Miles Davis, “Porgy And Bess”, 1958

Miles Davis Gil Evans Porgy And BessSe c’è un disco che ho ascoltato più assiduamente degli altri nelle ultime settimane, quello è senz’altro “Porgy And Bess” di Miles Davis. In effetti, pur avendo questo titolo nella mia collezione da ormai un decennio, non l’avevo mai ascoltato con così grande interesse. Un mio limite, sicuramente, ma è anche vero che la mia copia di questo illustre capolavoro fa parte in realtà d’un cofanetto del 1996, intitolato “The Complete Columbia Studio Recordings”, e riguardante le collaborazioni tra Miles Davis e Gil Evans. Il tutto in ben sei ciddì, con materiale originale inciso tra il 1957 e il 1968. Ecco, perso in oltre sei ore di musica, tra master take e versioni alternative dei molti brani così generosamente offerti, ho impiegato letteralmente anni per mettere il tutto nella giusta prospettiva.

Secondo d’una splendida trilogia di album usciti per la Columbia e realizzati – per l’appunto – assieme al fido Gil Evans, l’amico di una vita, oltre che uno dei principali nomi associati alla lunga carriera discografica di Miles Davis, “Porgy And Bess”, così come il precedente “Miles Ahead” (1957), è stato registrato a New York in sole quattro fruttuosissime sedute, nell’estate ’58. Una trilogia, come s’è detto, della quale fanno parte il già citato “Miles Ahead” e “Sketches Of Spain” (1960), i quali rappresentano tutti insieme sia uno dei picchi artistici di Miles Davis che uno dei suoi periodi discografici più amati. E anche fortunati dal punto di vista meramente commerciale.

Scritta da George Gershwin col fratello paroliere Ira Gershwin e con lo stesso DuBose Heyward, autore del romanzo originale, “Porgy And Bess” narra la storia di una comunità di afroamericani ambientata negli anni Trenta. Se l’originale è una vera e propria opera lirica, con tanto di tenori, soprani e libretto, la rivisitazione del duo Davis-Evans spicca come uno dei vertici del cosiddetto jazz orchestrale, dove alla tromba (e in certi casi al flicorno) solista di Miles fa da supporto un’intera sezione fiati comprendente altre trombe, tromboni, clarinetti, corni francesi, tuba e flauti. Non mancano tuttavia alcuni componenti della working band davisiana di quegli anni, ovvero Cannonball Adderley (alto sax), Paul Chambers (basso) e Jimmy Cobb (batteria, sebbene in alcuni pezzi gli sia stato preferito il più vigoroso Philly Joe Jones).

Per quanto riguarda i singoli brani di “Porgy And Bess”, dall’iniziale Buzzard Song, con quella sua qualità notturna che forse è anche un po’ la caratteristica di tutto l’album, si passa alla suadente Bess, You Is My Woman Now, per quindi imbattersi nel rutilante Gone, l’unico brano non presente nell’opera gershwiniana. Si tratta infatti d’un originale di Gil Evans che in qualche modo rielabora parte del tema del brano successivamente in programma. Ecco così la tenebrosa Gone, Gone, Gone, alla quale segue un autentico classico del jazz, quella Summertime per la quale Evans ha confezionato un grandioso arrangiamento che più sofisticato non si poteva. Segue a sua volta la contemplativa Oh Bess, Oh Where’s My Bess, e quindi la lirica Prayer (Oh Doctor Jesus), tesa e sospesa nella prima parte, placidamente epica nella seconda. E’ poi la volta della contemplativa, quasi pastorale direi, Fisherman, Strawberry And Devil Crab, dopo la quale sopraggiunge la dolente My Man’s Gone Now. Si procede con It Ain’t Necessarily So, il brano più squisitamente swing dell’album, con il breve passaggio lirico di Here Come De Honey Man, con l’intenso lirismo di I Loves You, Porgy e si conclude infine con la frizzante There’s A Boat That’s Leaving Soon For New York.

C’è soltanto una cosa che proprio non riesce a piacermi della “Porgy And Bess” davisiana: la copertina che, per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere annoverata QUI. Per il resto, siamo alle prese con un vero capolavoro che a distanza di sessant’anni dalla sua uscita non ha perso nulla della sua classe. – Matteo Aceto

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Miles Davis, “Kind Of Blue”, 1959

miles-davis-kind-of-blue-immagine-pubblicaOriginariamente pubblicato il 28 maggio 2009, questo post è più una goffa raccolta di considerazioni personali che una recensione vera e propria. Che poi, lasciatemelo dire: ma che cosa avrà da aggiungere un post su Immagine Pubblica, scritto da un emerito sconosciuto come il sottoscritto, a proposito di un’autentica pietra miliare della musica come “Kind Of Blue”, il classico fra i classici dell’immensa discografia di Miles Davis?

Su questo disco sono state scritte pagine e pagine dai più illustri critici musicali del mondo, se non dei veri e propri libri, come quello di Ashley Khan, uno di quei libroni sul jazz che prima o poi – continuo a ripetermi ormai da troppo tempo – dovrò comprare e quindi leggere & rileggere. Un disco, questo “Kind Of Blue”, che è stato ristampato innumerevoli volte negli ultimi cinquantotto anni (compreso un bel cofanettone, nel 2008, con tanto di vinile, ciddì & divuddì… ovviamente presente nella mia collezione) e che si può trovare praticamente dappertutto, non solo nei negozi di dischi, ma anche nei centri commerciali e nelle edicole, passando per le stazioni di servizio in autostrada.

Per questo e per tanti altri motivi, mi limiterò – ora come in quel post del 2009 – a delle semplici considerazioni sull’album originale del ’59, un vero disco coi controcazzi, come direbbe lo stesso Miles Davis in quel linguaggio colorito che gli era tanto caro, suonato da un gruppo coi controcazzi: i sassofonisti John Coltrane e Cannonball Adderley, i pianisti Bill Evans e Wynton Kelly, il bassista Paul Chambers e il batterista Jimmy Cobb. E poi in “Kind Of Blue” c’è ovviamente Miles, con la sua magica tromba ma anche con tutto il suo carisma di bandleader, qui alle prese con la massima espressione del jazz modale, vale a dire un tipo di jazz acustico (l’elettrico sarebbe arrivato per Davis solo sul finire degli anni Sessanta) che, in base a semplici schemi predefiniti sulla carta, lasciava grande spazio alla libera espressione e all’improvvisazione dei musicisti.

In effetti i cinque brani di “Kind Of Blue” – l’esaltante So What (contenente quella che forse resta l’introduzione più bella di sempre in un album jazz), il brioso Freddie Freeloader, il romantico Blue In Green, l’africaneggiante All Blues e il suggestivo Flamenco Sketches – mettono meravigliosamente in luce la sensibilità artistica & la bravura tecnica d’ogni singolo musicista, in un equilibrio di gruppo che definirei pressoché perfetto. E’ un miracolo questo “Kind Of Blue”, e concordo pienamente con chi disse e/o scrisse che dev’essere stato fatto in paradiso.

Registrato negli studi newyorkesi della Columbia in sole due sessioni fra il marzo & l’aprile 1959 e prodotto da Irving Townsend, “Kind Of Blue” è un’autentica pietra miliare non solo del jazz ma soprattutto della musica in generale. Per Miles Davis fu una sorta di fatidico spartiacque: la musica che incise prima di “Kind Of Blue” fu una cosa, la musica che incise dopo fu tutt’altro. Anche la mia esperienza di ascoltatore può essere riassunta in un prima e un dopo “Kind Of Blue”, lo credereste?

-Matteo Aceto

Cannonball Adderley, “Somethin’ Else”, 1958

cannonball-adderley-somethin-else-miles-davisE’ da un paio d’autunni che continuo a rimandare un post dedicato a “Somethin’ Else”, probabilmente l’album più famoso di Cannonball Adderley. Autunni perché questo disco così delizioso comincia proprio con Autumn Leaves, che in effetti adoro associare alla stagione autunnale.
“Somethin’ Else” è un album di Cannonball Adderley s’è detto poco fa; in realtà si tratta d’un lavoro che il celebre altosassofonista ha realizzato col preziosissimo supporto d’un altro celebre collega, il trombettista Miles Davis, ovvero uno dei miei artisti preferiti. Ma “Somethin’ Else” non sarebbe quello che è se all’epoca delle registrazioni, datate 9 marzo 1958, non v’avessero preso parte altri leggendari jazzmen: il pianista Hank Jones, il batterista Art Blakey, il bassista Sam Jones e il produttore Alfred Lion, fondatore della Blue Note, la prestigiosa etichetta per la quale uscì “Somethin’ Else”.

Insomma, come tutti i capolavori della musica contemporanea, pure “Somethin’ Else” è il frutto pressoché perfetto d’un’unione di personaggi dallo spiccato talento individuale che, messi assieme, realizzano un disco sopraffino, godibilissimo anche oggi, dopo oltre mezzo secolo dalla sua prima edizione. Del resto, si sa, i classici non hanno tempo, ignorano le mode, e questo “Somethin’ Else” è davvero qualcos’altro.

Cinque i brani presenti sul disco (tre standard e due composizioni originali), più un brano aggiunto nelle recenti ristampe del quale parleremo poi. Ora passiamo ad una piccola analisi track-by-track di “Somethin’ Else”, chiarendo fin da subito che sarà molto gradìta ogni vostra utile aggiunta tra i commenti.

Autumn Leaves
Ecco, a me basterebbero anche soltanto gli 11 minuti di Autumn Leaves per giustificare la presenza di “Somethin’ Else” nella mia collezione di dischi. Originariamente scritto da Joseph Kosma e diventato col tempo uno standard del jazz, il brano è qui reinterpretato in modo semplicemente e irresistibilmente grandioso. Al baldanzoso incedere iniziale del piano di Hank – sorretto dal basso di Sam e dalla batteria di Art – si sovrappongono all’unisono gli strumenti di Cannonball e Miles, finché dopo 52 secondi il solo Miles – con la sua caratteristica tromba sordinata – introduce il tema portante, così piacevolmente malinconico, scandito dallo swingare in tempo medio del trio Jones/Jones/Blakey. In seguito si ascolteranno prima un assolo dello stesso Adderley e poi un continuo alternarsi di assoli tra Davis e Hank Jones, i quali procederanno così fino alla lunga chiusura del brano (a partire da 8’57”, grazie a un passaggio bellissimo) che riprende – anche se più sommessamente – il baldanzoso tema iniziale. Insomma, nell’economia complessiva di questa versione di Autumn Leaves, il brano è certamente più una creazione di Miles Davis (con uno straordinario Hank Jones) che di Cannonball Adderley, ma all’epoca il nostro altosassofinista era ancora poco esperto nella conduzione d’un gruppo jazz, e del resto faceva ancora parte del gruppo dello stesso Miles. Per cui fu ben felice, credo, di lasciarsi guidare dal suo leader in un album che contribuì una volta per tutte a solidificare il nome di Julian “Cannonball” Adderley tra gli appassionati di musica. Ad ogni modo, questa Autumn Leaves è davvero splendida, senza dubbio fra le cose migliori che io abbia mai sentito.

Love For Sale
Scritta da quel genio di Cole Porter e interpretata negli anni da molti altri artisti (tra i quali segnalo Aretha Franklin con una versione superba), Love For Sale può essere tranquillamente inserita in qualsiasi “best of” di Miles Davis, anche se, come sappiamo, questa versione è accreditata all’Adderley solista. In effetti il carismatico trombettista tornò di lì a poco in studio – precisamente il 26 maggio – col suo gruppo (con tanto di Cannonball nei ranghi) per una “sua” versione, che però restò inedita fino al 1975. La versione di “Somethin’ Else” resta però superiore, francamente indimenticabile: dalla lenta ma elegante introduzione di piano, il brano si vivacizza con un alternarsi di assoli – nell’ordine – di tromba, di alto sax, di tromba, di piano (breve) e infine di tromba finché il tutto sfuma.

Somethin’ Else
Il brano che dà il titolo all’album, scritto proprio da Miles Davis, è uno swing vivace e piacevolmente sostenuto, che inizia con un irresistibile botta e risposta tra gli strumenti di Miles e di Cannonball. Seguiranno gli assoli veri e propri – prima Davis e poi Adderley – e quindi uno ad opera di Hank Jones; quest’ultimo, però, viene anticipato e infine seguìto da altri gioiosi scambi di fraseggi del duo Miles/Cannonball. Il tutto in 8 minuti di durata che scorrono via che è una bellezza.

One For Daddy-O
Secondo e ultimo brano originale in programma, One For Daddy-O è stato invece scritto dal fratello di Cannonball, quel Nat Adderley che spesso e volentieri legò la sua vicenda artistica con quella dell’illustre consanguineo. Dal passo felpato e sicuro di sé, One For Daddy-O è un brano che trovo sempre piuttosto sfuggevole: sì, insomma, riesce a fregarmi, a partire da quell’irriverente scambio tra sezione fiati e piano che si ascolta all’inizio (per poi riproporsi alla fine). Il primo assolo è stavolta affidato proprio a Cannoball, seguìto dal reciproco alternarsi di due assoli a testa per Miles e Hank. Alla fine del brano si ascolta distintamente la voce di Miles che, rivolgendosi al produttore, gli chiede: “era questo quello che volevi, Alfred?”. Ad ogni modo, One For Daddy-O ci regala altri 8 minuti di letizia sonora.

Dancing In The Dark
Scritta dal duo Schwartz/Deitz, questa memorabile ballata ha l’onore di chiudere un album altrettando memorabile. Unica esecuzione in programma a non figurare Miles Davis, la romantica Dancing In The Dark è una vetrina melodica per il sax alto di Cannonball, sorretto dalla puntuale eleganza del trio Jones/Jones/Blakey.

Bangoon
Gioioso e movimentato, noto anche come Alison’s Uncle, questo brano è stato aggiunto come bonus nelle recenti riedizioni remaster di “Somethin’ Else”. Scritto da Hank Jones e registrato nella stessa seduta del 9 marzo 1958, Bangoon non venne però inserito nell’edizione originale di “Somethin’ Else” e restò in archivio per oltre ventanni. Il suo ascolto è comunque interessante perché, oltre ai “consueti” assoli di Miles, Cannoball e Hank, troviamo una grande prova solistica di Art Blakey, la cui batteria si rende sempre più protagonista a partire da 3’50”.

Volendo chiudere un post che forse s’è dilungato pure troppo, aggiungo un ultimo commento personale: “Somethin’ Else”, album registrato al celebre studio allestito da Rudy Van Gelder a Hackensack, alle porte di New York, è un capolavoro che non mi stanco mai d’ascoltare, perfetto sia con lo stereo di casa che in auto. Ah, davvero ultimissima considerazione: in tutto il disco, il pianista Hank Jones esegue in maniera eccellente la sua funzione, ovvero quella di fare da cuscinetto tra sezione fiati e sezione ritmica. Un gigante, il buon Hank. – Matteo Aceto