Sting, “Symphonicities”, 2010

sting-symphonicities-immagine-pubblica-blogDa un po’ di anni a questa parte, Sting è definitivamente entrato in quella categoria di artisti che o si amano o si odiano, senza mezze misure. Per quanto mi riguarda, io l’ho sempre amato e continuerò ad amarlo anche in futuro, comprando ogni suo disco che deciderà di dare alle stampe, come ho sempre fatto.

Forse i suoi tempi d’oro sono ormai un ricordo, eppure il suo ultimo album da studio, “Symphonicities”, uscito lo scorso luglio, rappresenta il miglior Sting da dieci anni buoni a questa parte. Si tratta del terzo disco di fila pubblicato dal nostro attraverso la celebre Deutsche Grammophon, dopo “Songs From The Labyrinth” (2006) e “If On A Winter’s Night…” (2009).

E se, nel primo di questa trilogia di album, Sting si cimentava con la musica di John Dowland e, nel secondo, con canti popolari delle tradizione angloirlandese, qui il cantante reinterpreta se stesso. E con la stessa classe di sempre. Per l’occasione ha però assemblato un’intera orchestra per riproporre in chiave sinfoninca alcuni fra i suoi grandi classici, dai tempi dei Police fino al recente periodo solista, più alcune sorprese davvero gradite.

In realtà, l’accompagnamento sinfonico che Sting ha deciso per riproporre le sue dodici canzoni inserite in questo progetto viene da tre fonti: The Royal Philarmonic Concert Orchestra, condotta da Steven Mercurio, e The London Players e The New York Chamber Consort, entrambe dirette da Rob Mathes, che fra l’altro è il produttore con lo stesso Sting di “Symphonicities”. Tra i musicisti che partecipano al disco, troviamo vecchie conoscenze del nostro come Dominic Miller, David Hartley e Chris Botti, abili jazzisti contemporanei come David Fink, Aaron Heick e Ira Coleman, e nuovi “acquisti” come la cantante Jo Lawry, la cui voce accompagna quella del nostro in tutte le canzoni, sia nei cori che in alcune parti solistiche.

Da parte sua, Sting si è riservato il ruolo di solo cantante, salvo suonare la chitarra acustica in un paio di pezzi: sembra proprio a suo agio, tanto che, fin dal primo ascolto di “Symphonicities”, ho avuto la netta impressione che stesse cantando dal vivo sulle basi registrate in studio. Del resto, Sting ha iniziato a sperimentare a fondo con l’orchestra già al termine del 2009, nel corso di esibizioni dal vivo in terra d’America, mentre quest’anno ha deciso di spingersi ancora oltre non solo proponendo un album a tema ma anche dando vita ad un relativo tour concertistico in tutto il mondo. Evidentemente si tratta di un terreno per lui congeniale, che per una volta esula dalla tipica dimensione pop-rock della sua attività.

Va bene, erano queste le informazini preliminari su “Symphonicities” che mi sembrava opportuno fornire, mentre ora passiamo ad una breve analisi delle singole canzoni che vi sono incluse.

Si parte con l’incalzante Next To You, il brano che nella sua versione originale apriva il primo album dei Police. La scelta di trattare un pezzo tipicamente punk in maniera orchestrale è la soluzione più audace proposta in “Symphonicities”, anche se, a mio avviso, non proprio azzeccata; apprezzo il coraggio di Sting ma forse non è stata una buona idea partire così.

La versione di Englishman In New York non è invece troppo diversa dal classicone incluso in “…Nothing Like The Sun” (1987). Continuo a preferire quest’ultimo anche perché, detto fra noi, resta uno dei miei brani preferiti in assoluto, tuttavia la nuova versione non tradisce affatto la classe e l’eleganza dell’originale.

Con la famosa Every Little Thing She Does Is Magic troviamo un’altra canzone dei Police, la cui attuale rivisitazione è stata lanciata come anteprima di “Symphonicities”. Così come nell’iniziale Next To You, l’uso dell’orchestra al posto degli strumenti suonati nell’81 dal trio porta la canzone in un contesto del tutto nuovo. E’ una versione interessante, anche se continuerò a preferirle l’originale, che trovo davvero irresistibile e alla quale sono ormai abituato da qualche decennio.

Al contrario, credo che I Hung My Head sia superiore all’originale edita nel ’96 con l’album “Mercury Falling”: la nuova versione ne aumenta il carattere pastorale e meditabondo, pur non tradendo la gradevole matrice country del brano. Magari Sting poteva risparmiarci i suoi ripetuti “I hung my head, I hung my head…” sul finale, ma si tratta d’una pecca trascurabile.

Accennavo, poco fa, a gradite sorprese e You Will Be My Ain True Love è una di esse. Si tratta di una canzone che finora non compariva in nessun disco associato a Sting: il cantante scrisse infatti questo brano d’atmosfera per la colonna sonora del film “Cold Mountain” (2003), affidandolo principalmente alla voce eterea di Alison Krauss. Qui ci viene riproposto in duetto assieme alla Lawry, in un arrangiamento non troppo dissimile dall’originale e comunque arricchito da una breve ma sontuosa introduzione.

La rivisitazione di Roxanne è invece la migliore di tutto il disco, in una versione più lenta ma davvero notevole, intensa e struggente. L’originale del ’78 stava al giovane artista alle prime armi come quella attuale sta allo stesso artista ormai maturo che si approssima alle sessanta primavere. I conti tornano perfettamente.

When We Dance, così come Englishman In New York, è stata invece ritoccata al minimo. Anche in questo caso, del resto, siamo in presenza di uno dei grandi capolavori dello Sting solista, originariamente edito nella raccolta “Fields Of Gold” (1994). E pur ritenendo migliore quella prima versione, devo dire che la rilettura attuale di When We Dance spicca per la sua delicatezza e per il suo carattere etereo che, se possibile, la rendono ancora più toccante.

Originariamente “sprecata” nel ’99 come lato B del singolo Brand New Day, l’ariosa The End Of The Game trova finalmente la sua giusta collocazione in un album di Sting dopo oltre un decennio dalla sua prima edizione; tra l’altro, la nuova versione è meno “iperprodotta”, acquistando realismo e spontaneità.

Altra piacevole sorpresa con I Burn For You, originariamente incisa dai Police per la colonna sonora d’un oscuro film, “Brimstone & Treacle” (1982), nel quale recitava lo stesso Sting. La versione originale di I Burn For You m’è sempre piaciuta ma la rilettura è perfino migliore: più contemplativa, più intensa, con una grande prova vocale da parte del nostro, e finalmente libera da quel coro da stadio sul finale.

We Work The Black Seam è probabilmente la scelta più insolita nella scaletta di “Symphonicities”: scritta all’indomani del celebre sciopero dei minatori britannici contro l’allora governo Thatcher, la canzone è stata inclusa nel primo album da solista del nostro. A parte i nobili intenti, devo ammettere che, musicalmente parlando, ho sempre trovato We Work The Black Seam poco attraente, e la nuova versione non mi viene in aiuto, con la durata estesa a ben sette minuti e l’orchestra e rendere il tutto più ingessato.

La scelta d’inserire She’s Too Good For Me mi sembra anch’essa poco felice, anche perché ripropone in sostanza lo stesso arrangiamento dell’originale del ’93: con tutte le canzoni che il nostro poteva trarre dal suo repertorio, perché è andato a ripescare questo brano minore inciso per l’album “Ten Summoner’s Tales”? E allora perché non Seven Days, o Shape Of My Heart oppure ancora If I Ever Lose My Faith In You? Evidentemente si tratta d’un brano al quale il suo autore resta particolarmente legato, e che io non sono riuscito a capire.

Dodicesima e ultima canzone in programma, The Pirate’s Bride è un’altra graditissima sorpresa: romantica e toccante, era stata anch’essa “sprecata” sul lato B di un singolo, I Was Brought To My Senses, datato 1996. La rilettura attuale è molto bella e concede alla brava Jo Lawry una parentesi da solista tutta sua.

In conclusione, “Symphonicities” è un album davvero gradevole, che finora ho ascoltato spesso e con immutato piacere. Ho avuto modo di apprezzare, in particolare, la scelta delle canzoni, che non riduce il disco a un semplice greatest hits in chiave orchestrale ma ne restituisce un lavoro ben fatto e perfettamente ascoltabile al di là degli obblighi collezionistici e/o affettivi di noi appassionati. – Matteo Aceto

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