The Cure, “Disintegration”, 1989

Ero convinto d’aver già scritto un post su “Disintegration”, il disco capolavoro dei Cure originariamente pubblicato nel 1989, ma non lo trovo né tra gli articoli di questo modesto blog e né tra le bozze inedite. Eppure sono sicuro di aver scritto qualcosa in proposito, qualcosa che forse è rimasto in qualche bozza che infine ho cancellato, magari anche inavvertitamente. Ad ogni modo, visto che ormai sono qui e considerato che in questi giorni sto riascoltando “Disintegration” piuttosto ossessivamente, sia a casa (quando i bimbi me lo permettono) e sia quando sono in macchina per andare al/tornare dal lavoro, mi sento sufficientemente pronto per stendere qualche appunto su quello che resta, per quanto mi riguarda, l’unico disco dei Cure che ancora ascolto con sommo piacere dall’inizio alla fine.

Sì, è vero, in un mio vecchio post avevo argomentato che il disco capolavoro dei Cure fosse “Bloodflowers” ma mi son dovuto ricredere. Ci ho messo davvero anni per apprezzare “Disintegration” e ormai posso dirlo: è quest’ultimo il vero capolavoro dei Cure, e in ciò credo d’essermi allineato con l’opinione comune della maggior parte degli ammiratori della band inglese. Del resto un disco come “Bloodflowers”, che comunque per me resta grandissimo, è pur sempre figlio di questo “Disintegration”; ne ha lo stesso concetto di fondo, ecco: canzoni lunghe, distese, con corpose introduzioni strumentali, con testi che affrontano con un certo smarrimento il passare del tempo e dove l’amore, forse, è l’unica cosa che resta davvero. Autentici romantici, i Cure.

E se “Bloodflowers” venne pubblicato nudo e crudo così com’era, ovvero senza video o singoli promozionali, da “Disintegration” la Fiction Records pensò bene di estrarre ben quattro singoli – la sognante Pictures Of You, la romantica Lovesong, la rockeggiante Fascination Street e la tetra ma sensuale Lullaby, probabilmente il pezzo più celebre dei Cure – con i relativi videoclip e sui rispettivi lati B quattro pezzi che non facevano parte della scaletta originale dell’album.

Scaletta che appunto è composta da dieci canzoni, dalla magniloquente Plainsong alla trascinante Disintegration, ma che nella versione in ciddì ne figura due ulteriori in appendice (la sconsolata Homesick e la cantilenante Untitled) che forse estendono un po’ troppo il “discorso”. La cosa, ovviamente, non influisce sul risultato finale, che resta quello d’un ascolto sempre emotivamente molto coinvolgente. Insomma, sono passati oltre trent’anni e di “Disintegration” non siamo ancora riusciti a fare a meno. O almeno io non ci sono riuscito affatto, e credo che mai ci riuscirò. – Matteo Aceto

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The Cure, “Bloodflowers”, 2000

the-cure-bloodflowers-immagine-pubblica-blogUno dei dischi che più amo fra quelli usciti nel decennio che ormai volge al termine è “Bloodflowers”, undicesimo album da studio dei Cure. Dopo averlo comprato & ascoltato un’infinità di volte, ho avuto una specie di disinteresse per la carriera successiva del gruppo di Robert Smith, perché in molti sensi giudico “Bloodflowers” un lavoro definitivo, il punto d’arrivo d’una splendida avventura iniziata con “Three Imaginary Boys” (1979).

Non a caso, “Bloodflowers” è l’ultimo album dei Cure uscito per la storica Fiction Records, l’etichetta che li aveva lanciati oltre vent’anni prima. Un album anticommerciale, “Bloodflowers”, prevalentemente lento, sofferto ma melodico, pieno di rimpianti e di sentimenti depressogeni, eppure ricco di visioni poetiche e d’invocazioni d’amore, nonché di voglia di cambiamento – pur se accettando la realtà del mondo per quella che è. Un album, “Bloodflowers”, pubblicato all’inizio d’un nuovo secolo, il 2000, e giunto nelle rivendite senza l’accompagnamento di videoclip promozionali, né singoli estratti, un lavoro da prendere così com’è, lo si odia o lo si ama, non si scende a compromessi.

Per molti aspetti, ritengo “Bloodflowers” il miglior lavoro dei Cure, l’album della definitiva maturità, un album piacevolmente deluso, un set di nove canzoni che ci trasportano alla deriva, fra la tranquillità della vita domestica e il tumultuoso flusso di coscienza, a metà fra il sonno e la veglia. Nove canzoni dove la band si prende tutto il tempo che vuole, con lunghe introduzioni e ampi passaggi strumentali intermedi, raggiungendo agilmente i cinque, i sette o addirittura gli undici minuti di durata.

La genesi di “Bloodflowers” ha un inizio preciso: 21 aprile 1998, giorno del trentanovesimo compleanno di Robert Smith, cantante, chitarrista e grande anima dei Cure. E’ in quel giorno che Robert compone fra le mura di casa il primo brano di “Bloodflowers”, un pezzo dolente & rabbioso, chiamato per l’appunto 39, dove il musicista ammette che il fuoco si è quasi spento, nonostante nella sua vita non avesse fatto altro che alimentare quel fuoco. Per altre idee musicali da destinare al nuovo album, Smith sembrerà fare anche ricorso alla celebre Burn, scritta per la colonna sonora de “Il Corvo”, rallentando la musica & estendendone i confini fino a renderla più eterea.

Ad ogni modo, di lì a poco il buon Robert darà vita – con gli altri componenti della band, il cui contributo sarebbe ingiusto ignorare – alle altre canzoni del primo album dei Cure per il nuovo secolo: delle gemme di grande bellezza quali l’amabilmente desolata The Last Day Of Summer, la romantica e toccante There Is No If… (la canzone più corta dell’album, con quattro minuti scarsi), l’ipnotica ma dolcissima The Loudest Sound, la stessa Bloodflowers, una drammatica e intensa dichiarazione d’amore, fra le più belle canzoni dei Cure in assoluto. E poi l’epico dark-rock di Watching Me Fall (ben undici minuti & passa di durata!), la sognante Out Of This World, posta efficacemente come brano d’apertura, e le più convenzionalmente pop-rock Maybe Someday e Where The Birds Always Sing, comunque ben diverse dagli episodi più smaccatamente pop dei Cure anni Ottanta e Novanta.

Per me “Bloodflowers” è un disco magnifico, un capolavoro che ascolto sempre con grande trasporto & con immutato interesse. Spesso mi fa dimenticare che i Cure hanno fatto altri dischi dopo di questo. – Matteo Aceto

The Cure

the-cureGià mi sono occupato dei Cure nelle pagine virtuali di questo blog, recensendo alla bellemmeglio alcuni loro album (e di altri mi piacerebbe parlare in futuro). Però non ho mai dedicato un post biografico al noto gruppo dark-pop inglese: ecco quindi un punto della situazione, con la speranza di aver rimediato decentemente.

Fin dagli esordi nella seconda metà degli anni Settanta, quando la band si chiamava ancora The Easy Cure, la formazione dei nostri subiva continui cambi che la trasformò da quartetto a quintetto, fino a diventare un trio, fra il ’78 e il ’79. E’ per l’appunto come trio che il gruppo, perso ‘Easy’ e diventato ufficialmente The Cure, debutta professionalmente al principio del 1979 col singolo Killing An Arab, seguìto qualche mese dopo dall’album “Three Imaginary Boys”. Già allora il capo indiscusso dei Cure era il cantante/chitarrista Robert Smith, un tipo assolutamente particolare, un personaggio unico & inconfondibile nel panorama musicale, l’anima stessa dei Cure in tutti questi anni d’attività. All’epoca, tuttavia, i Cure avevano un manager-padrone chiamato Chris Parry che molto influì sulla vicenda storica & artistica del gruppo: già scopritore dei Jam di Paul Weller, Parry consolidò grazie al successo in classifica di questi ultimi la sua posizione nella casa discografica Polydor, sebbene si fece sfuggire i Clash. Non così avvenne coi Cure, quindi, che mise sotto contratto e che distribuì per un’etichetta nuova di zecca in seno alla stessa Polydor, la Fiction Records, che pubblicherà le nuove uscite dei nostri fino al 2004.

Non ho mai imparato tutti i nomi dei componenti dei Cure che via via hanno condiviso con Smith i palcoscenici di mezzo mondo e gli studi di registrazione più blasonati, tuttavia nel 1982, dopo aver dato alle stampe altri tre album, alquanto darkettoni se non proprio gotici, ovvero “Seventeen Seconds” (1980), “Faith” (1981) e il ben più celebrato “Pornography” (1982), i Cure di fatto si sciolgono dopo essere venuti alle mani fra loro. Tensioni interne, uso di droghe, un successo che sembrava scemare, il rapido cambio dello scenario musicale seguìto all’esplosione del fenomeno punk nel 1977, le pressioni da parte di Parry affinché i Cure diventassero più appetibili commercialmente… insomma un’atmosfera non certo salubre & rilassata per un personaggio sensibile & creativo come Smith.

Tuttavia, convinti ancora una volta da Parry, i Cure risorgono entro quel fatidico 1982, seppur con una formazione ridotta a duo, vale a dire lo stesso Smith col fido Lol Tolhurst: il risultato sono due singoli dall’appeal appositamente più commerciale e cioè la danza sintetica di The Walk e il melodico funk-pop di Let’s Go To Bed. I due brani ottengono il risultato sperato in classifica, spazzando anche l’immagine dark della band, ma di lì a poco Smith rinnega quella svolta, coi due componenti del gruppo che prendono strade separate per cercare di schiarirsi le idee.

Robert Smith intensifica così i suoi rapporti d’amicizia e professionali con Siouxsie And The Banshees diventando un membro di quel gruppo a tutti gli effetti. Passa un altro po’ di tempo e Smith e il bassista di questi ultimi, Steven Severin, provano a formare un nuovo gruppo dato che pure i Banshees attraversano brutte acque. L’inedito progetto del duo Smith/Severin adotta quindi il nome di The Glove ma Chris Parry, pur sempre legato contrattualmente a Smith, non gradisce il sodalizio del suo protetto con Severin e gli proibisce di cantare più di due canzoni nel primo (e unico) album dei Glove, l’interessante “Blue Sunshine”, edito nel 1983. In effetti la voce di Smith è assolutamente unica & perfettamente riconoscibile: Parry voleva continuare ad associare quella voce ad un unico marchio, The Cure per l’appunto, e così sarà.

Dopo aver realizzato un album da studio coi redivivi Banshees, “Hyaena” (1984), Smith abbandona quindi il gruppo di Siouxsie e rifonda i Cure. In realtà la rinascita della band avviene già sul finire dell’83, con l’irresistibile singolo The Lovecats, seguìto dall’album “The Top” nel 1984. Non è un capolavoro, “The Top”, ma di sicuro è l’album che incanala una volta per tutte i Cure (guidati da Smith con chi via via lo affiancherà in studio e sui palchi) verso una rinascita artistica che li porta a sfornare una serie di album memorabili: l’eccitante “The Head On The Door” nel 1985, l’ambizioso “Kiss Me Kiss Me Kiss Me” nel 1987, lo splendido “Disintegration” nel 1989, il superlativo “Wish” nel 1992, l’ecclettico “Wild Mood Swings” nel 1996 e lo straordinario “Bloodflowers” nel 2000.

In mezzo raccolte antologiche, dischi dal vivo, album di remix, reinterpretazioni, tributi, progetti umanitari e una sfilza invidiabile di singoli fantastici: da Boys Don’t Cry del ’79 a Friday I’m In Love del ’92, passando per Jumping Someone Else’s Train, Charlotte Sometimes, The Hanging Garden, In Between Days, Close To Me, A Night Light This, Why Can’t I Be You?, Just Like Heaven, Lullaby, Lovesong, Pictures Of You, High e A Letter To Elise. Impossibile non menzionare Burn, pubblicata nella colonna sonora del film “Il Corvo” (1994), meno riuscita ma sempre interessante l’elettronica Wrong Number del ’97. Discorso a parte merita “Bloodflowers“, uscito nel 2000 come ultimo album d’inediti per la Fiction, al quale dedicherò un post tutto suo più avanti.

Nel 2001 viene quindi pubblicata una nuova antologia (la terza) dei Cure, “Greatest Hits”, contenente due pezzi nuovi del tutto trascurabili, Cut Here e Just Say Yes. Seguono un ottimo cofanetto in quadruplo ciddì con lati B dei singoli e rarità, “Join The Dots” (2004), e le ristampe di tutti gli album del gruppo del periodo 1979-1987 con tanto di dischi aggiuntivi di materiale raro e/o inedito (un’operazione personalmente condotta da Smith). Nel 2002 la band se ne va in tour, passando pure in Italia, precisamente allo Stadio Olimpico di Roma: un estasiato Mat, accompagnato dall’altrettanto estasiato Brother Luca, è presente! Intanto i Cure firmano per una nuova etichetta, la Geffen, che pubblica quindi nel 2004 il primo album omonimo dei nostri, quasi come a voler simboleggiare un nuovo inizio, seguìto quattro anni dopo da un nuovo disco, “4.13 Dream”. [ultimo aggiornamento: 19 ottobre 2009] – Matteo Aceto