Pink Floyd, “The Wall”: i mattoni sparsi

pink-floyd-the-wall-film-alan-parker-immagine-pubblicaEccomi qui alle prese con l’ultimo post dedicato a “The Wall” dei Pink Floyd, una pietra miliare del rock… o meglio, un muro miliare del rock!

Dunque, tra il dicembre ’79 e il gennaio ’80, l’album volò al vertice della classifica in molti Paesi, tra i quali la nativa Gran Bretagna e gli Stati Uniti: oggi, coi suoi venticinque milioni di copie vendute, “The Wall” è il disco degli anni Settanta più venduto al mondo, una cifra ancora più straordinaria se si pensa che si tratta d’un doppio. Ora però procediamo con la storia, che i record e i numeri non mi hanno mai affascinato troppo.

Uno dei temi portanti di “The Wall” è la dimensione alienante tra artista ed audience sperimentata in prima persona col tour “In The Flesh” del 1977: Roger Waters è assolutamente contrario a portare lo spettacolo di “The Wall” negli stadi. Sono così previsti degli show in arene con un massimo di quindicimila posti, dove tutti possano godersi la musica e gli straordinari effetti visivi appositamente preparati: la costruzione effettiva da parte d’una squadra di operai d’un muro di cartone alto oltre quattro metri e lungo oltre i dieci; dei montacarichi per permettere agli operai di muoversi ma anche alla band di seguire alcune ambientazioni della storia; il classico schermo circolare tipico dei concerti dei Pink Floyd dove proiettare gli incredibili cartoni animati realizzati dalla squadra di Gerald Scarfe; ultimi ma non ultimi, gli effetti scenici degli enormi pupazzi gonfiabili, con tanto di luci accessorie, che rappresentano i vari protagonisti della storia narrata in “The Wall”.

Mentre la band ed i propri collaboratori progettavano questo nuovo spettacolo si era pensato anche di creare di volta in volta una speciale arena da montare in ogni città attraversata dal tour. La struttura era caratterizzata esteriormente da una forma a lumaca nuda che infine, per complicanze logistiche, si decise di accantonare: si scelsero invece quattro arene dove replicare più volte lo stesso spettacolo. E così, partita dalla Los Angeles Sports Arena nel febbraio ’80, la rappresentazione dal vivo di “The Wall” continuò per un anno per poi concludersi alla Wastfallenhande di Dortmund (Germania) nel febbraio ’81. Le altre due arene ‘intermedie’ erano il Greater Nassau Coliseum di New York (febbraio ’80) e la celebre Earl’s Court di Londra (agosto ’80 e giugno ’81).

Un’eccellente sintesi di queste quattro lunghe performance nelle quali i Pink Floyd eseguivano per intero “The Wall” costituisce l’album “Is There Anybody Out There?/The Wall Live“, pubblicato nel 2000. In due CD viene così riproposto lo spettacolo completo (solo audio però) della rappresentazione di “The Wall” da parte dei nostri: molte delle canzoni acquisiscono più spessore dal vivo, alcune sono invece estese per permettere nel frattempo agli operai di completare la costruzione effettiva del muro (l’ultimo mattone veniva posto appena Roger finiva di cantare Goodbye Cruel World, terminando la prima parte dello spettacolo). La cosa più interessante è però l’inclusione di parti che per ragioni di tempo e di sintesi narrativa erano state escluse dall’album in studio (il produttore Bob Ezrin convinse Waters a realizzare due LP da quaranta minuti l’uno): e così possiamo ascoltare canzoni escluse (la potente What Shall We Do Now? ma anche un grandioso medley strumentale chiamato The Last Few Bricks) o nella loro forma originaria (Empty Spaces e The Show Must Go On, entrambe più lunghe e con testi diversi). Da segnalare che in questi incredibili spettacoli dal vivo i Pink Floyd erano ben otto (!) più quattro coristi: otto perché Roger Waters (voce, basso, chitarra), David Gilmour (voce, chitarra, basso), Nick Mason (batteria) e il povero Rick Wright (tastiere) erano supportati dal bravissimo Snowy White (chitarra, già coi nostri dal vivo prima e dopo “The Wall”), da Peter Woods (tastiere), da Andy Bown (basso), da Willie Wilson (batteria) e da Andy Roberts (che sostituì White alla chitarra negli spettacoli del 1981). Tutte le altre informazioni su “The Wall Live”, comprese le note tecniche & i disegni & le foto del progetto & le interviste & tutto quello che più desiderate sapere su quest’affascinante rappresentazione rock-teatrale lo trovate nel cofanetto di “Is There Anybody Out There?” (2000), un disco che consiglio a tutti gli amanti sfrenati dei Pink Floyd come me.

Dopo i concerti, si passò all’ultima fase della multimedialità insita in “The Wall”, ovvero la realizzazione del film vero e proprio. Qui le cose si fecero notevolmente più complicate e, in definitiva, più stressanti: il film, chiamato semplicemente “Pink Floyd The Wall”, uscì nel corso del 1982 riscuotendo comunque un grosso successo. Diretto da Alan Parker (più volte in rotta di collisione con Waters, che scrisse la sceneggiatura), il film figura un giovane Bob Geldof – allora leader dei Boomtown Rats – nella parte principale, quella di Pink. C’è anche il bravissimo attore Bob Hoskins ma le cose che personalmente apprezzo di più in questo film sono le bellissime sequenze animate: davvero un’arte sopraffina, molto immaginifica e coinvolgente. E poi la musica… anche qui sono state incluse alcune canzoni che non avevano trovato spazio nell’album del 1979, ovvero What Shall We Do Now? e la versione lunga di Empty Spaces. Manca Hey You ma c’è una nuova composizione watersiana, When The Tigers Broke Free (pubblicata come singolo nell’aprile ’82), ci sono alcune riesecuzioni, come le nuove versioni di Mother, Bring The Boys Back Home e In The Flesh (quest’ultima gridata più che cantata da Bob Geldof), una In The Flesh? e una Stop! cantate ancora da Geldof, un breve interludio strumentale che anticipa Your Possible Pasts (completa nel prossimo album dei Pink Floyd, “The Final Cut“). Anche Outside The Wall, che accompagna i titoli di coda, è notevolmente diversa: oltre ad essere necessariamente più lunga, include anch’essa parti musicali che Roger Waters stava orchestrando con Michael Kamen e che vedranno la luce sul successivo “The Final Cut”.

Ora, questo legame tra “The Wall” e “The Final Cut” è molto stretto: inizialmente, Waters pensava di pubblicare gli scarti di “The Wall” (What Shall We Do Now?, Your Possible Pasts, The Hero’s Return, ma anche la nuova When The Tigers Broke Free) su un album dei Floyd chiamato “Spare Bricks”. Poi il nome cambiò in “The Final Cut”, tanto che quando uscì il singolo di When The Tigers Broke Free, sul retro copertina veniva chiaramente indicato questo titolo. Il nome alla fine restò quello ma il contenuto cambiò notevolmente: in quei giorni l’Inghilterra imperialista di Margaret Thatcher aveva dichiarato guerra all’Argentina di Leopoldo Gualtieri per quattro isolotti chiamati Falklands. Quest’inutile guerra suscitò la profonda indignazione di Roger Waters, tanto da spingerlo a scrivere del nuovo materiale e a far pubblicare il suo ultimo album con i Pink Floyd nell’aprile 1983… una commovente critica alla guerra dedicata al suo papà morto ad Anzio nel ’44. Ma questa è un’altra storia che sicuramente meriterà di essere raccontata in un altro post. – Matteo Aceto

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