Notiziole musicali #5

Walter Becker, Donald Fagen, Steely DanE’ settembre, finalmente, mese di ripartenza, ed è tempo di far ripartire anche questo modesto blog. Purtroppo si riparte con una brutta notizia: il chitarrista-autore-produttore Walter Becker (a sinistra nella foto), cofondatore degli Steely Dan assieme Donald Fagen (a destra nella foto), è morto ieri in circostanze non ancora rese note. Un tumore, probabilmente. Personalmente mi dispiace molto, giacché gli Steely Dan sono uno dei miei gruppi preferiti: ho tutti i loro dischi, quelli di Fagen da solista e, ovviamente, anche quelli di Becker da solista, cioè “11 Tracks Of Whack” (1994) e “Circus Money” (2008). Da qualche anno a questa parte sono clamorosamente scomparsi alcuni dei più famosi & celebrati divi musicali – qui metto soltanto David Bowie, Prince e George Michael, tanto per citarne alcuni tra i più recenti, ma la lista è tristemente lunga – per cui la morte di un personaggio peraltro schivo come Walter Becker mi addolora ma non mi sconvolge più di tanto. E’ anche una questione anagrafica, insomma. Non saranno certamente vecchie, le mie pop-rockstar preferite, ma non sono neppure nate ieri.

Queen News Of The World 40th Anniversary EditionE’ notizia di oggi, invece, che l’album “News Of The World” (1977) dei Queen verrà ristampato il prossimo novembre dalla Universal in un lussuoso cofanetto commemorativo in occasione del suo quarantennale. Ebbene sì, canzoni come We Will Rock You e We Are The Champions sono state pubblicate la bellezza di quaranta anni fa… sembra ieri, vero? “News Of The World – 40th Anniversary Edition” sarà un box multiformato contenente l’edizione in vinile dell’album originale, un divuddì con documentario e filmati d’archivio, tre ciddì (uno con l’album originale e due contenenti inedite versioni alternative e/o demo delle undici canzoni originariamente incluse nell’album del ’77, più alcuni brani che ne vennero scartati e una selezione degli stessi pezzi registrati dal vivo tra il 1977 e il 1982). Non mancheranno, infine, un bel libretto di sessanta pagine dalle dimensioni d’un vinile e un paio di poster del quale, probabilmente, chiunque di noi potrebbe anche fare a meno.

Il materiale presente in “News Of The World – 40th Anniversary Edition” è, in effetti, abbastanza ridondante, considerando che i master del vinile e del ciddì sono gli stessi della più recente riedizione dell’album (2011) e i pezzi dal vivo avevano già visto la luce in precedenti uscite discografiche dei Queen (come ad esempio le BBC sessions). I due ciddì contenenti i provini, gli strumentali e le versioni alternative dovrebbero però giustificare l’acquisto (secondo me siamo sui cento euro), almeno per noi fan accaniti del gruppo inglese. Senza contare il bel formato che anche solo a vederlo così, in questa prima immagine che è stata resa pubblica dal sito ufficiale, fa la sua porca figura.

Neil Young HitchhikerUscirà invece già questo venerdì “Hitchhiker“, un album inedito di Neil Young registrato nel lontano 1976. Si tratta di una raccolta di dieci brani perlopiù per sola voce & chitarra messi su nastro dal nostro in presa diretta. Soltanto due canzoni sono effettivamente inedite, Give Me Strenght e Hawaii, mentre le altre, in un modo o nell’altro, erano già comparse in altri album di Neil Young successivi, come ad esempio la splendida Pocahontas, che debuttò in “Rust Never Sleeps” del 1979. Per quanto io conosca Neil Young da una vita, soltanto di recente ho imparato ad apprezzarlo davvero: se tanti anni fa comprai su musicassetta (anzi, era un doppia musicassetta!) la raccolta “Decade”, negli ultimi mesi sono andato a comprarmi il celeberrimo “Harvest” (finalmente!) e “On The Beach”, che mi è piaciuto anche di più e del quale mi piacerebbe parlare prossimamente in un post dedicato. – Matteo Aceto

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Elton John, “The Very Best Of”, 1990

elton-john-the-very-best-of-1969-1990-immagine-pubblica-blogE’ vero, tutte quelle belle canzoni che Elton John ha pubblicato con gli album “The One” (1992) e “The Lion King Soundtrack” (1994) esulano dal contesto del presente post ma, a mia discolpa, posso dire di non essere mai stato un suo fan. Mi ritengo comunque un collezionista di belle canzoni, e quel doppio vinile/ciddì chiamato “The Very Best Of Elton John” e distribuito dalla Polygram nel 1990 è esattamente questo: una collezione di belle canzoni, e quindi un prodotto per me indispensabile.

Di raccolte di Elton John ne sono uscite un bel po’, dal 1990 in poi, eppure questa che include i maggiori successi del nostro del periodo 1969-1989 (più un paio di notevoli inediti, inclusi per l’occasione) continua a restare per me la migliore. E, detto in confidenza tra noi, continua a restare l’unico titolo della sterminata discografia di Elton John che reputo necessario. Non fraintendetemi, non ho nulla contro il buon Elton, è che col tempo ho capito quei tanti critici che non soltanto non l’hanno mai davvero amato ma che, peggio, non l’hanno mai preso sul serio. In effetti, vedendo un video d’annata di Elton John, magari proprio alle prese con una di quelle sue favolose canzoni degli anni Settanta, ciò che colpisce di più è proprio quel suo look eccentrico, con quegli occhialoni stravaganti, le scarpe argentate con la zeppa & tutto il resto che contribuisce a mostrarcelo – diciamocelo pure senza alcun rancore, ci mancherebbe – come un perfetto coglione. Ecco, in quel caso, l’attenzione è tutta su di sé, nel bene e nel male, lasciando la canzone in sottofondo, fosse pure una delle canzoni più belle del mondo.

E in questa raccolta ci sono davvero alcune delle canzoni più belle del mondo: Your Soung, tanto per cominciare, ormai un autentico pezzo di musica classica, se vogliamo ampliare il termine visto che ormai siamo definitivamente nel Ventunesimo secolo, e poi Candle In The Wind, indimenticabile così come lo è Marilyn Monroe; e ancora Don’t Let The Sun Go Down On Me (che purtroppo, di questi tempi, ci ricorda più la triste fine di George Michael) e Rocket Man, un’altra perla di canzone che può essere messa nella stessa categoria della Space Oddity bowiana. In “The Very Best Of Elton John” non mancano poi la struggente Goodbye Yellow Brick Road, la mesta Sorry Seems To Be The Hardest Word, la malinconica Song For Guy, la consolatoria Blue Eyes e la sopraffina Nikita (brano che si avvale della collaborazione del già citato George Michael, oltre che di un magnifico Pino Palladino).

Tra le mie preferite metto inoltre I Guess That’s Why They Call It The Blues, con tanto di Stevie Wonder all’armonica, la trascinante I Don’t Wanna Go On With You Like That e l’inedita (per il 1990) Easier To Walk Away. Discorso a parte per Someone Saved My Life Tonight: da anni ho questa raccolta di Elton John, e quindi questa canzone, ma soltanto di recente mi sono reso conto di quanto sia bella. Una sera di qualche mesetto fa, desideroso di ascoltare delle canzoni anni Settanta/Ottanta cantate da qualcuno che fosse ancora in vita (e Elton John è ormai uno dei pochi, almeno tra i nomi presenti nelle mie collezioni), metto sul piatto del giradischi il primo dei due vinili di questo best of… arrivo così a Someone Saved My Life Tonight e quasi mi commuovo per l’emozione. Come se non l’avessi mai sentita prima! Questo per dire quanto ingombrante possa essere stato il personaggio Elton John a discapito del bravissimo autore/cantante/musicista che risponde a quello stesso nome. – Matteo Aceto

L’ultimo Natale di George Michael

Ieri notte, prima di andare a letto, come faccio di consueto, ho dato un’ultima sbirciatina al canale televisivo allnews. La prima notizia che vedo è quella che per ultima avrei immaginato di leggere, soprattutto nel giorno di Natale: è morto George Michael.

Mentre mi apprestavo a scrivere questo post (che è inutile, lo so, ma proprio non riuscivo a far finta di niente), volevo mettere in sottofondo un suo disco ma mi sono accorto con una certa sorpresa di non avere proprio niente di lui. Tanti anni fa avevo una copia in ciddì di “The Final”, la prima raccolta dei Wham!, edita in quello stesso 1986 nel quale George Michael aveva dato il definitivo addio artistico ad Andrew Ridgeley per mettersi in proprio con un singolo come A Different Corner e un album come “Faith”, edito l’anno dopo. Lui che in proprio aveva già fatto tutti gli hit storici dei Wham!, pezzi che conoscono anche i sassi, come Wake Me Up Before You Go-Go, Club Tropicana, The Edge Of Heaven e soprattutto quella Last Christmas che oggi, più che mai, assume un sapore amaro, pensando a questo ultimo Natale vissuto da George Michael. Tristezza che si somma alla tristezza.

Non m’è mai piaciuto granché George Michael da solista, perché secondo me le cose migliori le aveva fatte proprio con i Wham!, in quella spensierata prima metà degli anni Ottanta, quando uscì anche il suo primo singolo a suo nome, quella Careless Whisper che forse forse è proprio la canzone più bella uscita in quel decennio controverso. Eppure aveva una voce fantastica, probabilmente la migliore della sua generazione, l’unica voce che sia riuscita a “rifare” quella di Freddie Mercury in una strepitosa versione live di Somebody To Live eseguita con gli stessi Queen orfani di Freddie. In quei primi anni Novanta si era fantasticato d’un suo possibile passaggio proprio in seno ai Queen, a occupare il posto di quel cantante scomparso poco prima e che era uno dei suoi riconosciuti punti di riferimento musicali.

Ipotesi suggestiva, ma George ha avuto il buon gusto di non provarci. Anche perché in quegli anni il nostro aveva ben altro per la testa. In primo luogo un lungo braccio di ferro con la Sony, la casa discografica madre che l’aveva acquisito all’alba degli anni Ottanta con un contratto capestro che, di fatto, lo costrinse ad anni di silenzio discografico davvero lunghi per una pop star. Diversi personaggi dello spettacolo, se non ricordo male anche un certo Steven Spielberg, accorsero in suo aiuto, finché nel 1996 non ci fu la rinascita artistica con la Virgin e l’album “Older”, grande successo di quell’anno, così come il singolo apripista Jesus To A Child. In secondo luogo c’era l’omosessualità da rivelare al mondo intero, cosa che avrebbe scioccato il suo pubblico e anche l’opinione pubblica mondiale, dato che George Michael era visto (e giustamente) come un figaccione che sicuramente (credevamo tutti noi con una certa invidia) andava a letto con una donna diversa ogni sera.

Certo i tempi erano cambiati, la seconda metà degli anni Novanta non era certo la prima metà degli anni Ottanta: se l’avesse rivelato allora, la sua omosessualità, George Michael avrebbe visto la sua carriera fatta a pezzi per sempre. Eppure ha saputo gestire il tutto con grande intelligenza, anche dopo quel famoso “incidente” nel bagno d’una discoteca di non so più quale posto in America. Una canzone (e forse anche di più il suo video) come Outside mise subito le cose nella giusta prospettiva e la carriera del nostro poté procedere con ancora più autorevolezza.

Poi, per quanto mi riguarda, quelle canzoni che George Michael continuò a proporre tra la fine degli anni Novanta fino ai tempi più recenti non riuscivano proprio a interessarmi. Quella grandissima voce alle prese con quelle canzonette danzerecce che soltanto una come Madonna non si vergogna di propinare! Mah, vabbè, contento lui, pensavo.

Ed ora eccomi qui, in un mondo senza George Michael, così come la mia collezione di dischi è senza i suoi album. Che posso dire… che mi dispiace sinceramente.

-Matteo Aceto

Queen, “Highlander” e una colonna sonora ancora inedita

queen-a-kind-of-magic-highlanderTornando a occuparmi di Freddie Mercury, in una sorta di personale omaggio a 70 anni dalla nascita & a 25 dalla morte, vorrei dedicare questo post alla colonna sonora che i Queen scrissero, produssero ed eseguirono per il film “Highlander”, quell’ormai celebre fantasy del 1986 diretto da Russell Mulcahy e incentrato sulle vicende di Connor MacLeod, l’ultimo immortale interpretato da Christopher Lambert.

Colonna sonora che, dopo trent’anni, continua a restare ufficialmente inedita su disco. Prendendo così spunto da un mio vecchio post sull’album “A Kind Of Magic“, cercherò di attualizzare il discorso, anche alla luce dell’interessante materiale inedito pubblicato cinque anni fa dalla Universal, in occasione della ristampa di tutti gli album dei Queen per la serie “2011 Digital Remaster“.

Russell Mulcahy, regista australiano già distintosi per alcuni videoclip dell’epoca (ne cito uno, l’inquietante Wild Boys dei Duran Duran) e fan dichiarato dei Queen, invitò proprio Mercury & soci ad occuparsi della colonna sonora del suo primo lungometraggio, “Highlander” per l’appunto. E così i Queen, rivitalizzati dal trionfo del Live Aid conquistato sul palco di Wembley nel luglio ’85, tornarono in studio con rinnovato entusiasmo: se la richiesta iniziale di Mulcahy era di sole due nuove canzoni, i Queen ne registrarono molte di più e contribuirono attivamente agli stessi effetti sonori che il film necessitava. Ad esempio, c’è una scena in cui il cavallo dell’attore antagonista, il bravissimo Clancy Brown, nitrisce dalla cima di una collina; beh, quel nitrito altro non è che la chitarra di Brian May… e si sente!

queen-singolo-princes-of-the-universe-colonna-sonora-highlanderLe canzoni che si ascoltano in “Highlander” sono quindi Princes Of The Universe, One Year Of Love, Gimme The Prize, Who Wants To Live Forever, A Dozen Red Roses For My Darling, la cover di New York New York, la celeberrima A Kind Of Magic, e anche Hammer To Fall, ripescata dall’album “The Works“. Molte di esse suonano notevolmente diverse dalle versioni incluse in “A Kind Of Magic”, così come riportato nelle note interne del disco stesso. I Queen decisero infatti di non ripetere quanto fatto sei anni prima con la colonna sonora di “Flash Gordon“: con l’aggiunta di qualche altra nuova canzone, avrebbero quindi realizzato un album vero e proprio. Da qui la pubblicazione, nel giugno ’86, di “A Kind Of Magic”, dodicesimo album da studio dei Queen che, come il precedente “The Works”, volò al 1° posto della classifica inglese. Quattro mesi dopo uscì nelle sale “Highlander”, nel quale i fan dei Queen poterono quindi ascoltare le versioni iniziali di molte delle canzoni che avevano avuto già modo di apprezzare sull’album. Vediamone adesso le differenze.

Quella che su “A Kind Of Magic” è la canzone conclusiva, Princes Of The Universe, nel film ne accompagna invece i titoli di testa. Rock potente, drammatico & epico scritto da Freddie Mercury, Princes resta una delle mie canzoni preferite dei Queen; superbamente disinvolta la parte vocale, eccellente l’arrangiamento fra musica & cori, da antologia l’interludio di chitarra in chiave speed-metal. Il video di Princes Of The Universe, girato dallo stesso Mulcahy così come quello di A Kind Of Magic, figura diverse scene del film e la partecipazione attiva di Christopher Lambert, che duella con quello che a distanza di tanti anni possiamo considerare il vero immortale, Freddie Mercury. Nel film, invece, possiamo ascoltare due parti distinte di Princes Of The Universe: la parte iniziale, in tempo medio-lento, che termina con grande effetto sulla parola “world”, riproposta con l’eco mentre viene introdotta la prima sequenza filmata; e quindi il solo interludio chitarristico, mentre i wrestler fanno finta di darsele di santa ragione. Manca quindi la parte in tempo veloce che possiamo apprezzare su “A Kind Of Magic”: chissà se originariamente quei due frammenti che si ascoltano nel film non fossero due brani distinti?

Scritta da May, Gimme The Prize è la canzone più metallara dei Queen: cantando il punto di vista del Kurgan, il micidiale antagonista del nostro eroe scozzese, Mercury sfodera la voce più urlante e cattiva che abbia mai messo su nastro, in un brano schiacciasassi dal pesante andamento in tempo medio (che peraltro suona simile alla base di Princes Of The Universe). Nel film, tuttavia, se ne ascolta soltanto una manciata di secondi, giusto il tempo di arrivare al primo ritornello.

queen-singolo-one-year-of-love-colonna-sonora-highlanderOne Year Of Love è invece una romantica ballata scritta da John Deacon, il mite bassista del gruppo. A parte l’appassionata prestazione vocale di Freddie, degna di nota come sempre, spicca in questa canzone l’assolo di sax di Steve Gregory (lo stesso musicista che suona il celebre assolo in Careless Whisper di George Michael); assolo che, nella versione cinematografica, suona leggermente diverso rispetto alla versione inclusa su “A Kind Of Magic”.

Sinfonica ballata d’atmosfera – dove la musica dei Queen è accompagnata dall’orchestra diretta dal compianto Michael Kamen (che in effetti è il compositore dello score vero e proprio di “Highlander”) – Who Wants To Live Forever, tema centrale della narrazione, è anch’essa diversa da quanto ascoltiamo nel film e su disco: nel primo viene cantata dal solo Mercury, nel secondo l’introduzione, parte del bridge e la frase conclusiva (che peraltro mancano dalla versione filmica) sono invece cantate dal suo autore, Brian May. Canzone molto toccante, nel film accompagna forse le sue scene più belle, e il tutto – canzone dei Queen, voce inedita di Freddie, orchestra di Kamen, paesaggi scozzesi mozzafiato, struggente storia d’amore destinata a non sopravvivere ad entrambi – giustifica un po’ tutto il film e tutta la colonna sonora.

A Dozen Red Roses For My Darling, uno pseudo techno strumentale composto dal batterista Roger Taylor, è stato pubblicato sul lato B del singolo A Kind Of Magic ma non sull’omonimo album. Su quest’ultimo trova invece spazio Don’t Lose Your Head , naturale evoluzione di A Dozen Red Roses ed interessante per l’utilizzo delle parti vocali: solista e cori per Freddie, distorte per Roger e d’abbellimento per la cantante anglocaraibica Joan Armatrading. Tutto ciò però non compare affatto nel film, dove invece ascoltiamo una versione più elaborata di A Dozen Red Roses (di gruppo, mentre il B side di A Kind Of Magic suona chiaramente come un’esibizione da solista di Taylor): siamo insomma a metà strada tra l’originale A Dozen Red Roses For My Darling e Don’t Lose Your Head e per giunta, sul finale del film, il brano sfocia nella cover di New York New York, brano reso celebre da Liza Minnelli. La versione dei Queen, che sul film si sente per meno d’un minuto e che costituisce così un medley con A Dozen Red Roses, non è presente in nessuna pubblicazione discografica ufficiale dei Queen.

Resta, infine, un’ultima canzone, la più famosa, A Kind Of Magic. Scritta anch’essa da Taylor, la versione che ha il compito di musicare i titoli di coda di “Highlander” è tuttavia la canzone che più differisce al confronto film/disco: è più lenta e, sebbene sia meno rifinita nell’arrangiamento (nelle parti di chitarra, in particolare), è ben più epica del celeberrimo hit single che resta comunque uno dei pezzi più rappresentativi dei Queen. La cosiddetta Highlander Version ha finalmente debuttato (in forma integrale) nella discografia ufficiale del gruppo con l’edizione deluxe di “A Kind Of Magic” della serie “2011 Digital Remaster”.

queen-singolo-who-wants-to-live-forever-colonna-sonora-highlanderRicapitolando, in conclusione, sull’album “A Kind Of Magic” i Queen inclusero nove brani: One Vision (singolo, novembre ’85, tratto dalla colonna sonora di “Aquila d’Acciaio”), A Kind Of Magic (singolo, marzo ’86, versione diversa da quella del film), One Year Of Love (leggermente diversa da quella del film), Pain Is So Close To Pleasure (anche in versione remix pubblicata come singolo in alcuni Paesi), Friends Will Be Friends (singolo, giugno ’86), Who Wants To Live Forever (singolo, settembre ’86, versione diversa da quella del film), Gimme The Prize (sembra identica a quanto si ascolta nel film), Don’t Lose Your Head (basata su A Dozen Red Roses For My Darling, la quale potrebbe esserne considerata il demo iniziale eseguito dal solo Taylor), Princes Of The Universe (singolo, marzo ’86, versione diversa da quella del film).

A trenta anni dall’uscita di quello che resta un film cult, “Highlander”, e dopo una ridondanza di ripubblicazioni e antologie della quale spesso ho fatto fatica a scorgerne un senso (money a parte, of course), resta ancora sorprendente per un fan dei Queen come me l’assenza dal mercato discografico di un disco intitolato, che so, “Original Soundtrack from the motion picture Highlander” o anche “The Complete A Kind Of Magic Sessions”. Il 2016 è agli sgoccioli: si dovrà attendere il 2026 per una “Anniversary Edition” del film e della sua colonna sonora? – Matteo Aceto

Stevie Wonder, “Songs In The Key Of Life”, 1976

Stevie Wonder Songs In The Key Of LifeDopo aver dedicato un post a un capolavoro della Motown come “What’s Going On” di Marvin Gaye, mi sembra opportuno citare anche un altro discone edito dalla stessa etichetta in quegli stessi anni Settanta, ovvero “Songs In The Key Of Life” di Stevie Wonder. Semplicemente tra i dischi più belli che io abbia mai sentito, “Songs In The Key Of Life” venne originariamente pubblicato nel 1976 in doppio vinile con tanto di 45 giri aggiuntivo da quattro canzoni. Insomma, ventuno brani complessivi per un’opera d’arte mastodontica, giustamente considerata da molti critici e appassionati come il miglior atto della longeva discografia di Stevie Wonder.

“Songs In The Key Of Life” è un lavoro caldo, professionale, melodico, coinvolgente, ricco d’inventiva, con bei testi (soprattutto amore, disuguaglianza sociale e diritti civili), bei cori ma soprattutto… belle canzoni a volontà! Alcune sono diventate dei grandi successi, altre hanno acquisito maggior fama negli anni a venire perché riproposte da altri artisti: ecco quindi gli straordinari singoli Sir Duke (un omaggio a Duke Ellington), l’irresistibile I Wish, la strafamosa Isn’t She Lovely e la festaiola Another Star; e ancora, la suadente Pastime Paradise (riproposta negli anni Novanta da una meteora, Coolio, che ne ha fatto una famosa versione rap), la melodica & coralissima As (riproposta da George Michael con Mary J. Blige, sempre nei Novanta) e una serie di brani che in un modo o nell’altro mi sembra di conoscere da sempre, come la magnifica Love’s In Need Of Love Today, la ballatona soul di Joy Inside My Tears, la maccartiana Ebony Eyes (sarà forse un caso che qualche anno dopo Stevie Wonder e Paul McCartney abbiano duettato in una splendida canzone chiamata Ebony & Ivory?) e la sintetica ma melodicissima Saturn. Un’altra perla, secondo me, è Ngiculela-Es Una Historia-I Am Singing dove il nostro non solo si cimenta con tre lingue differenti ma sfodera una prestazione vocale suprema.

Veramente da applausi sbucciamani le altre ballate, vale a dire Knocks Me Off My Feet, Summer Soft, la prima parte di Ordinary Pain (la seconda, affidata ad una voce femminile, è irresistibilmente funky) e If It’s Magic. Molto interessanti, e incredibilmente all’avanguardia per il sound dell’epoca, i pezzi più funk e soul: oltre alla già citata I Wish, la lunga e complessa Black Man, ad esempio, sembra anticipare le sonorità breakdance e rap degli anni Ottanta. Notevole il tocco fusion d’uno strumentale coi fiocchi, la vivace Contusion, mentre deliziosamente consolante suona il secondo pezzo strumentale in programma, il conclusivo Easy Goin’ Evening (My Mama’s Call), affidato all’inconfondibile armonica a bocca del nostro.

A proposito, qui il buon Stevie non si risparmia mai, suonando con grande padronanza e disinvoltura un po’ tutto quello che gli capita fra le mani: tastiere, sintetizzatori, pianoforte, basso, percussioni, armonica, effetti vari, oltre che una serie incredibile di cori da supporto alla sua stessa voce. Per il resto (e che resto!), il nostro si affida a preziosi collaboratori: i chitarristi Mike Sembello (quello che negli anni Ottanta riscosse una notevole popolarità col singolo Maniac, tratto dal film “Flashdance”) e il più celebre George Benson, il bassista Nathan Watts, i tastieristi Greg Phillinganes e Herbie Hancock, il sassofonista Jim Horn e tanti altri che contribuiscono con ottoni vari, percussioni assortite, arpe, organi, cori maschili e femminili.

Insomma, un album grande da qualsiasi punto di vista lo si osservi, questo “Songs In The Key Of Life”, un altro di quei titoli che non possono assolutamente mancare nella collezione d’un qualsiasi appassionato di musica. Recentemente, in occasione dei quaranta anni di “Songs In The Key Of Life”, Stevie Wonder si è lanciato in un tour internazionale dove vengono riproposte dal vivo tutte le canzoni originali del disco; chissà se ne seguirà anche una specifica riedizione celebrativa. Nel caso, avremo sicuramente modo di riparlarne. -Matteo Aceto

(originariamente pubblicato il 15 gennaio 2008)

Quando il cinema entra nei videoclip

michael-jackson-liberian-girl-immagine-pubblicaMi fa sempre un certo effetto vedere qualche attore famoso, o ancor meglio qualche divo di Hollywood, recitare una parte nei videoclip musicali. In questo caso credo che il record spetti a Michael Jackson: diversi suoi video hanno ospitato celebri attori americani, in particolare nel video di Liberian Girl (nella foto, la copertina del singolo), brano tratto del celebre album “Bad” (1987), dove c’è una parata di stelle dall’inizio alla fine davvero da antologia.

Anche il video di Ghostbusters, il celebre hit-single di Ray Parker Jr., tema della colonna sonora del film omonimo, vantava un bel cast: oltre al balletto con i quattro acchiappafantasmi originali, vale a dire Dan Aykroyd, Bill Murray, Ernie Hudson e Harold Ramis, il video figura infatti anche i vari John Candy, Chevy Chase, Danny DeVito e Peter Falk. Pure il nostro Renato Zero s’è però difeso bene: nel suo video di Ancora Qui, datato 2009, figurano infatti Manuela Arcuri, Asia Argento, Paola Cortellesi, Massimo Ghini, Leo Gullotta, Alessandro Haber, Rodolfo Laganà, Giorgio Panariello, Rocco Papaleo, Giorgio Pasotti, Vittoria Puccini, Elena Sofia Ricci ed Emilio Solfrizzi.

Infine ci sono dei grandi registi che hanno accettato di girare dei videoclip e anche in questo caso Michael Jackson ha parecchio da dire. Ecco quindi la lista di quei videoclip – che ho trovato o che ricordavo (non valgono le scene tratte dal film del quale il brano è l’eventuale colonna sonora) – che includono almeno un attore famoso o che sono stati girati da celebri registi. Ho aggiunto anche i nomi che alcuni miei lettori hanno riportato fra i commenti…

  • Lysette Anthony: in Run To You di Bryan Adams, in Looking For The Summer di Chris Rea e in I Feel You dei Depeche Mode.
  • Asia Argento: in (s)Aint di Marilyn Manson (anche in veste di regista)
  • Manuela Arcuri: in Somewhere Here On Earth di Prince
  • Dan Aykroyd: in Liberian Girl di Michael Jackson, in X Colpa Di Chi di Zucchero, e in We Are The World degli USA For Africa
  • Jim Belushi: in X Colpa Di Chi di Zucchero
  • Hugh Bonneville: in The Importance Of Being Idle degli Oasis
  • Peter Boyle: in Three Wishes di Roger Waters
  • Marlon Brando: in You Rock My World di Michael Jackson
  • Adrian Brody: in A Sorta Fairytale di Tori Amos
  • Robert Carlyle: in Little By Little degli Oasis
  • Chevy Chase: in You Can Call Me Al di Paul Simon
  • Sacha Baron Cohen: in Music di Madonna
  • Sofia Coppola: in Deeper And Deeper di Madonna
  • Geppi Cucciari: in Se Mi Ami Davvero di Mina & Adriano Celentano
  • Macaulay Culkin: in Black Or White di Michael Jackson
  • Robert Downey Jr: in I Want Love di Elton John
  • Irene Ferri: in Siamo Soli di Vasco Rossi
  • Claudia Gerini: in Amore Impossibile dei Tiromancino
  • Whoopi Goldberg: in Liberian Girl di Michael Jackson
  • Steve Guttenberg: in Liberian Girl di Michael Jackson
  • Daryl Hannah: in Feel di Robbie Williams
  • Rutger Hauer: in On A Night Like This di Kylie Minogue
  • Nicole Kidman: in Somethin’ Stupid di Robbie Williams, dove la bella Nicole duetta con lo stesso Robbie
  • Udo Kier: in Deeper And Deeper di Madonna e in Make Me Bad dei Korn
  • Christopher Lambert: in Princes Of The Universe dei Queen
  • Dolph Lundgren: in Believer degli Imagine Dragons
  • Michael Madsen: in You Rock My World di Michael Jackson
  • Debi Mazar: in diversi video di Madonna, fra cui Music
  • Brittany Murphy: in Closest Thing To Heaven dei Tears For Fears
  • Eddie Murphy: in Remember The Time di Michael Jackson
  • Mike Myers: in Beautiful Stranger di Madonna
  • Francesca Neri: in Un’Altra Te di Eros Ramazzotti
  • Brigitte Nielsen: in Make Me Bad dei Korn
  • Gary Oldman: in Love Kills di Joe Strummer
  • Natalie Portman: in Dance Tonight di Paul McCartney
  • Dennis Quaid: in Thing Called Love di Bonnie Raitt
  • Eric Roberts: in We Belong Together di Mariah Carey
  • Winona Ryder: in Here With Me dei Killers
  • Riccardo Scamarcio: in Meraviglioso dei Negramaro
  • Arnold Schwarzenegger: in You Could Be Mine dei Guns N’ Roses
  • Emmanuelle Seigner: in Hands Around My Throat dei Death In Vegas
  • John Travolta: in Liberian Girl di Michael Jackson
  • Carlo Verdone: in Meraviglioso dei Negramaro e nel già citato Se Mi Ami Davvero di Minacelentano.
  • Christopher Walken: in Weapon Of Choice di Fatboy Slim
  • Carl Weathers: ancora in Liberian Girl
  • Bruce Willis: in Stylo dei Gorillaz

Infine, gli attori protagonisti del film “La Famiglia Addams”, fra cui Anjelica Houston, Raul Julia e Christina Riccci, figurano tutti in Addams Family Groove di M.C. Hammer.

Per quanto riguarda i registi, abbiamo invece…

  • Michael Bay: per Love Thing di Tina Turner, Do It To Me di Lionel Richie, e altri
  • Tim Burton: per nel già citato Here With Me e per Bones, entrambi dei Killers
  • Jonathan Demme: per The Perfect Kiss dei New Order
  • David Fincher: per… un sacco di gente! Qui mi limito a ricordare Englishman In New York di Sting, Freedom ’90 di George Michael, Vogue di Madonna, Cradle Of Love di Billy Idol, e Love Is Strong dei Rolling Stones
  • John Landis: per Thriller e per Black Or White di Michael Jackson
  • Spike Lee: per Cose Della Vita di Eros Ramazzotti
  • Russell Mulcahy: per alcuni video dei Duran Duran, dei Queen e di Elton John
  • Roman Polanski: per Gli Angeli di Vasco Rossi
  • Martin Scorsese: per Bad di Michael Jackson
  • Julien Temple: per diversi video di David Bowie
  • Gus Van Sant: per Fame ’90 di David Bowie.

Se ne conoscete/ricordate degli altri potete scriverlo nei commenti, così come hanno fatto gli amici Liar e Marckuck, che ovviamente ringrazio [aggiornato il 21 ottobre 2018].

Queen, “A Kind Of Magic”, 1986

queen-a-kind-of-magic-immagine-pubblica-blogNella prima metà del 1985, la carriera dei Queen era in stallo e forse vi sarebbe rimasta qualche anno se la band inglese non avesse ricevuto due offerte dall’esterno che di fatto la rimise in pista alla grande. Iniziò il cantante Bob Geldof che, in procinto di lanciare l’ormai storico Live Aid, invitò i Queen ad esibirsi sul palco di Wembley, a Londra, per quello che sarà ricordato dagli appassionati rock come il set più eccitante dell’intero programma del Live Aid. Poi seguì il regista Russell Mulcahy, fan dichiarato del gruppo, che invitò i Queen ad occuparsi della colonna sonora del suo primo film, un fantasy chiamato “Highlander”.

E così i nostri si ritrovarono nuovamente assieme in studio nell’autunno del 1985, per preparare la colonna sonora del film: il primo prodotto noto al pubblico fu però una canzone che esulava dal progetto, la rockeggiante One Vision, il cui testo aveva qualche rimando all’ancora fresca esperienza umanitaria del Live Aid. Pubblicata su singolo a novembre, One Vision riportò nei quartieri alti delle classifiche la vena più metallara dei Queen, che qui si producevano in un irresistibile ed epico brano rock. Curiosamente, anche One Vision fece da colonna sonora, per un film d’azione chiamato “Aquila d’Acciaio”.
Il lavoro in studio, comunque, proseguì con rinnovato entusiasmo: se la proposta iniziale di Mulcahy era d’incidere un paio di nuove canzoni per il suo film, i Queen ne registrarono molte di più e contribuirono attivamente anche agli stessi effetti sonori che la pellicola necessitava: ad esempio, c’è una scena in cui il cavallo dell’attore antagonista, il bravissimo Clancy Brown, nitrisce… beh, quel nitrito altro non è che la chitarra di Brian May!

Le canzoni che effettivamente si ascoltano in “Highlander” sono quindi Princes Of The Universe, One Year Of Love, Gimme The Prize, Who Wants To Live Forever, A Dozen Red Roses For My Darling / New York New York e la conclusiva A Kind Of Magic, quasi tutte abbastanza diverse dalle versioni che poi saranno incluse su disco. Sì, perché i Queen decisero infine di non voler pubblicare una semplice colonna sonora – come fecero sei anni prima con “Flash Gordon” – ma, con l’aggiunta di qualche altra nuova canzone, di realizzare un album vero e proprio. Da qui la pubblicazione, nel giugno ’86, di “A Kind Of Magic”, dodicesimo album da studio dei Queen che, come il precedente “The Works” (1984), volò al 1° posto della classifica inglese. In “A Kind Of Magic”, che molti appassionati come il sottoscritto considerano il miglior album dei Queen realizzato negli anni Ottanta, trovano posto nove canzoni, fra cui One Vision e cinque originariamente concepite come colonna sonora di “Highlander”. Ma ora vediamole brevemente una ad una.

1) Si parte proprio col rock ruggente di One Vision, qui in una versione più lunga (e più esaltante) di quella pubblicata su singolo. E’ una composizione accreditata a tutti e quattro i componenti del gruppo, anticipando ciò che sarà una norma nei due restanti album da studio dei Queen, “The Miracle” (1989) e “Innuendo” (1991).

2) Segue la ben più famosa A Kind Of Magic, sorta di danzereccio pop-rock pubblicato su singolo a marzo, da sempre una delle mie canzoni preferite dei Queen. La versione di A Kind Of Magic presente in “Highlander”, che ha il compito di musicare i titoli di coda del film, è molto diversa da questo noto hit: è più lenta e, sebbene sia meno rifinita nell’arrangiamento, è ben più epica. Anche se accreditata al solo Roger Taylor, il batterista dei Queen, nella versione più nota inserita nell’album risalta l’eccellente opera di riarrangiamento effettuata dall’indimenticabile Freddie Mercury.

3) One Year Of Love, presente anch’essa nel film, è invece una romantica ballata scritta da John Deacon, il mite bassista del gruppo. A parte l’appassionata prestazione vocale di Mercury, spicca in questa canzone l’assolo di sax di Steve Gregory, che è lo stesso che suona il celebre assolo in Careless Whisper di George Michael.

4) Il pop pulsante di Pain Is So Close To Pleasure, opera del duo Mercury-Deacon, è uno dei momenti più leggeri e melodici del disco, caratterizzato soprattutto dall’alta tonalità in falsetto di Freddie. In qualche Paese, Pain Is So Close To Pleasure è stata anche pubblicata su singolo.

5) Poi è la volta d’un’altra canzone molto famosa, Friends Will Be Friends, altra creazione Mercury-Deacon: una melodica ballata pop-rock, tipica dello stile dei Queen e pubblicata anche come terzo singolo, che tuttavia col tempo mi ha un po’ stancato. Insomma, se devo pensare ai Queen, non mi viene certamente in mente Friends Will Be Friends.

6) Segue un’altra celeberrima opera dei nostri, Who Wants To Live Forever, atmosferica ballata sinfonica dove la musica dei Queen (pare che però Deacon non vi abbia suonato) è accompagnata dall’orchestra diretta dal noto Michael Kamen (al lavoro con molti altri idoli pop-rock, da Bryan Adams ai Metallica, anche sarà ricordato come il direttore d’orchestra del floydiano “The Wall“). La toccante & drammatica Who Wants To Live Forever, tema centrale di “Highlander”, è anch’essa diversa da quanto ascoltiamo nel film e su disco: nel primo viene interamente cantata da Freddie Mercury, nel secondo l’introduzione, parte del bridge e la frase conclusiva sono invece cantate dal suo autore, Brian May.

7) Ancora Brian, in grande spolvero, è l’autore del brano più metallaro dei Queen, Gimme The Prize, che canta il punto di vista del Kurgan, il tosto avversario del protagonista del film, Christopher Lambert (nel mix della canzone si possono sentire anche diversi effetti audio del film). Il brano, dal massiccio andamento medio-lento, è uno schiacciasassi dove ad una grande perizia tecnico-espressiva di May si accosta la voce più urlante e cattiva che Mercury abbia mai messo su nastro. In seguito, lo stesso Mercury e John Deacon non hanno fatto mistero di non amare questa canzone.

8) Basata su A Dozen Red Roses For My Darling, uno pseudo techno strumentale che Roger Taylor ha composto per alcune sequenze del film (è stato pubblicato anche sul lato B del singolo A Kind Of Magic), Don’t Lose Your Head è un altro brano tosto, sebbene dalle tonalità più elettroniche. Interessante per l’utilizzo delle parti vocali – solista e cori per Freddie, distorte per Roger e d’abbellimento per Joan Armatrading, Don’t Lose Your Head è un brano alquanto stradaiolo e dall’atmosfera notturna.

9) La conclusiva Princes Of The Universe, un rock potente, drammatico & epico scritto da Freddie, resta una delle mie canzoni preferite dei Queen. Superbamente disinvolta la parte vocale, eccellente l’arrangiamento fra musica & cori, da antologia l’interludio in chiave speed-metal. In “Highlander” questa canzone è stata ottimamente scelta per musicare i titoli di testa e negli Stati Uniti è stata pubblicata come singolo. Il video di Princes Of The Universe, girato dallo stesso Russell Mulcahy come anche per A Kind Of Magic, figura diverse scene del film e la partecipazione attiva del suo protagonista, Christopher Lambert, che duella con quello che è il vero immortale… Freddie Mercury.

Non c’è traccia, invece, della cover di New York New York, brano reso celebre da Liza Minnelli: la versione dei Queen, che sul film si sente per meno d’un minuto e che costituisce un medley con A Dozen Red Roses For My Darling, non è presente in nessuna pubblicazione discografica ufficiale dei Queen. Di recente, Brian May ha parlato d’una possibile futura pubblicazione della colonna sonora di “Highlander” così come la si ascolta nel film, New York New York compresa. Speriamo bene!

A parte tutto, “A Kind Of Magic” resta un album ricco & piacevole, d’ottima fattura, in grado d’accontentare tutte le frange d’appassionati dei Queen, da quelli più metallari a quelli più sensibili alle belle melodie pop. A mio avviso, i Queen avrebbero potuto fare un lavoro più teso & drammatico, a metà fra l’hard rock di Princes Of The Universe e il sinfonismo di Who Wants To Live Forever e a discapito di momenti più pop quali Friends Will Be Friends e Pain Is So Close To Pleasure. Ma in fondo, e non mi dispiace ripeterlo, questo è l’album migliore edito dai Queen negli Ottanta e, di fatto, uno dei migliori a figurare nella loro discografia. – Matteo Aceto

Pure la musica ha le sue leggende metropolitane

paul-is-dead-copertina-lifeSul mondo del pop-rock e sugli svariati protagonisti che lo compongono – vivi o morti che siano – se ne sono dette davvero di tutti i colori. Si contano così storie inventate, storie improbabili ma affascinanti, storie verosimili, storie verissime anche se difficili da credere, tutte accomunate comunque da quella voglia di rappresentare la musica e i suoi personaggi come un mondo mitico dove tutto è possibile.

Il più delle volte, a dire il vero, queste storie sono macabre o rasentano il macabro, come nel celebre caso ‘Paul is dead’. Si tratta di una delle leggende più note del rock: Paul McCartney sarebbe morto nel 1966 durante un terribile schianto automobilistico. Il resto dei Beatles avrebbe preso quindi un sostituto che, con una leggera ritoccatina chirurgica, avrebbe sostituito segretamente Paul. E’ una bufala pazzesca, ovviamente, anche se i numerosi ‘indizi’ relativi a questa morte sono suggestivi: riferimenti più o meno espliciti sull’ipotetica morte di Paul paiono trovarsi in numerosi brani beatlesiani, fra cui Yellow Submarine, Strawberry Fields Forever, With A Little Help From My Friends, Fixing A Hole, A Day In The Life, All You Need Is Love, Blue Jay Way, Don’t Pass Me By, I’m So Tired, While My Guitar Gently Weeps, Let It Be e di sicuro qualcun’altra che ora mi sfugge. Ulteriori riferimenti si trovano nelle copertine dei dischi e nelle foto riguardanti i Beatles nel periodo 1967-70: in particolare negli scatti fotografici riguardanti gli album “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” e “Abbey Road”. Per rendersene conto, basta cliccare su un qualsiasi motore di ricerca le parole ‘paul is dead’ e se ne vedranno delle belle. Tutte stronzate, ovviamente, Paul McCartney è ancora vivo & vegeto, ma soprattutto bisogna ricordare che tra il ’65 e il ’69 è stato il motore trainante dei Beatles durante la fase discografica più strepitosa dei Fab Four.

Un’altra leggenda riguarda la morte della rockstar per antonomasia, ovvero Elvis Presley, avvenuta nell’agosto 1977: pare però che nel 1981 l’FBI abbia intercettato e catalogato come autentica una telefonata fatta da Elvis a qualcuno. Pare inoltre che in pochissimi hanno visto il corpo di Elvis, anche se una schiera di fan è convinta che il proprio idolo sia stato rapito dagli alieni!

E che dire di Jim Morrison, l’istrionico leader dei Doors? Lui pure non sarebbe morto (o meglio, non sarebbe morto nel luglio 1971, nella sua vasca da bagno…), tanto che un giornalista parigino ha affermato d’averlo visto & intervistato più volte negli anni seguenti. Anche in questo caso, pare che siano in pochissimi ad aver visto il cadavere di Jim…

Un’altra leggenda narra d’una setta religiosa che ce l’ha a morte con le rockstar, in particolare odia, chissà poi perché, quelle che nel nome hanno una J: così, tra il 1969 e il 1971, vengono fatti fuori Brian Jones dei Rolling Stones, Janis Joplin, Jimi Hendrix, lo stesso Jim Morrison, più una tardiva parentesi nel 1980 con John Bonham dei Led Zeppelin e John Lennon. Che dire… suggestive coincidenze.

Altri miti circondano le morti violente dei rapper americani, tra i quali Notorius B.I.G., Tupac Shakur e Jam Master Jay dei Run DMC. E’ stata la mala? La casa discografica? Il produttore? Amanti gelose? Mariti traditi? Si è detto tutto e il contrario di tutto, con i mandanti ancora in giro mentre i dischi degli artisti scomparsi continuano a fruttare bei dollaroni ai loro eredi.

Anche la vita e la morte di quel gigante di Wolfgang Amadeus Mozart è attorniata da diverse leggende: in particolare, si dice che la sua morte, avvenuta nel dicembre 1791, sia stata architettata & commissionata dal compositore rivale Antonio Salieri, mentre Mozart era al lavoro sul suo celebre “Requiem”. Il bellissimo film di Milos Forman, “Amadeus” (consiglio di vederne il “Director’s Cut” del 2001) si fonda proprio su questa tesi. Facendo un salto di duecentotré anni e volando da Vienna a Seattle, scopriamo che pure la morte di Kurt Cobain è stata discussa con toni da chiacchiericcio complottistico. Si è detto che il suicidio del leader dei Nirvana altro non è che un omicidio bellebbuono… addirittura orchestrato dalla moglie, Courtney Love!

Una certa mole di chiacchiericcio riguarda la vita privata del compianto Freddie Mercury: era gay, si è sposato, ha avuto dei figli…? Quante storie: Freddie ha frequentato per anni Mary Austin, alla quale è stato sempre legatissimo, al punto da lasciarle la sua splendida villona al momento della morte e parte dell’eredità. Freddie era gay, questo sì, non si è mai sposato e non ha mai avuto dei bambini. Sempre a proposito di Mercury, negli anni Novanta si vociferava una sua presunta love story col celebre ballerino russo Rudolf Nureyev. Questi avrebbe dichiarato, all’indomani della scomparsa del leader dei Queen: ‘pioveva e io piangevo la morte del grande Freddie Mercury’. Pare che Nureyev scrivesse Eddie invece di Freddie nelle sue lettere indirizzate al cantante; qualcuno, ancora con gusto macabro, ha fatto notare che i due artisti sono morti a pochi anni di distanza l’uno dall’altro a causa della stessa malattia, l’AIDS.

Altre leggende sono invece decisamente più ingenue o addirittura comiche: lo sapevate che nel 1987, nel pieno d’una guerra legale per il nome Pink Floyd, Roger Waters si fece confezionare ben cento rotoli di carta igienica con la faccia di David Gilmour stampata su ogni strappo?! Chi può dirlo, potrebbe anche essere vero. E che dire della soffiata che Yoko Ono avrebbe fatto alla polizia giapponese per far arrestare Paul McCartney (ancora lui, poveraccio…) all’aeroporto di Tokyo nel 1980? Sembrano decisamente fondate, al contrario, queste altre dicerie: in alcuni dischi di Den Harrow e di Corona la voce che ascoltiamo non è quella dei due nomi in questione (ad esempio, in The Rhythm Of The Night, il celebre hit di Corona degli anni Novanta, era in realtà cantato da Jenny B.); Andrew Ridgley non facesse un benemerito ‘c’ durante l’incisione delle canzoni dei Wham!George Michael stava in studio mentre Andrew se ne andava a spasso sulle Ferrari!

Per quanto mi riguarda, le leggende che più mi appassionano sono le presunte collaborazioni musicali fra gli artisti più disparati e la genesi stessa di certi dischi e/o canzoni. Vediamo qualche caso: non è vero che Syd Barrett dei Pink Floyd partecipi a What’s The New Mary Jane dei Beatles ma non è infondato che a duettare con Michael Jackson (il quale, secondo un’altra nota leggenda, dormirebbe in una camera iperbarica per mantenersi giovane) in In The Closet vi sia Madonna (accreditata sull’album “Dangerous” come Mystery Girl… se ci fosse stato scritto Material Girl forse non avremmo avuto dubbi!). Pare che i brani più rappresentativi di Led Zeppelin e Queen, rispettivamente Stairway To Heaven e Bohemian Rhapsody, siano delle messe nere suonate al contrario. Premesso che non mi va di rovinare il mio giradischi, la mia puntina ma soprattuttto i miei amati elleppì, non potrei fregarmene di meno se quelle due fantastiche canzoni contengano dei messaggi inneggianti al demonio. Belle come sono, quelle due canzoni potrebbero anche contenere degli insulti verso di me… sarebbero belle lo stesso!! C’è chi sostiene, invece, che il testo di Angie dei Rolling Stones sia un inno d’amore verso Angela, all’epoca (il 1973) moglie di David Bowie: Mick Jagger e Keith Richards, gli autori, hanno smentito dicendo che si tratta della figlia di uno dei due, ora non ricordo di chi.

Ci sono di sicuro altre leggende & dicerie sul conto di molte rockstar e compositori classici: se ne conoscete delle altre potete aggiungerle fra i commenti.

(riadattamento d’un post del

Queen: storia e discografia

queenQueen si formarono nel 1970 a Londra, dalle ceneri degli Smile, gruppo più o meno progressive dove già militavano Brian May (chitarra, piano e voce) e Roger Taylor (batteria e voce). Con l’arrivo di Freddie Mercury (voce e piano), la band cambiò quindi nome in Queen. Nel corso del ’71, infine, entrò un bassista in pianta stabile, il mite ma affidabile John Deacon, e finalmente i Queen poterono avviare il loro corso musicale.

Tutti e quattro i componenti del gruppo iniziarono a comporre nuove canzoni, ripescandone alcune dal periodo degli Smile e alcune dal periodo di Freddie con gli Ibex e i Wreckage, le sue formazioni precedenti. Intanto i Queen firmarono per la EMI che, soltanto nel luglio ’73, si decise a pubblicare il primo album della band, l’omonimo “Queen“, anticipato dal singolo Keep Yourself Alive. Problemi con le tempistiche nei giorni di registrazione, errori di gioventù da parte del management e una certa diffidenza dei discografici ad aprire le porte a un gruppo chiamato Queen (in slang inglese ‘queen’ sta per ‘checca’), fecero apparire nei negozi un album che era già superato, sia dai concorrenti della band che dalle stesse doti compositive dei propri membri.

L’album successivo, il ben più ambizioso “Queen II“, segnò infatti una decisa maturazione dello stile dei nostri verso quella tipica sonorità che caratterizzerà la vita artistica di Freddie Mercury e compagni, ovvero un rock epico e teatrale, tanto melodico quanto potente. Forte d’un singolo da Top Ten come Seven Seas Of Rhye, “Queen II” riscuoterà un incoraggiante successo in patria, anche grazie alla qualità delle sue canzoni, fra le quali ricordo White Queen, Father To Son, Ogre Battle e The March Of The Black Queen. Farà comunque meglio il terzo album della band, sempre del 1974, l’eclettico e variegato “Sheer Heart Attack“, che spinto dall’imprevisto successo del singolo Killer Queen (2° posto in Gran Bretagna) si piazzò al 2° posto della classifica inglese. Questo terzo album dei nostri contiene inoltre classici come Stone Cold Crazy, Now I’m Here, In The Lap Of The Gods (Revisited) e Brighton Rock.

Il botto per i Queen giunse però nel ’75, grazie al successo di due prodotti artistici sensazionali: il singolo Bohemian Rhapsody e l’album “A Night At The Opera“, entrambi giunti al 1° posto nelle rispettive classifiche inglesi. L’album, il cui titolo è preso da un film dei Fratelli Marx, contiene anche You’re My Best Friend, I’m In Love With My Car e Death On Two Legs ed è riconosciuto dai critici come il capolavoro dei Queen.

La band replicò i fasti nel ’76 col singolo Somebody To Love (2° in patria) e l’album “A Day At The Races” (dal titolo sempre preso da un film dei Marx e ugualmente al 1° posto in classifica) ma poi dovette fare i conti con una scena rock notevolmente cambiata. L’esplosione del fenomeno punk in Inghilterra, fra il ’76 e il ’77, mette infatti in discussione i cosiddetti dinosauri del rock, cioè quelle band come Led Zeppelin, Genesis, Pink Floyd e gli stessi Queen, che avevano spinto i confini tracciati dal rock ‘n’ roll verso un’opera più complessa e dalle notevoli qualità artistiche. In un modo o nell’altro un po’ tutte le band suddette riusciranno a passare indenni ma saranno costrette a modificare non poco i propri stili sonori. I Queen ne vennero fuori più che dignitosamente, grazie ad un album auto-prodotto come “News Of The World” (1977), forte di due hit storiche come We Are The Champions e We Will Rock You, accoppiate insieme in un unico, formidabile singolo. Il ’77 si ricorda anche come l’anno in cui uscì un primo atto solista da parte d’un componente dei Queen, ovvero Roger Taylor col singolo I Wanna Testify, mentre un paio d’anni prima Mercury e May avevano partecipato alla realizzazione d’un singolo per il misconosciuto cantautore Eddie Howell.

Nel 1978 i Queen ritrovarono il produttore Roy Thomas Baker – col quale avevano realizzato il fortunato “A Night At The Opera” – e pubblicarono “Jazz“, un disco fantasioso e compatto che si issò al 2° posto della classifica di casa. Impreziosito da autentiche perle quali Bicycle Race, Don’t Stop Me Now, Jealousy, Fat Bottomed Girls e Let Me Entertain You, “Jazz” resta tuttora uno degli ascolti più accattivanti nella discografia dei Queen.

Se il ’79 non vide nei negozi nessun nuovo disco da studio dei Queen (uscì però “Live Killers”, un potente doppio elleppì dal vivo), nel 1980 si vedranno ben due nuovi album nelle rivendite: “The Game”, contenente singoli strafamosi come la rockabilly Crazy Little Thing Called Love (edita già durante il ’79) e la funky Another One Bites The Dust, e “Flash Gordon“, colonna sonora elettro-ambient dell’omonimo film. Sono due lavori notevoli che esaltarono per una volta sia critica che pubblico, soprattutto “The Game” che raggiunse la vetta della classifica su entrambe le sponde dell’Atlantico. Anche sul versante live i Queen si dimostrarono in gran forma, suonando con successo praticamente ovunque e divenendo campioni d’incassi soprattutto in Giappone e in Sudamerica. Per suggellare questo momento d’oro ma anche per festeggiare i loro dieci anni d’attività comune, i Queen pubblicarono quindi “Greatest Hits” (1981) e si tolsero lo sfizio di collaborare con David Bowie, realizzando un singolo da 1° posto in classifica, la superlativa Under Pressure. Nello stesso 1981, inoltre, uscì il primo album d’un Queen solista, ancora Roger Taylor, col suo “Fun In Space”.

Per quanto riguardava il nuovo album dei Queen, invece, la band pensò bene d’esplorare le sonorità più funky e disco accennate nel precedente “The Game”: ne nacque così “Hot Space“, l’album che più si discosta dallo stile abituale dei nostri. Pubblicato nel 1982, “Hot Space” suscitò molte proteste anche da parte dei fan storici, perché sacrificava gli aspetti più rock e heavy dei Queen a favore di arrangiamenti più elettronici e danzerecci. Nonostante “Hot Space” riuscisse a salire fino al 4° posto in classifica e ad agguantare un disco d’oro, l’esperienza scottò gli stessi Queen che per un periodo di tempo preferirono separarsi in modo da dedicarsi ai vari progetti solisti. In particolare, Brian May organizzò una grande jam session con Eddie Van Halen che nel corso dell’83 si tradusse in un mini album chiamato “The Starfleet Project”, accreditato a Brian May & Friends. Freddie Mercury collaborò invece con altri artisti, fra cui Billy Squier, Michael Jackson, Rod Stewart, Giorgio Moroder e iniziò ad incidere il suo primo album solista, “Mr. Bad Guy“, che vedrà la luce solo nel 1985. Più concretamente, Roger Taylor pubblicò nel 1984 il suo secondo album solista, “Strange Frontier”, mentre John Deacon, solitamente il componente meno prolifico dei Queen, collaborò, nel corso degli anni Ottanta, con The Immortals, Errol Brown degli Hot Chocolate, Elton John e Minako Honda.

Nell’estate del 1983 i Queen ebbero però modo di ricostituirsi e di tornare in sala di registrazione: a fine anno uscì quindi lo straordinario singolo di Radio Ga Ga (al 1° posto in molti Paesi europei), seguìto nel febbraio ’84 dal robusto “The Works“, undicesimo album da studio dei nostri, che riportò meritatamente i Queen al vertice della classifica inglese, anche grazie ad altri tre bei singoli come I Want To Break Free, It’s A Hard Life e Hammer To Fall. Dopo un altro periodo di pausa nel 1985 – interrotto solo dalla trionfale apparizione al Live Aid e dall’uscita del potente singolo One Vision – i Queen tornarono alla grande nell’86 con l’album “A Kind Of Magic“, ancora un numero uno nella classifica di casa. L’album, in parte colonna sonora del film “Highlander”, figura celebri pezzi come A Kind Of Magic, Who Wants To Live Forever, Princes Of The Universe e Friends Will Be Friends e venne supportato da un entusiastico e fortunato tour in giro per l’Europa, purtroppo ricordato come l’ultimo tour dei Queen.

Il 1987 vide i componenti della band tornare ad occuparsi delle proprie carriere soliste, specialmente Freddie e Roger: se il primo realizzò su singolo la cover di The Great Pretender e prese a collaborare col soprano Montserrat Caballé per quello che sarà l’album “Barcelona” (1988), il secondo diede addirittura vita ad una band parallela, The Cross, nella quale assunse il ruolo di cantante e chitarrista ritmico. Il primo album dei Cross, “Shove It”, uscì quindi entro l’anno e figurava una canzone cantata dallo stesso Mercury, Heaven For Everyone (più tardi recuperata dai tre Queen superstiti come omaggio a Freddie). Anche Brian May iniziò a registrare del materiale solista, parte del quale figurerà nel suo primo album, “Back To The Light” (1992), ma perlopiù preferirà collaborare con altri artisti, fra i quali ricordo Black Sabbath, Steve Hackett, Holly Johnson dei Frankie Goes To Hollywood, Def Leppard, Extreme, Chris Thompson, Billy Squier e altri. In realtà in quegli anni il versatile chitarrista dei Queen visse un difficile periodo personale culminato con la morte dell’amato padre e col sofferto divorzio dalla moglie.

Il nuovo album dei Queen, “The Miracle“, giunse finalmente nel maggio ’89 e volò direttamente al 1° posto della classifica inglese, supportato da due singoli potenti e memorabili come I Want It All e Breakthru. In realtà il successo dell’album sarà tale da spingere la EMI ad estrarne altri tre singoli, The Invisible Man, Scandal e la stessa The Miracle. Tuttavia alcune dichiarazioni di Freddie alla stampa e il fatto che i Queen non intrapresero nessun tour per supportare il nuovo disco diedero il via alle prime illazioni che volevano il cantante vittima d’una misteriosa malattia, molto probabilmente l’AIDS. Sarà proprio così, purtroppo, ma le reali condizioni di salute di Mercury – che peggioreranno progressivamente – saranno avvolte da un assoluto riserbo fino al giorno prima della sua morte. Freddie preferì infatti concentrarsi sull’unica cosa che gli dava la forza di andare avanti e di esorcizzare la paura: la composizione di nuova musica. Perciò, quando “The Miracle” era ancora in fase promozionale con singoli e videoclip, i Queen già tornarono in studio per dargli un seguito.

La gestazione del nuovo album risulterà più laboriosa del previsto, sia per la carenza dell’apporto di John Deacon e sia soprattutto per le condizioni fisiche di Mercury, sempre più affaticato e debilitato. Ciononostante la band realizzò un capolavoro, quello che secondo me è il loro album migliore, “Innuendo“, il quale raggiunse la vetta della classifica inglese (così come il singolo omonimo edito poco tempo prima) all’indomani della sua pubblicazione, avvenuta nel febbraio ’91. Un album straordinario “Innuendo”, del quale ricordo le canzoni The Show Must Go On, I’m Going Slightly Mad, Headlong e These Are The Days Of Our Lives.

A dieci anni dal primo “Greatest Hits”, ecco quindi “Greatest Hits II”, pubblicato nell’ottobre ’91 e contenente i successi dei Queen del periodo 1981-1991. E’ il primo disco che comprai di persona (avevo da poco preso il mio primo stereo), il ciddì che mi farà presto appassionare alla musica dei Queen, portandomi all’acquisto di tutti i loro album nel giro d’un paio d’anni. Purtroppo, però, il 24 novembre Freddie Mercury morì nella sua villa vittoriana di Kensington, dopo aver dato ufficialmente l’annuncio sulle sue vere condizioni di salute il giorno prima, per mezzo del manager dei Queen, Jim Beach. La causa della morte di Freddie è stata una polmonite dovuta alle carenze di difese immunitarie… AIDS bastardo!

Il cordoglio per la scomparsa della voce rock più bella di tutti i tempi e per uno dei maggiori entertainer del Ventesimo secolo fu grande in tutto il mondo. Diversi esponenti del pop-rock e del metal angloamericano – Elton John, David Bowie, George Michael, Metallica, Guns N’ Roses, Paul Young, Robert Plant, Liza Minnelli e altri – omaggeranno la figura e l’arte di Freddie in un grandioso concerto svoltosi allo stadio di Wembley nell’aprile 1992, organizzato dai tre Queen superstiti come evento benefico per raccogliere fondi da devolvere alla ricerca contro l’AIDS. Lo stesso Freddie, nel suo testamento, diede l’avvio alla creazione del Mercury Phoenix Trust, un ente per la raccolta di fondi contro la terribile malattia, gran parte dei quali messi a disposizione dagli stessi crediti autoriali delle sue canzoni.

Dopo il Freddie Mercury Tribute dell’aprile ’92, i membri dei Queen procederanno da soli, con Brian May che finalmente pubblicò il suo primo disco solista vero e proprio, il già citato “Back The Light”, edito nel luglio di quell’anno e seguìto, nel ’94, da “Happiness?” di Roger Taylor (dopo aver dato alle stampe altri due album a nome The Cross), lavori discografici dedicati entrambi all’amico scomparso. Un tributo più consistente a Freddie giunse però nel ’95, vale a dire il quindicesimo album da studio dei Queen, il discusso “Made In Heaven“. Il primo album post-Mercury s’avvalse ancora dell’arte del compianto cantante, giacché raccoglieva in una nuova forma tutte quelle canzoni che, per un motivo o per l’altro, erano state escluse dagli album del gruppo nel periodo 1980-1991. Gli inediti veri e propri, tuttavia, erano soltanto cinque: la riflessiva It’s A Beautiful Day, la gospeliana Let Me Live, la struggente Mother Love, la movimentata You Don’t Fool Me e la commovente A Winter’s Tale.

Un disco che mi soddisfò appena, “Made In Heaven”, ma che comunque comprai e accettai come parte della storia discografica dei Queen. La maggior parte di tutto quello che è venuto subito dopo, come antologie d’ogni sorta, remix, cofanetti, album live, dischi e tournée con altri cantanti e bassisti, nonché canzoni vendute alla pubblicità, o mi ha lasciato indifferente o mi ha deluso come fan. La mia passione per la musica dei Queen, almeno fin dove è potuto arrivare Freddie Mercury, è rimasta tuttavia inalterata dopo tutti questi anni. E di questo non posso che essere grato anche ai signori May e Taylor. – Matteo Aceto

I supergruppi

Traveling Wilburys George Harrison Bob DylanForse il termine non suscita simpatia ma, per supergruppo, s’intende comunemente una band formata da due o più componenti illustri provenienti da altre band. La storia del rock annovera diversi supergruppi ma la loro costituzione sembra aver preso piede soprattutto dagli anni Ottanta ad oggi. Vediamone alcuni, cercando di procedere in ordine cronologico.

Il titolo di primo supergruppo sembra spettare ai Blind Faith, composti da membri dei Cream (Eric Clapton e Ginger Baker) e dei Traffic (Steve Windood), formatisi e disciolti nel 1969 con un solo album all’attivo. Poi fu la volta della Plastic Ono Band, un gruppo che John Lennon e Yoko Ono formarono insieme a Eric Clapton e a George Harrison, sebbene svolgesse un’attività occasionale tra il 1969 e il 1970. Di supergruppi pop-rock nati negli anni Settanta non me ne sovviene nessuno, credo che comunque non ve ne siano stati molti, per cui passo agli anni Ottanta.

Nel 1982 nascono i Lords Of The New Church (componenti dei Dead Boys e dei Damned), nel 1983 nascono invece i Glove (membri dei Cure e dei Siouxsie And The Banshees), nel 1984 debuttano i Dalis Car (componenti dei Japan e dei Bauhaus) e i Chequered Past (membri dei Sex Pistols e dei Blondie), nel 1985 fanno la loro comparsa i Power Station (voce di Robert Palmer e musicisti dei Duran Duran e degli Chic), mentre nel 1986 è la volta dei GTR (membri dei Genesis e degli Yes) e ancora nel 1989 degli Electronic (componenti dei New Order, degli Smiths e dei Pet Shop Boys).

Nel 1988 hanno fatto la loro prima comparsa, con l’album “The Traveling Wilburys, Vol. 1”, i Traveling Wilburys (nella foto sopra), un super-supergruppo direi, giacché formato da George Harrison dei Beatles con Bob Dylan, Roy Orbison, Tom Petty e Jeff Lynne della Electric Light Orchestra.

Passando agli anni Novanta, nel ’95 debuttano i Mad Season (formati da componenti di Alice In Chains e Pearl Jam), mentre l’anno dopo è la volta dei Neurotic Outsiders (membri dei Sex Pistols, dei Cult, dei Guns N’ Roses e dei Duran Duran). Di altri non ricordo…

Mi sembra più produttivo il decennio in corso: già nel 2000 debuttano i Damage Manual (componenti dei PiL, dei Killing Joke e dei Ministry), nel 2002 esordiscono con alcune canzoni distribuite in rete i Carbon/Silicon (componenti dei Clash e dei Sigue Sigue Sputnik) e con una distribuzione in grande stile, invece, debuttano gli Audioslave (musicisti dei Rage Against The Machine e voce dei Soundgarden). Nel 2004 è la volta dei Velvet Revolver (musicisti dei Guns N’ Roses e cantante degli Stone Temple Pilots), mentre il 2006 ha segnato il debutto ufficiale dei The Good, The Bad And The Queen (componenti dei Clash, dei Blur e dei Verve).

Nella storia della musica moderna si sono visti numerosi esempi di supergruppi costituiti apposta per un singolo evento o brano: è il caso dei Band Aid, che nel 1984 hanno pubblicato il singolo Do They Know It’s Christmas?, e degli U.S.A. For Africa, che l’anno dopo hanno pubblicato il singolo We Are The World. Entrambi nati per scopi benefici, i primi (di origine angloirlandese) sono nati dall’iniziativa di Bob Geldof e Midge Ure (che hanno coinvolto, tra i tanti, Sting, Phil Collins, Paul Weller, Paul Young, Boy George, i Duran Duran, gli U2 e George Michael), i secondi (americani) sono nati invece dall’iniziativa di Michael Jackson e Lionel Richie (coinvolgendo un cast stellare formato, fra i tanti, da Ray Charles, Stevie Wonder, Bruce Springsteen, Bob Dylan, Tina Turner, Paul Simon e Diana Ross).

Poi ci sono dei supergruppi a ritroso, nel senso che dal gruppo originario, magari anche di successo, siano usciti fuori dei componenti di altrettanto (se non maggior) successo: mi vengono in mente i Genesis (che hanno ‘generato’ Peter Gabriel, Phil Collins ma anche i Mike & The Mechanics) e i Faces (nei quali hanno militato Ron Wood, dal ’75 ad oggi con i Rolling Stones, e Rod Stewart). Ma se ci pensiamo bene anche i Beatles sono stati un supergruppo a ritroso… in quale altra band si trovano Paul McCartney e John Lennon sotto lo stesso tetto?! Per giunta con un George Harrison che diventava sempre più bravo e che, giustamente, scalpitava per avere più voce in capitolo. Questa, però, è già materia per un altro post.