Il “Black Album” non è solo il disco più controverso e misterioso presente nella sterminata discografia di Prince, ma anche uno dei più solidi e affascinanti. Il folletto di Minneapolis, dopo aver dato alle stampe il celebrato “Sign ‘O’ The Times” nella primavera del 1987, progettò la pubblicazione d’un nuovo album per il mercato natalizio, un disco tutto nero, senza note scritte, crediti o testi, per il quale non sarebbero stati né estratti singoli e né realizzati videoclip. Un album dove Prince avrebbe dovuto esprimere al meglio tutta la ‘blackness’ della sua musica, in modo da rispondere alle critiche del tempo (non tutte infondate) che lo ritraevano fin troppo ammiccante ai gusti del grande pubblico bianco, quello che aveva comprato in massa un album come “Purple Rain” (1984), certamente magnifico ma non troppo rappresentativo dello stile di Prince.
Il nostro concepì quindi il “Black Album”, registrando otto brani, un paio dei quali scartati da altri progetti irrealizzati. Tuttavia, poco prima di distribuirlo, Prince (o la Warner Bros, questo non è chiaro), decise di farne ritirare le copie già stampate e pronte per essere immesse sul mercato. Un certo quantitativo di copie pirata riuscì comunque a farla franca ed entro la fine degli anni Ottanta non c’era un solo vero fan di Prince che non possedesse la sua bella copia del “Black Album”. In seguito, Prince continuò a rinnegare quel suo disco misterioso ma nel novembre 1994, anche per questioni contrattuali, la Warner decise di stampare ufficialmente il “Black Album”, sebbene in edizione limitata.
La prima volta che ho sentito il disco, dopo averlo gioiosamente acquistato nell’estate ’95, ho avuto subito la netta impressione di avere a che fare con uno dei migliori lavori di Prince. In effetti si tratta d’un disco molto funky, molto black (se vogliamo usare il termine più appropriato), sul quale aleggia un certo senso d’inquietudine, con un Prince in splendida forma in ognuna delle otto canzoni contenute.
Le Grind è così un lungo brano danzereccio, molto godibile e adattissimo per far festa in un club; senza dubbio Prince s’è divertito molto a registrarlo, giocando con le voci, i cori e il ritmo che rallenta o s’intensifica in vari punti; è sempre stato fra i miei pezzi preferiti di questo disco e mi sono sempre meravigliato di come – se fosse dipeso da Prince – Le Grind sarebbe ancora oggi chiuso in un archivio.
Della stessa vena è la seguente Cindy C., sempre danzereccia e molto coinvolgente ma dal ritmo ancora più sostenuto, dove il nostro si esprime perlopiù col suo caratteristico falsetto; il finale è invece affidato al tirato rap di una delle innumerevoli collaboratrici di Prince (pare, infine, che la Cindy in questione sia la modella Cindy Crawford, ma qui scadiamo nel cronacarosismo).
Dead On It è invece un duro rap, impreziosito da diverse voci di Prince più o meno sovrapposte, con una secca drum-machine sullo sfondo; a differenza dei due brani precedenti, questo suona decisamente come un’esecuzione del solo Prince e presenta tutt’altra atmosfera, ben più cupa.
La successiva When 2 R In Love è l’unica ballata del disco, la quale, a fronte d’un testo piuttosto esplicito sessualmente, offre una delle melodie più belle mai proposte da Prince. Se non altro, When 2 R In Love venne ripescata e inclusa così com’era nell’album successivo, “Lovesexy” (1988), per cui non restò inedita per anni ai fan princiani.
Con Bob George, probabilmente il brano più sconvolgente del “Black Album”, abbiamo un pezzo gangsta-rap duro & puro: il canto del nostro è distorto dopo aver rallentato la velocità del nastro di registrazione, mentre un’implacabile drum-machine in stile Sign ‘O’ The Times scandisce il tempo; sullo sfondo sirene della polizia, sparatorie e vocìo metropolitano; bella comunque tutta la parte di chitarra, eseguita dallo stesso Prince. Ancora oggi Bob George suona come uno degli episodi più interessanti e accattivanti del canzoniere princiano.
La successiva Superfunkycalifragisexy torna a velocizzare il ritmo: è un lungo brano funky, ma piuttosto tenebroso e non festaiolo come i primi due che aprono l’album. Per certe sonorità notturne e per l’uso di campionamenti orchestrali, Superfunkycalifragisexy anticipa le sonorità di “Batman” (1989) e si pone come uno dei numeri funk più concreti ad opera del nostro.
2 Nigs United 4 West Compton, che coi suoi sette minuti e passa è il brano più lungo del disco, è invece un’improvvisazione strumentale (a parte il sordido vocìo nei primi trentotto secondi), dove Prince si diletta a suonare un po’ tutto quello che trova (potrei sbagliarmi ma mi pare che la mano sia la sua per tutti gli strumenti): tastiere, percussioni, drum-machine, basso e l’inevitabile chitarra. Forse alla lunga risulta un po’ ripetitiva ma 2 Nigs è un’ulteriore testimonianza della straordinaria versatilità di questo musicista.
La conclusiva Rockhard In A Funky Place – che è molto più funk di quanto il titolo suggerisca – sembra più l’opera d’un gruppo vero e proprio che suona in un caldo & fumoso club, con la voce di Prince accelerata su nastro (l’operazione inversa alla Bob George che abbiamo visto poco fa). Rockhard In A Funky Place fu ‘sfortunata’ due volte perché originariamente era uno degli otto brani che avrebbero dovuto formare l’album “Camille”, anch’esso ritirato all’ultimo minuto in quel cruciale 1987.
Insomma, concludendo, “The Black Album” non è certamente un disco con chissà quali effetti speciali ma si tratta comunque di una delle opere più riuscite e divertenti di Prince, un lavoro che non può mancare nella collezione di ogni ammiratore dell’intramontabile folletto di Minneapolis. E’ un disco che mi sento di consigliare anche a qualsiasi amante della black music, persino la più estrema: provate il “Black Album” ad alto volume con lo stereo, non vi lascerà indifferenti.