-Mat

Cannonball Adderley, “Somethin’ Else”, 1958

cannonball-adderley-somethin-else-miles-davisE’ da un paio d’autunni che continuo a rimandare un post dedicato a “Somethin’ Else”, probabilmente l’album più famoso di Cannonball Adderley. Autunni perché questo disco così delizioso comincia proprio con Autumn Leaves, che in effetti adoro associare alla stagione autunnale.
“Somethin’ Else” è un album di Cannonball Adderley s’è detto poco fa; in realtà si tratta d’un lavoro che il celebre altosassofonista ha realizzato col preziosissimo supporto d’un altro celebre collega, il trombettista Miles Davis, ovvero uno dei miei artisti preferiti. Ma “Somethin’ Else” non sarebbe quello che è se all’epoca delle registrazioni, datate 9 marzo 1958, non v’avessero preso parte altri leggendari jazzmen: il pianista Hank Jones, il batterista Art Blakey, il bassista Sam Jones e il produttore Alfred Lion, fondatore della Blue Note, la prestigiosa etichetta per la quale uscì “Somethin’ Else”.

Insomma, come tutti i capolavori della musica contemporanea, pure “Somethin’ Else” è il frutto pressoché perfetto d’un’unione di personaggi dallo spiccato talento individuale che, messi assieme, realizzano un disco sopraffino, godibilissimo anche oggi, dopo oltre mezzo secolo dalla sua prima edizione. Del resto, si sa, i classici non hanno tempo, ignorano le mode, e questo “Somethin’ Else” è davvero qualcos’altro.

Cinque i brani presenti sul disco (tre standard e due composizioni originali), più un brano aggiunto nelle recenti ristampe del quale parleremo poi. Ora passiamo ad una piccola analisi track-by-track di “Somethin’ Else”, chiarendo fin da subito che sarà molto gradìta ogni vostra utile aggiunta tra i commenti.

Autumn Leaves
Ecco, a me basterebbero anche soltanto gli 11 minuti di Autumn Leaves per giustificare la presenza di “Somethin’ Else” nella mia collezione di dischi. Originariamente scritto da Joseph Kosma e diventato col tempo uno standard del jazz, il brano è qui reinterpretato in modo semplicemente e irresistibilmente grandioso. Al baldanzoso incedere iniziale del piano di Hank – sorretto dal basso di Sam e dalla batteria di Art – si sovrappongono all’unisono gli strumenti di Cannonball e Miles, finché dopo 52 secondi il solo Miles – con la sua caratteristica tromba sordinata – introduce il tema portante, così piacevolmente malinconico, scandito dallo swingare in tempo medio del trio Jones/Jones/Blakey. In seguito si ascolteranno prima un assolo dello stesso Adderley e poi un continuo alternarsi di assoli tra Davis e Hank Jones, i quali procederanno così fino alla lunga chiusura del brano (a partire da 8’57”, grazie a un passaggio bellissimo) che riprende – anche se più sommessamente – il baldanzoso tema iniziale. Insomma, nell’economia complessiva di questa versione di Autumn Leaves, il brano è certamente più una creazione di Miles Davis (con uno straordinario Hank Jones) che di Cannonball Adderley, ma all’epoca il nostro altosassofinista era ancora poco esperto nella conduzione d’un gruppo jazz, e del resto faceva ancora parte del gruppo dello stesso Miles. Per cui fu ben felice, credo, di lasciarsi guidare dal suo leader in un album che contribuì una volta per tutte a solidificare il nome di Julian “Cannonball” Adderley tra gli appassionati di musica. Ad ogni modo, questa Autumn Leaves è davvero splendida, senza dubbio fra le cose migliori che io abbia mai sentito.

Love For Sale
Scritta da quel genio di Cole Porter e interpretata negli anni da molti altri artisti (tra i quali segnalo Aretha Franklin con una versione superba), Love For Sale può essere tranquillamente inserita in qualsiasi “best of” di Miles Davis, anche se, come sappiamo, questa versione è accreditata all’Adderley solista. In effetti il carismatico trombettista tornò di lì a poco in studio – precisamente il 26 maggio – col suo gruppo (con tanto di Cannonball nei ranghi) per una “sua” versione, che però restò inedita fino al 1975. La versione di “Somethin’ Else” resta però superiore, francamente indimenticabile: dalla lenta ma elegante introduzione di piano, il brano si vivacizza con un alternarsi di assoli – nell’ordine – di tromba, di alto sax, di tromba, di piano (breve) e infine di tromba finché il tutto sfuma.

Somethin’ Else
Il brano che dà il titolo all’album, scritto proprio da Miles Davis, è uno swing vivace e piacevolmente sostenuto, che inizia con un irresistibile botta e risposta tra gli strumenti di Miles e di Cannonball. Seguiranno gli assoli veri e propri – prima Davis e poi Adderley – e quindi uno ad opera di Hank Jones; quest’ultimo, però, viene anticipato e infine seguìto da altri gioiosi scambi di fraseggi del duo Miles/Cannonball. Il tutto in 8 minuti di durata che scorrono via che è una bellezza.

One For Daddy-O
Secondo e ultimo brano originale in programma, One For Daddy-O è stato invece scritto dal fratello di Cannonball, quel Nat Adderley che spesso e volentieri legò la sua vicenda artistica con quella dell’illustre consanguineo. Dal passo felpato e sicuro di sé, One For Daddy-O è un brano che trovo sempre piuttosto sfuggevole: sì, insomma, riesce a fregarmi, a partire da quell’irriverente scambio tra sezione fiati e piano che si ascolta all’inizio (per poi riproporsi alla fine). Il primo assolo è stavolta affidato proprio a Cannoball, seguìto dal reciproco alternarsi di due assoli a testa per Miles e Hank. Alla fine del brano si ascolta distintamente la voce di Miles che, rivolgendosi al produttore, gli chiede: “era questo quello che volevi, Alfred?”. Ad ogni modo, One For Daddy-O ci regala altri 8 minuti di letizia sonora.

Dancing In The Dark
Scritta dal duo Schwartz/Deitz, questa memorabile ballata ha l’onore di chiudere un album altrettando memorabile. Unica esecuzione in programma a non figurare Miles Davis, la romantica Dancing In The Dark è una vetrina melodica per il sax alto di Cannonball, sorretto dalla puntuale eleganza del trio Jones/Jones/Blakey.

Bangoon
Gioioso e movimentato, noto anche come Alison’s Uncle, questo brano è stato aggiunto come bonus nelle recenti riedizioni remaster di “Somethin’ Else”. Scritto da Hank Jones e registrato nella stessa seduta del 9 marzo 1958, Bangoon non venne però inserito nell’edizione originale di “Somethin’ Else” e restò in archivio per oltre ventanni. Il suo ascolto è comunque interessante perché, oltre ai “consueti” assoli di Miles, Cannoball e Hank, troviamo una grande prova solistica di Art Blakey, la cui batteria si rende sempre più protagonista a partire da 3’50”.

Volendo chiudere un post che forse s’è dilungato pure troppo, aggiungo un ultimo commento personale: “Somethin’ Else”, album registrato al celebre studio allestito da Rudy Van Gelder a Hackensack, alle porte di New York, è un capolavoro che non mi stanco mai d’ascoltare, perfetto sia con lo stereo di casa che in auto. Ah, davvero ultimissima considerazione: in tutto il disco, il pianista Hank Jones esegue in maniera eccellente la sua funzione, ovvero quella di fare da cuscinetto tra sezione fiati e sezione ritmica. Un gigante, il buon Hank. – Matteo Aceto