The Cure, “Disintegration”, 1989

Ero convinto d’aver già scritto un post su “Disintegration”, il disco capolavoro dei Cure originariamente pubblicato nel 1989, ma non lo trovo né tra gli articoli di questo modesto blog e né tra le bozze inedite. Eppure sono sicuro di aver scritto qualcosa in proposito, qualcosa che forse è rimasto in qualche bozza che infine ho cancellato, magari anche inavvertitamente. Ad ogni modo, visto che ormai sono qui e considerato che in questi giorni sto riascoltando “Disintegration” piuttosto ossessivamente, sia a casa (quando i bimbi me lo permettono) e sia quando sono in macchina per andare al/tornare dal lavoro, mi sento sufficientemente pronto per stendere qualche appunto su quello che resta, per quanto mi riguarda, l’unico disco dei Cure che ancora ascolto con sommo piacere dall’inizio alla fine.

Sì, è vero, in un mio vecchio post avevo argomentato che il disco capolavoro dei Cure fosse “Bloodflowers” ma mi son dovuto ricredere. Ci ho messo davvero anni per apprezzare “Disintegration” e ormai posso dirlo: è quest’ultimo il vero capolavoro dei Cure, e in ciò credo d’essermi allineato con l’opinione comune della maggior parte degli ammiratori della band inglese. Del resto un disco come “Bloodflowers”, che comunque per me resta grandissimo, è pur sempre figlio di questo “Disintegration”; ne ha lo stesso concetto di fondo, ecco: canzoni lunghe, distese, con corpose introduzioni strumentali, con testi che affrontano con un certo smarrimento il passare del tempo e dove l’amore, forse, è l’unica cosa che resta davvero. Autentici romantici, i Cure.

E se “Bloodflowers” venne pubblicato nudo e crudo così com’era, ovvero senza video o singoli promozionali, da “Disintegration” la Fiction Records pensò bene di estrarre ben quattro singoli – la sognante Pictures Of You, la romantica Lovesong, la rockeggiante Fascination Street e la tetra ma sensuale Lullaby, probabilmente il pezzo più celebre dei Cure – con i relativi videoclip e sui rispettivi lati B quattro pezzi che non facevano parte della scaletta originale dell’album.

Scaletta che appunto è composta da dieci canzoni, dalla magniloquente Plainsong alla trascinante Disintegration, ma che nella versione in ciddì ne figura due ulteriori in appendice (la sconsolata Homesick e la cantilenante Untitled) che forse estendono un po’ troppo il “discorso”. La cosa, ovviamente, non influisce sul risultato finale, che resta quello d’un ascolto sempre emotivamente molto coinvolgente. Insomma, sono passati oltre trent’anni e di “Disintegration” non siamo ancora riusciti a fare a meno. O almeno io non ci sono riuscito affatto, e credo che mai ci riuscirò. – Matteo Aceto

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Record Store Day 2018: le succose novità

David Sylvian, Dead Bees On A Cake, RSD 2018Le case discografiche hanno cominciato a diffondere le prime immagini e le informazioni relative alle uscite previste in occasione del Record Store Day 2018, che si terrà in tutti i negozi di dischi del mondo il prossimo 21 aprile. Se negli ultimi anni non avevo avuto modo d’andarci, l’anno scorso ci sono stato eccome, in entrambi i negozi di dischi della mia città, Pescara, trovando dei titoli che pur non essendo essenziali non mi hanno fatto dubitare sulla necessità di acquistarli (vuoi per il formato, vuoi per la grafica, vuoi ancora per una bella confezione).

Quest’anno, da quel che ho visto & letto finora, l’edizione che più m’interessa – la sola che vorrei acquistare davvero – è la riedizione di “Dead Bees On A Cake” (nella foto), l’album di David Sylvian datato 1999. Ristampato in doppio vinile bianco, con una nuova copertina, con tutte le foto di Anton Corbijn e soprattutto con quattro brani in più (quelli che, pur incisi durante la lavorazione dell’album, sono invece stati inclusi nella successiva raccolta del 2000, “Everything And Nothing”), l’album “Dead Bees On A Cake” viene finalmente presentato – per dirla con le parole dello stesso Sylvian – “come il doppio album che avevo sempre inteso di proporre, prima che l’etichetta perdesse la pazienza aspettandone l’arrivo”.

“Dead Bees On A Cake”, infatti, rappresentava un grande ritorno dopo anni di collaborazioni e dischi sperimentali. Di fatto, “Dead Bees”, uscito come ricordato nel 1999, fu il primo vero album di David Sylvian dai tempi di “Secrets Of The Beehive“. Sarà quindi l’occasione per godere ancora una volta e ancora di più (grazie all’inserimento di altri quattro splendidi brani, tra cui The Scent Of Magnolia e Cover Me With Flowers) di un album che a mio modesto avviso è stato un tantino sottovalutato. Gran disco, a parte tutto, mi piacerebbe dedicargli un post ad hoc, magari proprio a partire da questa ristampa, se mai riuscirò a portarmene a casa una copia.

Per quanto riguarda gli altri titoli riservati ad altri artisti, quelli che mi hanno fatto drizzare di più le orecchie sono i seguenti, tutti in vinile, e tutti in rigoroso ordine alfabetico.

Ac/Dc – “Back In Black”: il primo album della celeberrima band australiana con Brian Johnson alla voce, probabilmente il loro disco più famoso, ristampato addirittura in cassetta per questo RSD 2018.

Big Audio Dynamite II – “On The Road Live ’92”: un EP di soli cinque pezzi – tutti dal vivo, e mai prima d’ora stampati in vinile – in formato dodici pollici per la seconda reincarnazione del gruppo post-Clash di Mick Jones.

David Bowie – In questo caso abbiamo tre interessanti proposte. Partiamo in ordine cronologico, con la ristampa dell’album eponimo del 1967, “David Bowie” per l’appunto: edizione doppia in elleppì, contenente la versione mono (in vinile rosso) e la versione stereo (in vinile blu) dello stesso album. La seconda proposta, sempre su vinile, è un dodici pollici da 45 giri contenente la versione demo di Let’s Dance del dicembre 1982, pubblicata nella sua lunghezza integrale (sul lato B del singolo troviamo invece una versione live dell’epoca della stessa Let’s Dance). Infine, il nome di Bowie è legato a un triplo vinile, “Welcome To The Blackout”, contenente un inedito concerto londinese del 1978.

Johnny Cash – “At Folsom Prison: Legacy Edition”: forse il disco più famoso di Cash e senz’altro uno degli album live più acclamati di tutti i tempi, qui proposto in un lussuoso box da ben cinque vinili, contenente per la prima volta entrambi i concerti integrali che Cash e la sua band tennero nel carcere di Folsom in quel lontano 1968. Secondo me il tutto costerà un botto ma con ogni probabilità saranno soldi ben spesi. Ci sto facendo un pensierino.

John Coltrane – “My Favorite Things, Part I & II”: soltanto mille copie per questo singolo contenente entrambi i single edit di My Favourite Things, brano portante dell’omonimo e storico album uscito per la Atlantic nel 1961.

The Cure – Due uscite per la band di Robert Smith, decisamente peculiari: “Torn Down” è un doppio elleppì (entrambi in picture disc) contenente sedici nuovi remix curati dallo stesso Smith, mentre “Mixed Up”, anch’esso in doppio picture disc, è la riproposizione dell’album di remix dei Cure uscito nel 1990.

Miles Davis – “Rubberband EP”: quando ho letto “Rubberband” sono saltato sulla sedia! Quello, infatti, è il titolo dell’album inedito che Miles registrò nel 1985 come primo disco da far distribuire alla sua nuova etichetta, la Warner Bros. Poi s’imbatté nei demo di Marcus Miller e ricominciò daccapo con un nuovo progetto, che quindi divenne il celebre “Tutu”. In questo caso siamo però alle prese con un EP di soli quattro brani, e per giunta non tutti originali: c’è infatti qualche remix attuale, accanto al materiale inciso all’epoca da Miles e i suoi collaboratori del periodo. Sono tentato dall’acquisto ma anche fortemente dubbioso. Spero che questo EP sia invece l’anticipazione di qualcosa di più consistente che la Warner potrebbe distribuire in autunno.

Bob Dylan & The Grateful Dead – “Dylan & The Dead”: originariamente uscito nel 1989, questo live nel quale Bob Dylan era accompagnato dai Grateful Dead viene riproposto in un vinile dalle facciate diversamente colorate (quella A è rossa, quella B è blu). Un po’ troppo poco, forse? I soli Grateful Dead, ad ogni modo, potrebbero consolare i fan con un ben più corposo cofanetto da quattro vinili contenente un loro concerto al Fillmore West di San Francisco del 1969.

Fleetwood Mac – “The Alternate Tango In The Night”: se l’anno scorso è stato stampato un acclamato box da ben cinque dischi dedicato al trentennale di “Tango In The Night”, in occasione del RSD 2018 la sola versione alternativa dell’album (ovvero con mix diversi tratti dalle varie sedute d’incisione) viene qui estrapolata per un’edizione nel più tradizionale elleppì nero, il tutto disponibile in sole 8500 copie.

Marvin Gaye – Due uscite anche nel caso di questo leggendario soul singer, ovvero “Let’s Get It On” – uno dei suoi dischi più belli, datato 1973, del quale vorrei presto parlare in un post ad hoc – in vinile rosso da 180 grammi di peso, e quindi “Sexual Healing: The Remixes”, ovvero un altro vinile rosso contente sette versioni – vecchie e nuove – della classica Sexual Healing, il formidabile hit single del 1982.

Van Morrison – “The Alternative Moondance”: ovvero il classico album “Moondance” del 1970 qui ricreato a partire dalle versioni alternative / demo / provini tratti dalle sedute d’incisione originali (come nel caso di “Tango In The Night” dei Fleetwood Mac che abbiamo visto sopra, insomma).

Pink Floyd – “The Piper At The Gates Of Dawn”: edizione in vinile, e mono, per il primo album della storica band inglese, quando ancora era dominato dalla figura e dall’estro di Syd Barrett. In questo caso si tratta, stando al comunicato stampa ufficiale, di “a new mono 2018 remaster by James Guthrie, Joel Plante and Bernie Grundman. Remastered from the original 1967 mono mix”. Anche la grafica promette bene, con una sovracopertina tutta nuova.

Prince – “1999”: questa, vi dirò, non l’ho capita. Si tratta di una riduzione a soli sette brani dell’originale doppio album che il folletto di Minneapolis diede alle stampe nel 1982. C’è una nuova grafica ma mi sembra pochino… perché non distribuire di nuovo l’album nel suo glorioso doppio formato, magari con l’aggiunta dei B-side o versioni alternative?

Rolling Stones – “Their Satanic Majesties Request”: la risposta degli Stones, a quanto pare non troppo riuscita, al “Sgt. Pepper” beatlesiano. Qui siamo in presenza d’un vinile colorato ma trasparente, con tanto d’immagine lenticolare in copertina. Potrà bastare?

Bruce Springsteen – “Greatest Hits”: ovvero la riedizione in due vinili della prima raccolta antologica del Boss, edita per la prima volta nel 1995. Si tratta d’una gran bella antologia, stavolta riproposta in vinili rossi per un’edizione limitata & numerata. Anche qui, c’è il pensierino (e la minaccia al portafogli).

Neil Young – “Roxy: Tonight’s The Night Live”: due vinili contenenti un concerto losangelino inedito del 1973, quando l’album “Tonight’s The Night” doveva ancora uscire.

Questo è quanto, per ora, ma sono più che sicuro che da qui al prossimo 21 aprile ne sentiremo ancora delle belle. Magari ci sarà l’occasione per dare un seguito a questo post. – Matteo Aceto

Gusti musicali geograficamente parlando

ivan-graziani-rock-e-ballate-per-quattro-stagioniPer molti anni, diciamo pure tra il 1988 e il 2008, ho comprato e quindi ascoltato prevalentemente musica inglese. Gruppi da me amatissimi come Beatles, Queen, Police, Pink Floyd, Genesis, Bee Gees, Clash, Depeche Mode e Cure in primis (con tutti i relativi solisti del caso, come ad esempio Paul McCartney, Sting, Phil Collins, eccetera), ma anche Bauhaus, Japan, Cult, New Order (e quindi Joy Division), Tears For Fears, Pet Shop Boys, Smiths, Verve e tutti o quasi i relativi solisti (Peter Murphy, David Sylvian, Richard Achcroft e via dicendo). Per noi parlare poi di David Bowie. Discorsetto bello lungo, insomma.

Tra il 2007 e il 2008, invece, sono stato colto dalla febbre per Miles Davis, statunitense. E quindi via con tutti i suoi dischi (o meglio, con tutti i suoi cofanetti deluxe della Sony), ai quali, di lì a poco, si sono aggiungi nella mia collezione tutti i dischi di John Coltrane, altro illustre statunitense. Allargando un po’ i miei confini, ho iniziato a comprare dischi jazz di musicisti e band d’America, come ad esempio i Weather Report, Wayne Shorter, Herbie Hancock, Chick Corea, tutti nomi che sono andati ad aggiungersi ai vari Michael Jackson, Prince e Stevie Wonder che già avevo in vinili, ciddì e cassette.

E se la black music afroamericana in fondo in fondo m’è sempre piaciuta, in anni più recenti ho avuto modo di apprezzare sempre di più i dischi di Isaac Hayes e soprattutto di Marvin Gaye. Tutta roba americana, ovviamente. Ai quali si sono aggiunti presto i dischi di Simon & Garfunkel (li ho comprati tutti!), del solo Paul Simon (ne ho comprati quattro o cinque), di Bruce Springsteen e soprattutto di Bob Dylan.

Insomma, se la Gran Bretagna la faceva da padrona per quanto riguarda la provenienza artistica dei dischi presenti in casa mia, credo proprio che ormai la fetta sia equamente divisa tra Stati Uniti e Gran Bretagna, e forse i primi sono anche in leggero vantaggio. In questa sorta di duopolio ho però registrato un curioso fatto privato: non so perché e non so per come, ma una mattina mi sono svegliato con la voglia di ascoltarmi i dischi di Lucio Battisti! Dopo qualche acquisto casuale, tanto per scoprire l’artista, ho deciso di fare il grande passo: acquistare l’opera omnia contenente TUTTI  i suoi dischi. L’anno scorso, spinto dalla curiosità, sono invece andato a comprarmi a scatola chiusa un cofanetto da tre ciddì + divuddì di Lucio Dalla, chiamato per l’appunto “Trilogia”. Io che ascolto e che soprattutto compro Lucio Dalla?! Un paio d’anni prima non l’avrei mai detto ed ora eccomi qui, a canticchiare Come è profondo il mare o L’anno che verrà oppure ancora Come sarà con tanto di Francesco De Gregori a dividere il microfono.

De Gregori che pure ha iniziato a incuriosirmi, nonostante un’antipatia per il personaggio che nutro da sempre. Ieri pomeriggio, e qui sto svelando un aspetto davvero inquietante della mia vita privata, avevo preso una copia di “Rimmel” e mi stavo già dirigendo alla cassa. Ho quindi adocchiato una raccolta tripla, fresca d’uscita, di Ivan Graziani e chiamata “Rock e Ballate per Quattro Stagioni“, edita dalla Sony in occasione del ventennale della morte del compianto cantante e chitarrista (nella foto sopra). Ebbene, ho preso una copia di quest’ultima con buona pace del classico di De Gregori.

E così, in conclusione, se una volta i miei ascolti erano concentrati quasi unicamente sulla Gran Bretagna, da un po’ di tempo sono felicemente passato all’America. E ciò nonostante rivolgo più d’un pensiero all’Italia, chissà perché. Ho iniziato anche ad apprezzare e comprare Vasco Rossi. Si attendono ora clamorosi sviluppi. – Matteo Aceto

The Cure, “The Head On The Door”, 1985

the-cure-the-head-onthe-door-1985Pubblicato nel 1985, “The Head On The Door” è il primo disco dei Cure che ho avuto modo d’ascoltare, verso la fine degli anni Novanta, quando iniziavo a interessarmi non solo a questa band inglese ma anche a tutta quella scena musicale britannica che, partita dall’esplosione punk del 1977, ha poi virato verso territori più dark se non proprio gotici. In quegli ultimi anni del Ventesimo secolo, infatti, scoprivo i Joy Division e i loro naturali successori, i New Order, ma anche i vari StranglersBauhaus, Siouxsie And The Banshees, The DamnedSisters Of Mercy e The Mission, toccando quindi le coste australiane con band quali The Church e Nick Cave & The Bad Seeds.

Non tutti mi sono piaciuti, o non tutti ho continuato ad ascoltare in seguito, ma alcuni di loro, quali appunto i Cure, mi sono rimasti nel cuore. Così come ci è rimasto questo “The Head On The Door”, uno dei loro lavori più accessibili e pop, quello che mi ha fatto innamorare di tutta una scena musicale e che ha dato avvio alla mia passione per l’universo sonoro di Robert Smith, autore, cantante, chitarrista, produttore e inconfondibile immagine pubblica dei Cure, una band ormai storica, che calca le scene dai tardi anni Settanta e che ancora oggi riempie gli stadi di tutto il mondo. Li ho visti una volta, a Roma nel 2002, in un concerto all’Olimpico tra i più belli (tutte le hit storiche e i brani più amati dai fan) e generosi (3 ore di durata) ai quali io abbia mai assistito.

Avevo già pubblicato qualcosa su “The Head On The Door” nelle precedenti incarnazioni di questo blog, esattamente il 20 aprile del 2007 e il 1° febbraio del 2008. Per chi non conosce il contenuto dell’album e vuol saperne qualcosa di più, ripeto brevemente quanto scritto allora. Si parte col travolgente pop rock di In Between Days, appena 3 minuti di chitarre rotolanti e squillanti che sfidano chiunque a restare immobili, si continua con quello che resta uno dei miei pezzi preferiti dei Cure, Kyoto Song, forte d’un arrangiamento tanto gotico quanto maestoso, e quindi con The Blood, un coinvolgente brano pop rock che infonde un veloce arrangiamento in stile flamenco alle venature più dark tipiche dei Cure, con Six Different Ways, brano più pop che sembra uscito dalle sessioni dell’album precedente, “The Top” (1984), e quindi con Push, altro brano travolgente, coi primi 2 minuti tiratissimi e praticamente strumentali, e forte di una delle migliori prove vocali mai offerte da Smith.

La successiva The Baby Screams ricorda un po’ i New Order (e la cosa non è infrequente nella produzione artistica dei Cure di quel periodo) anche se, una volta che Smith inizia a cantare, si è inconfondibilmente in presenza d’una canzone dei Cure. A seguire c’è Close To Me, uno dei loro pezzi più famosi, riproposto nel 1990 in un remix (con tanto di divertente videoclip che riprendeva l’originale del 1985 nel punto in cui finiva) che ha ridato nuova popolarità sia alla canzone che alla band stessa. A entrambe le versioni, tuttavia, ho sempre preferito la successiva – nella scaletta di “The Head On The Door” – A Night Like This, arricchita da un insolito assolo di sax: dopo 30 anni continua a restare un brano di grande atmosfera, epico e intenso, perfettamente bilanciato fra quelle sonorità irresistibilmente pop e quella sensibilità peculiarmente dark che hanno reso celebri i Cure.

Viene quindi il turno di Screw, breve funky dall’andamento saltellante e robotico che sembra più che altro introdurre il brano finale, Sinking, secondo me il migliore del disco. Con quel ritmo medio-lento che sembra andare alla deriva, le tastiere eteree, il basso pulsante e la voce più unica che rara di Smith, Sinking è una delle canzoni più memorabili dei nostri, quella che segna lo stile maturo dei Cure, uno stile che verrà sviluppato ulteriormente in tutti gli altri dischi della band, da “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” del 1987 in poi, trovando compimento definitivo con l’album “Bloodflowers”, quindici anni dopo “The Head On The Door”.

Anche “The Head On The Door”, infine, è stato ripubblicato in edizione deluxe con disco bonus contenente inediti e rarità del periodo. Tra il 2006 e il 2010, infatti, Robert Smith ha curato di persona le ristampe di tutti gli album dei Cure usciti nel primo decennio d’attività della band, cioè tutti i dischi compresi tra “Three Imaginary Boys” (1979) e “Disintegration” (1989), passando anche per “Blue Sunshine” (1983), frutto di quell’estemporanea ma riuscita collaborazione tra Smith e Steven Severin dei Siouxsie And The Banshees chiamata The Glove. Magari di tutto questo avremo modo di parlare in un prossimo post. – Matteo Aceto

Ristampe, ristampe, ristampe!!!

Michael Jackson Off The Wall immagine pubblicaDa una decina d’anni a questa parte, s’è definitivamente consolidata fra le case discografiche – major o meno che siano – l’abitudine di ristampare il vecchio catalogo in riedizioni più o meno meritevoli di tornare a far capolino nelle vetrine dei negozi accanto alle ultime novità.

Spesso si festeggiano i ventennali, i venticinquennali, i trentennali o addirittura il mezzo secolo di dischi famosi, riproposti in appariscenti confezioni, con tanto di note biografiche e foto d’epoca, meglio ancora se con inediti e/o rarità (che poi, almeno per me, sono le uniche motivazioni nel comprarmi una riedizione d’un disco che magari già posseggo), a volte addirittura in formato cofanetto.

E’ notizia di oggi che entro l’anno verrà ristampato “Off The Wall”, uno dei classici di Michael Jackson, edito appunto trentanni fa. In base a un accordo fra la Sony, la EMI (che non ho capito che c’entra…), gli esecutori testamentari & gli eredi del grande cantante, da qui a dieci anni dovremmo avere altre ristampe (di sicuro “Bad”, probabilmente pure “Dangerous” e tutti gli altri) e altri dischi con brani inediti. Inediti che dovrebbero comunque figurare anche nella ristampa di “Off The Wall”, fra l’altro ripubblicato già nel 2001, così come gli stessi “Bad” e “Dangerous”.

C’è da dire che le ristampe, a volte, sembrano solo una scusa per propinarci un disco del passato alla cifra non proprio popolare dei diciotto/diciannove euro: penso alla riedizione di “Dark Side Of The Moon”, il classico dei Pink Floyd, uscita nel 2003 in occasione del trentennale dell’album. Si trattava d’un ciddì in SuperAudio, col suono distribuito in cinque canali per impianti surround… vabbene, moltobbello, ma le canzoni erano quelle, non c’era uno straccio di brano aggiuntivo, e il tutto si pagava a prezzo pieno.

Si tratta comunque d’una sgradita eccezione perché il più delle volte le ristampe sono ben meritevoli d’essere acquistate. Nel 2007, ad esempio, sono stati riproposti i tre album da studio dei Sisters Of Mercy con belle confezioni cartonate, note tecniche/critiche, foto & preziosi brani aggiuntivi. L’anno dopo, la stessa operazione è stata replicata (tranne per le confezioni, non di carta ma di plastica) per i dischi dei Mission, band nata da una costola degli stessi Sisters Of Mercy. Anche i dischi di David Sylvian usciti per la Virgin – compresi quelli a nome Japan e Rain Tree Crow – sono stati riproposti in lussuose confezioni cartonate, corredate di canzoni aggiunte; ne ho comprate diverse di queste ristampe sylvianiane, come “Tin Drum” dei Japan, pubblicato in uno stupendo cofanetto con disco aggiuntivo & libretto fotografico, un lavoro davvero ben fatto e pagato la modica cifra di sedici euro. Un altro lavoro lodevole che merita l’acquisto a scatola chiusa da parte dell’appassionato è la ristampa del 2004 di “London Calling” dei Clash, comprensiva di ciddì audio con interessante materiale aggiuntivo e divuddì con documentario & videoclip.

Recentemente, l’etichetta Legacy (di proprietà della Columbia, a sua volta controllata dalla Sony), ha riproposto il primo album di Whitney Houston, ovvero quel disco che portava il suo nome, pubblicato nel 1985 con grande successo in tutto il mondo. “Whitney Houston” è stato così ristampato per il suo venticinquennale con brani aggiuntivi e un divuddì contentene videoclip, apparizioni televisive e nuove interviste. Ancora la Legacy, ad aprile, immetterà sul mercato due interessanti ristampe: una per “This Is Big Audio Dynamite”, l’esordio di Mick Jones come leader dei B.A.D. (originariamente pubblicato anch’esso nell’85), e un’altra per il classico degli Stooges, “Raw Power”, che oltre a proporre esibizioni dell’epoca, inediti & rarità figurerà anche l’originale mix di David Bowie del 1973.

Negli ultimi anni s’è ristampato davvero di tutto, spaziando un po’ fra tutti i generi musicali: “What’s Going On” di Marvin Gaye, “Tommy” degli Who, “Pet Sounds” dei Beach Boys (anche in cofanetto da tre ciddì), “Songs From The Big Chair” per i Tears For Fears, “All Mod Cons” per i Jam, “Our Favourite Shop” per gli Style Council, “Stanley Road” e “Wild Wood” di Paul Weller, “Steve McQueen” dei Prefab Sprout, “Night and Day” di Joe Jackson, i primi quattro album dei Bee Gees, “Guilty” della Streisand, “Songs In The Key Of Life” di Stevie Wonder, “Damned Damned Damned” dei Damned, “Ten” dei Pearl Jam (in un voluminoso cofanetto), l’intero catalogo per Bob Marley, i Doors, Siouxsie And The Banshees, Depeche Mode, Megadeth e Joy Division. E ancora: “Transformer” di Lou Reed, “All The Young Dudes” per Mott The Hoople, “A Night At The Opera” dei Queen, i quattro album da studio dei Magazine, gran parte dei dischi di Bowie, dei Genesis dei Cure e dei New Order, “The Final Cut” dei Pink Floyd, “A Love Supreme” di Coltrane e gran parte dei dischi di Miles Davis (spesso anche in lussuosi cofanetti da tre, quattro o più ciddì). Eppure si sono viste anche ristampe ben più povere, vale a dire senza brani extra e in confezioni standard, per Peter Gabriel, Roxy Music, Simple Minds, David Gilmour, Sting e The Police.

Riproposizione in grande stile, invece, per il catalogo dei Beatles: lo scorso 9 settembre, il fatidico 9/9/09, tutti gli album del gruppo originariamente pubblicati dalla EMI fra il 1963 e il 1970 sono stati ristampati (e remasterizzati) sia singolarmente che tutti insieme in costosi cofanetti (in formato stereo e mono), tuttavia nessun disco contemplava i succosi inediti ancora custoditi in archivio.

Per quanto riguarda i solisti, già nel 1993 la EMI ristampò tutto il catalogo di McCartney nella serie “The Paul McCartney Collection”, mentre fra il 2000 e il 2005 è toccato agli album di John Lennon. Spesso ognuno di questi album include i brani pubblicati all’epoca sui lati B dei singoli e alcune ghiotte rarità. Anche il catalogo di George Harrison è stato rilanciato di recente; qui ricordo in particolare la bella ristampa di “All Things Must Pass”, uscita nel 2001 e curata dallo stesso Harrison. Per quanto riguarda Ringo Starr, l’americana Rykodisc ha ristampato già nei primi anni Novanta i suoi album del periodo 1970-74 con diversi brani aggiuntivi, tuttavia l’operazione s’è conclusa lì e le copie a noi disponibili erano solo quelle d’importazione. Insomma, il catalogo solista di Starr meriterebbe anch’esso una riscoperta, almeno per quanto riguarda i suoi album più antichi.

In definitiva, povere o ricche che siano, tutte queste riedizioni stanno ad indicare che la musica incisa a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino ai primi Novanta è ormai giunta alla sua storicizzazione, forse perché si è ormai capito che, musicalmente parlando, quello è stato un periodo straordinario & irripetibile che evidentemente ha ancora molto da dire… e da far sentire!

– Matteo Aceto

(ultimo aggiornamento: 18 marzo 2010)

Un post a ruota libera

Un post nuovo, più per la voglia di scrivere che per il bisogno di dire chissà che cosa. E poi è una così bella sensazione quella di cliccare l’opzione per creare un nuovo post e iniziare a digitare le prime, difficili righe, come in questo caso, del resto. Tanto per non tradire lo spirito originario di Immagine Pubblica, ecco una serie di associazioni (senza capo né coda, temo) su visioni, ascolti & letture. Passati, presenti & futuri.

La musica di Nina Simone è fantastica, nient’altro da aggiungere da pare mia. Non vedo l’ora di potermi vedere al cinema “Alice nel paese delle meraviglie” di Tim Burton, in lavorazione da oltre un anno ma programmato per la primavera del 2010. A proposito, come suona bene quest’anno, il 2010… speriamo che ci offra dodici mesi di gran lunga migliori di quelli proposti finora da quest’orribile 2009 (che spero passi al più presto, come vorrei che oggi fosse già la vigilia di Natale, tanto per dire). Sul comodino ho piazzato “Il deserto dei tartari” di Dino Buzzati, un libro che devo leggere da anni ma che – per motivo o per l’altro – ho sempre trascurato. In effetti al momento sto leggendo tutt’altro ma, come ho detto, il classico di Buzzati è in pole position sul mio comodino per cui non dovrebbe sfuggirmi ulteriormente. Se il libro dovesse piacermi, vedrò di procurarmi anche il film che ne è stato tratto: se non ricordo male uscì negli anni Settanta, con Vittorio Gassman come attore protagonista.

Sempre restando in tema di letture (ma anche di musica), ultimamente ho avuto il bisogno d’andarmi a rileggere due biografie che avevo comprato & letto diversi anni fa: si tratta della storia di Freddie Mercury raccontata dal suo amante Jim Hutton in “I miei anni con Freddie Mercury” (edito dalla Mondadori) e dal suo assistente personale Peter Freestone in “Freddie Mercury… adesso svela ogni segreto” (edito dalla Lo Vecchio ma di recente riedito dall’Arcana). Entrambe le storie – piuttosto intime, soprattutto quella di Hutton – partono negli anni Ottanta e si concludono con la triste morte del celeberrimo cantante dei Queen, nel novembre del 1991. Non so perché sono andato a rileggermi in sequenza questi due libri, non è che ultimamente ho ascoltato chissà quanto la musica di Mercury.

In fatto di ascolti, ultimamente ho invece sentito parecchio i Beatles, Miles Davis, i Depeche Mode e i Cure. Mi piacerebbe scrivere altri post su di loro in questo blog, così come di Nina Simone, citata sopra. Spesso mi manca però l’ispirazione. A proposito di Miles Davis, avrei voglia anche di rileggermi lo splendido “Lo sciamano elettrico” di Gianfranco Salvatore (edito da Stampa Alternativa), di sicuro fra i migliori libri dedicati all’arte & alla figura del leggendario trombettista americano. Uhm, mi sa che il buon Buzzati slitterà ulteriormente…

Tornando a parlare di film: ho un bisogno sfrenato di vedermi & rivedermi le opere di Federico Fellini [sopra, in un autoritratto], sembra che di questi tempi mi bastino solo quelle per soddisfare le mie curiosità cinematografiche. Avevo iniziato a scrivere un nuovo post sui film di Fellini, qualche giorno fa, ma l’ispirazione latitava in modo imbarazzante. In fondo, a volte, non c’è proprio niente da dire (e da scrivere): certi capolavori vanno forse soltanto ammirati per quelli che sono, in rigoroso silenzio da parte nostra. – Matteo Aceto

The Cure, “Bloodflowers”, 2000

the-cure-bloodflowers-immagine-pubblica-blogUno dei dischi che più amo fra quelli usciti nel decennio che ormai volge al termine è “Bloodflowers”, undicesimo album da studio dei Cure. Dopo averlo comprato & ascoltato un’infinità di volte, ho avuto una specie di disinteresse per la carriera successiva del gruppo di Robert Smith, perché in molti sensi giudico “Bloodflowers” un lavoro definitivo, il punto d’arrivo d’una splendida avventura iniziata con “Three Imaginary Boys” (1979).

Non a caso, “Bloodflowers” è l’ultimo album dei Cure uscito per la storica Fiction Records, l’etichetta che li aveva lanciati oltre vent’anni prima. Un album anticommerciale, “Bloodflowers”, prevalentemente lento, sofferto ma melodico, pieno di rimpianti e di sentimenti depressogeni, eppure ricco di visioni poetiche e d’invocazioni d’amore, nonché di voglia di cambiamento – pur se accettando la realtà del mondo per quella che è. Un album, “Bloodflowers”, pubblicato all’inizio d’un nuovo secolo, il 2000, e giunto nelle rivendite senza l’accompagnamento di videoclip promozionali, né singoli estratti, un lavoro da prendere così com’è, lo si odia o lo si ama, non si scende a compromessi.

Per molti aspetti, ritengo “Bloodflowers” il miglior lavoro dei Cure, l’album della definitiva maturità, un album piacevolmente deluso, un set di nove canzoni che ci trasportano alla deriva, fra la tranquillità della vita domestica e il tumultuoso flusso di coscienza, a metà fra il sonno e la veglia. Nove canzoni dove la band si prende tutto il tempo che vuole, con lunghe introduzioni e ampi passaggi strumentali intermedi, raggiungendo agilmente i cinque, i sette o addirittura gli undici minuti di durata.

La genesi di “Bloodflowers” ha un inizio preciso: 21 aprile 1998, giorno del trentanovesimo compleanno di Robert Smith, cantante, chitarrista e grande anima dei Cure. E’ in quel giorno che Robert compone fra le mura di casa il primo brano di “Bloodflowers”, un pezzo dolente & rabbioso, chiamato per l’appunto 39, dove il musicista ammette che il fuoco si è quasi spento, nonostante nella sua vita non avesse fatto altro che alimentare quel fuoco. Per altre idee musicali da destinare al nuovo album, Smith sembrerà fare anche ricorso alla celebre Burn, scritta per la colonna sonora de “Il Corvo”, rallentando la musica & estendendone i confini fino a renderla più eterea.

Ad ogni modo, di lì a poco il buon Robert darà vita – con gli altri componenti della band, il cui contributo sarebbe ingiusto ignorare – alle altre canzoni del primo album dei Cure per il nuovo secolo: delle gemme di grande bellezza quali l’amabilmente desolata The Last Day Of Summer, la romantica e toccante There Is No If… (la canzone più corta dell’album, con quattro minuti scarsi), l’ipnotica ma dolcissima The Loudest Sound, la stessa Bloodflowers, una drammatica e intensa dichiarazione d’amore, fra le più belle canzoni dei Cure in assoluto. E poi l’epico dark-rock di Watching Me Fall (ben undici minuti & passa di durata!), la sognante Out Of This World, posta efficacemente come brano d’apertura, e le più convenzionalmente pop-rock Maybe Someday e Where The Birds Always Sing, comunque ben diverse dagli episodi più smaccatamente pop dei Cure anni Ottanta e Novanta.

Per me “Bloodflowers” è un disco magnifico, un capolavoro che ascolto sempre con grande trasporto & con immutato interesse. Spesso mi fa dimenticare che i Cure hanno fatto altri dischi dopo di questo. – Matteo Aceto

La musica del 2009 tra realtà e sogni

depeche modeEccoci così al 2009! Prima di cominciare, però, lasciatemi augurarvi buon anno, di cuore. Non possiamo dire come sarà l’ultimo anno di questo decennio, ovvio, ma possiamo già tracciare i contorni della musica che ascolteremo nei prossimi mesi. Ecco quindi una breve rassegna della musica che verrà…

Album
Per me il più atteso è il nuovo dei Depeche Mode, previsto in primavera e al momento ancora senza titolo: la band inglese (nella foto) ha anche girato il video di Wrong, il singolo apripista… sono molto curioso, non vedo l’ora di vederlo! Pare che questo nuovo capitolo depechiano dovrebbe recuperare delle sonorità retrò. Intanto usciranno anche i nuovi album di Bruce Springsteen (a giorni), Peter Murphy (il cantante dei Bauhaus), Prince, David Sylvian, Morrissey, Neil Young, Megadeth, P.J. Harvey, Green Day, Devo, Roxy Music, U2, No Doubt e Robin Gibb. Forse anche il nuovo di Michael Jackson e forse – udite udite – anche il secondo album dei redivivi Sex Pistols, che darebbero quindi un seguito al celeberrimo “Never Mind The Bollocks” del 1977.

Concerti
Per quanto riguarda gli appuntamenti live previsti nel nostro paese, per ora segnalo solo i Depeche Mode, gli Eagles, i Metallica, gli Ac/Dc, i Judas Priest, i Megadeth, i Lynyrd Skynyrd e gli odiosi Oasis. Mi piacerebbe tantissimo vedere il concerto degli Eagles… ma suoneranno a Milano… per me sarà difficile starci. Spero anche che i Verve recuperino l’unica tappa del loro tour del 2008 – quello che segnava la reunion dopo quasi dieci anni dallo scioglimento – che avevano programmato in Italia: dovevano suonare a Livorno ma la loro esibizione saltò perché Richard Ashcroft aveva la laringite.

Reunion
Dopo le innumerevoli reunion degli ultimi anni, nel 2009 si attendono i ritorni – sul palco e/o in studio – di Blur (nella originale formazione a quattro), Magazine, Ultravox (nella formazione condotta da Midge Ure), The Specials, The Faces (sì, proprio il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood, scioltosi nei primi anni Settanta!) e forse anche Faith No More, Smiths (ma qui ci credo poco… sarebbe un miracolo!), Stone Roses e Spandau Ballet. Voci incontrollate parlano anche dei Jackson 5

Ristampe
“Odessa” dei Bee Gees uscirà fra pochi giorni, il 12, in un bel cofanetto con tanto di rarità & inediti (… e io ho già la bava alla bocca!) in occasione del quarantennale della sua edizione. A marzo sarà invece la volta di “Ten”, il classico dei Pearl Jam. Dovrebbero uscire anche gli ultimi capitoli della bella serie di remaster dei Cure, in particolare dell’album “Disintegration” che nel 2009 compie ventanni. In autunno, secondo alcune indiscrezioni, dovrebbero uscire anche i ciddì rimasterizzati di tutti gli album dei Beatles… chissà, io lo spero vivamente, a patto, cazzo, che vi siano inclusi degli inediti!

Film
In questo 2009 dovremmo vedere il benedetto film sulla vita di Bob Marley, in cantiere almeno dal 2003. Pare che quest’anno sia la volta buona, chissà, certo è che al momento non se ne conoscono molti particolari. Don Cheadle dovrebbe dar vita al suo film sull’immenso Miles Davis, in attesa almeno dal 2007. Si attendono anche film biografici su Freddie Mercury e Kurt Cobain, annunciati anch’essi alcuni anni fa. Correrei subito al cinema per vedermi quello su Mercury, si era parlato di Johnny Depp per la sua interpretazione, chissà.

Questo quello che è stato confermato, in maniera più o meno ufficiale da parte dei diretti interessati o da chi per loro. Ora passo brevemente alle mie aspettative per quest’anno:

  • spero in un ritorno sulle scene del grande David Bowie, magari anche solo per dei concerti, ovviamente con transito obbligatorio in Italia;
  • una cazzutissima ristampa di “The Wall” dei Pink Floyd in occasione del trentennale di quello che resta il mio album rock preferito;
  • un nuovo album da studio di Sting che, a parte la divagazione medievale di “Songs From The Labyrinth”, non mi pubblica un album con canzoni sue dal 2003;
  • un nuovo album e/o tour per i Tears For Fears con tassativo passaggio live in Italia;
  • la pubblicazione d’un cofanetto di Miles Davis con le sue collaborazioni con Prince (si parla comunque d’un nuovo cofanetto davisiano della sua discussa produzione anni Ottanta);
  • almeno un concerto in terra italiana per Paul McCartney;
  • un nuovo album per Roger Waters, che non pubblica un disco d’inediti dai tempi di “Amused To Death”.

Questo è quel che le mie antenne sono riuscite a captare nell’aria; se non altro si prefigura un 2009 abbastanza interessante sotto il profilo musicale. Per tutto il resto, come sempre, staremo a vedere! – Matteo Aceto

I concerti più memorabili

Paul McCartney live roma 2003Se in questo 2008 che ormai volge alla fine ho stabilito il mio record personale di dischi acquistati, non ho però assistito a nessun concerto di particolare rilevanza. Un po’ per mancanza di soldi, un altro po’ per pigrizia e molto per via del fatto che i miei artisti preferiti non hanno dato concerti in Italia. E così, sia come augurio per l’anno che verrà e sia per guardarmi indietro con piacevole nostalgia, ecco una breve lista dei concerti che più mi hanno emozionato negli ultimi anni, con qualche sintetico commento da parte del sottoscritto.

Eric Clapton: dal vivo a Pesaro nel marzo del 2001 con una band cazzutissima. Anche se ora ritengo il buon Eric un sopravvalutato, questo fu un concerto bellissimo e senza nessun calo di forma e/o stile.

The Cure: dal vivo a Roma nell’estate del 2002, per quasi tre ore di musica dove la band di Robert Smith ha spaziato senza risparmiarsi dalle canzoni di “Three Imaginary Boys” ai brani più recenti (per l’epoca) di “Bloodflowers”. Grandissimi!

Depeche Mode: dal vivo a Bologna nell’ottobre 2001, in un concerto esaltante del tour di “Exciter” che la sera prima aveva fatto tappa a Milano. Una band in formissima alle prese con un repertorio che ho cantato dalla prima all’ultima canzone. Apprezzai anche l’esibizione del gruppo di supporto, i Fad Gadget.

Genesis: dal vivo a Roma nell’estate 2007, in occasione del Telecomcerto gratuito del 14 luglio che ha attirato ben 500mila persone. La formazione includeva tre membri originali – Phil Collins, Tony Banks e Mike Rutherford – più due storici collaboratori, Daryl Stuermer (chitarra) e Chester Thompson (batteria). Uno dei più maestosi spettacoli che ho avuto il privilegio di gustare.

Steve Hackett: dal vivo a Pescara nel marzo 2007, fu un graditissimo aperitivo acustico prima del grande concerto romano dei Genesis. Ne ho parlato QUI.

Scott Henderson: dal vivo a Orsogna (Chieti) nell’agosto del 2006 vidi in azione uno dei più abili e impressionanti chitarristi che io abbia mai avuto il piacere d’ascoltare. Eccezionalmente bravi anche i due musicisti che quella sera accompagnarono Scott sul palco: Kirk Covington alla batteria e John Humphrey al basso.

Paul McCartney: dal vivo a Roma, lungo il suggestivo sfondo dei Fori Imperiali, nel maggio del 2003, in occasione del primo Telecomcerto gratuito (nella foto sopra). Questo è stato forse il concerto più emozionante della mia vita, se la batte alla pari con un altro che vedremo fra poco…

The Mission: dal vivo a Roma nell’autunno del 2005, in una formazione che purtroppo includeva il solo Wayne Hussey fra i componenti storici della band inglese; la scelta dei pezzi e la loro esecuzione furono comunque memorabili.

Peter Murphy: dal vivo a Roma nell’estate 2005, in uno dei posti peggiori che io abbia mai visitato per ascoltare della musica dal vivo. Ma l’emozione di aver visto cantare a un metro da me il leader dei Bauhaus, il piacere di avergli stretto la mano, e i suoi autografi sulle copertine dei miei dischi hanno ben ripagato i soldi spesi per il biglietto e il viaggio.

The Police: dal vivo a Torino nell’ottobre del 2007… strepitosissimi! Ne ho parlato abbondantemente QUI.

Prince: dal vivo a Milano il 31 ottobre 2002 per un concertone che riportava il folletto di Minneapolis in terra italiana dopo dieci anni buoni d’assenza, stavolta per promuovere l’album “The Rainbow Children”. Ci andai da solo, contro tutti & tutto, e ne valse la pena alla grandissima, fosse solo per il fatto di averlo visto suonare e cantare Purple Rain a pochi metri da me!

David Sylvian: dal vivo a Roma nel settembre 2007 in uno dei posti più splendidi dove ho potuto ascoltare della musica live, l’Auditorium della Conciliazione, a pochi passi dal Cupolone. Tanti i pezzi tratti dal recente “Snow Borne Sorrow” (2005) ma anche tante piacevoli escursioni nel suo passato solista. Ospite d’eccezione, alla batteria, il fratello Steve Jansen.

Roger Waters: dal vivo a Roma nel giugno 2002 con una band grandissima di musicisti e coriste. Tre ore in compagnia di una leggenda alle prese con delle canzoni che sono entrate nella storia. Ho detto tutto. Permettetemi di chiudere questo post su toni di nostalgia dolceamara… mi sento fortunatissimo ad aver avuto l’opportunità di applaudire da vicino tutti questi grossi calibri, rimpiango però di non aver mai visto dal vivo Miles Davis, Freddie Mercury e i Clash. – Matteo Aceto

Stripped, nuovo libro sui Depeche Mode

depeche-mode-libro-stripped-immagine-pubblicaE’ uscito da poco “Stripped”, un nuovo libro biografico sui Depeche Mode, scritto da Jonathan Miller. E’ un bel librone di oltre seicento pagine che ripercorre la storia di questo celebre gruppo inglese, dai primi anni fino al suo più recente capitolo discografico, l’album “Playing The Angel” (2005).

Ieri sera, mentre mi trovavo nel solito centro commerciale dalle mie parti, ho avuto modo di dargli un’occhiata ravvicinata e di leggermi qualcosina. Ci sono innanzitutto un sacco di belle foto, compresa una del 1969 dove, in una classe scolastica di bambini, si vedono sorridenti Vince Clarke e Andy Fletcher, futuri fondatori della band. Ma i dettagli biografici e musicali sono tantissimi: ad esempio, non sapevo che sul finire degli anni Ottanta, mentre i Depeche Mode completavano l’album “Violator”, Andy fu costretto a ricoverarsi alla Priory, una celebre clinica inglese che ha ospitato diverse rockstar, a causa di una profonda depressione. E lì ha incontrato un altro ospite illustre: ‘c’era anche quel tipo eccentrico dei Cure‘ ha detto Fletcher… chi, Robert Smith?

La cosa però che più mi ha colpito sono stati i dettagli musicali: ad esempio, non sapevo affatto che il breve interludio chitarristico che si ascolta in “Violator”, fra Enjoy The Silence e Policy Of Truth, sia stato suonato da Dave Gahan, il cantante del gruppo. Così come il fatto che la stessa Policy Of Truth abbia avuto una lunga evoluzione, col suo celebre riff aggiunto solo verso la fine.

Insomma, da bravo appassionato dei Depeche Mode, credo proprio che la lettura di questo “Stripped” sia per me necessaria. Sono stato tentato dal comprarmi il librone ma i suoi ventidue euro necessari per portarmelo a casa mi hanno un po’ fatto passare la voglia. Vedremo più in là, magari sotto Natale…

Che poi, perlamiseria, devo ancora comprarmi la benedetta enciclopedia su David Bowie scritta qualche anno fa da Nicholas Pegg! – Matteo Aceto