Miles Davis, 26 maggio 1926

Miles DavisEra nato in Illinois, Miles Davis, nella città di Alton, il 26 maggio 1926. Trent’anni dopo già incideva per la maggiore casa discografica d’America, la Columbia, registrando per i successivi trent’anni alcuni dei dischi più belli e innovativi non solo per quanto riguarda il jazz ma anche la musica in generale. Per quanto mi riguarda, l’ascolto delle opere di Miles Davis è sempre foriero di scoperte e, soprattutto, di gioie. Più volte ne ho parlato & riparlato in questo blog, e altre volte ancora mi piacerebbe parlarne & riparlarne nei post futuri.

Finora mi sono occupato di due magnifici titoli realizzati in stretta collaborazione con Gil Evans, ovvero “Miles Ahead” (1957) e “Porgy And Bess” (1958), ai quali ha fatto seguito un album che, se possibile, si è rivelato ancora più spettacolare, “Kind Of Blue” (1959). Ho anche scritto su alcuni degli album del cosiddetto primo periodo elettrico, nello specifico “In A Silent Way” (1969), “Bitches Brew” (1970) e  “On The Corner” (1972), una trilogia di dischi che metto senza dubbio tra le cose più eccitanti che io abbia mai sentito. Molto esaltante resta anche l’ascolto di due album dal vivo registrati nel corso dello stesso giorno del febbraio 1975, ovvero “Agharta” e “Pangaea“. Della riscoperta del materiale d’archivio dell’era Columbia, iniziata nel 2011 e tuttora in corso grazie alla celebrata “Bootleg Series”, infine, ho finora parlato d’una notevole collezione chiamata “Freedom Jazz Dance” (2016).

Tornerò in seguito a ospitare su Immagine Pubblica ulteriori post sui dischi di Miles Davis. Per ora, buona lettura. E soprattutto buon ascolto. – Matteo Aceto

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Miles Davis, “Porgy And Bess”, 1958

Miles Davis Gil Evans Porgy And BessSe c’è un disco che ho ascoltato più assiduamente degli altri nelle ultime settimane, quello è senz’altro “Porgy And Bess” di Miles Davis. In effetti, pur avendo questo titolo nella mia collezione da ormai un decennio, non l’avevo mai ascoltato con così grande interesse. Un mio limite, sicuramente, ma è anche vero che la mia copia di questo illustre capolavoro fa parte in realtà d’un cofanetto del 1996, intitolato “The Complete Columbia Studio Recordings”, e riguardante le collaborazioni tra Miles Davis e Gil Evans. Il tutto in ben sei ciddì, con materiale originale inciso tra il 1957 e il 1968. Ecco, perso in oltre sei ore di musica, tra master take e versioni alternative dei molti brani così generosamente offerti, ho impiegato letteralmente anni per mettere il tutto nella giusta prospettiva.

Secondo d’una splendida trilogia di album usciti per la Columbia e realizzati – per l’appunto – assieme al fido Gil Evans, l’amico di una vita, oltre che uno dei principali nomi associati alla lunga carriera discografica di Miles Davis, “Porgy And Bess”, così come il precedente “Miles Ahead” (1957), è stato registrato a New York in sole quattro fruttuosissime sedute, nell’estate ’58. Una trilogia, come s’è detto, della quale fanno parte il già citato “Miles Ahead” e “Sketches Of Spain” (1960), i quali rappresentano tutti insieme sia uno dei picchi artistici di Miles Davis che uno dei suoi periodi discografici più amati. E anche fortunati dal punto di vista meramente commerciale.

Scritta da George Gershwin col fratello paroliere Ira Gershwin e con lo stesso DuBose Heyward, autore del romanzo originale, “Porgy And Bess” narra la storia di una comunità di afroamericani ambientata negli anni Trenta. Se l’originale è una vera e propria opera lirica, con tanto di tenori, soprani e libretto, la rivisitazione del duo Davis-Evans spicca come uno dei vertici del cosiddetto jazz orchestrale, dove alla tromba (e in certi casi al flicorno) solista di Miles fa da supporto un’intera sezione fiati comprendente altre trombe, tromboni, clarinetti, corni francesi, tuba e flauti. Non mancano tuttavia alcuni componenti della working band davisiana di quegli anni, ovvero Cannonball Adderley (alto sax), Paul Chambers (basso) e Jimmy Cobb (batteria, sebbene in alcuni pezzi gli sia stato preferito il più vigoroso Philly Joe Jones).

Per quanto riguarda i singoli brani di “Porgy And Bess”, dall’iniziale Buzzard Song, con quella sua qualità notturna che forse è anche un po’ la caratteristica di tutto l’album, si passa alla suadente Bess, You Is My Woman Now, per quindi imbattersi nel rutilante Gone, l’unico brano non presente nell’opera gershwiniana. Si tratta infatti d’un originale di Gil Evans che in qualche modo rielabora parte del tema del brano successivamente in programma. Ecco così la tenebrosa Gone, Gone, Gone, alla quale segue un autentico classico del jazz, quella Summertime per la quale Evans ha confezionato un grandioso arrangiamento che più sofisticato non si poteva. Segue a sua volta la contemplativa Oh Bess, Oh Where’s My Bess, e quindi la lirica Prayer (Oh Doctor Jesus), tesa e sospesa nella prima parte, placidamente epica nella seconda. E’ poi la volta della contemplativa, quasi pastorale direi, Fisherman, Strawberry And Devil Crab, dopo la quale sopraggiunge la dolente My Man’s Gone Now. Si procede con It Ain’t Necessarily So, il brano più squisitamente swing dell’album, con il breve passaggio lirico di Here Come De Honey Man, con l’intenso lirismo di I Loves You, Porgy e si conclude infine con la frizzante There’s A Boat That’s Leaving Soon For New York.

C’è soltanto una cosa che proprio non riesce a piacermi della “Porgy And Bess” davisiana: la copertina che, per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere annoverata QUI. Per il resto, siamo alle prese con un vero capolavoro che a distanza di sessant’anni dalla sua uscita non ha perso nulla della sua classe. – Matteo Aceto

Miles Davis, “Miles Ahead”, 1957

Miles Davis Miles Ahead Gil EvansSpesso, tra gli appassionati e gli studiosi di musica, si discute il senso delle etichette utilizzate per classificare i vari generi musicali. Considerate ora inutili perché vittime della moda del momento, ora necessarie perché aiutano a delimitare i campi, hanno senso – per quanto mi riguarda – se servono a semplificare il discorso. E’ in tal senso che mi piace etichettare come “jazz orchestrale” quello che forse è il disco di jazz orchestrale più bello di sempre, “Miles Ahead” di Miles Davis.

Primo di una splendida trilogia di album usciti per la Columbia e realizzati assieme al fido Gil Evans, l’amico di una vita, oltre che uno dei principali nomi associati alla lunga carriera discografica di Miles Davis, “Miles Ahead” è stato registrato a New York in sole quattro fruttuosissime sedute di registrazione nel maggio 1957, oltre ad una specifica seduta di overdubbing (o sovraincisione che dir si voglia) avvenuta tre mesi dopo. Una trilogia, come s’è detto, della quale fanno parte i successivi “Porgy & Bess” (1958) e “Sketches Of Spain” (1960), i quali costituiscono tutti assieme sia uno dei picchi artistici di Miles Davis che uno dei suoi periodi discografici più amati.

“Miles Ahead”, il mio preferito fra i tre, suona come una lunga ed elegantissima suite, formata sia da momenti più briosi (come l’iniziale Springville, la brubeckiana The Duke o la conclusiva I Don’t Wanna Be Kissed) che da altri più contemplativi (My Ship) se non decisamente dolenti (The Maids Of Cadiz). Il tutto suona che è una meraviglia, è proprio il caso di dirlo, per una quarantina di minuti accessibili a tutte le orecchie. Perché è questa la vera forza di un disco come “Miles Ahead”: per quanto complesso e raffinato, offre nell’insieme una resa sonora piacevole ed accattivante, che non può lasciare indifferente l’ascoltatore pur senza appesantirlo.

Il merito di tutto questo, probabilmente, è più dovuto all’arte di Gil Evans che a quella di Miles Davis, ma è pur vero che il buon Evans ha saputo cucire un vestito sonoro (formato da diciannove elementi tra trombettisti, trombonisti, clarinettisti e quant’altro) su misura per Davis, che qui è l’unica voce solista, alternandosi ora alla tromba e ora al flicorno. Insomma, se Evans può aver fatto il grosso del lavoro è pur vero che questo lavoro non sarebbe stato lo stesso se affidato a un altro solista, con una “voce” diversa. Che poi il bello delle grandi collaborazioni è proprio questo: ognuno dà il meglio di sé con l’opera finale che, una volta compiuta, suona come il perfetto amalgama dei suoi autori, dove è difficile per l’ascoltatore riconoscere chi ha fatto cosa.

Ci sarebbero tante altre cose da dire su un capolavoro come “Miles Ahead” che qui mi sono limitato a tratteggiare in base alla mia “ispirazione” del momento, tanto che ci vorrebbe ben più d’un singolo post per parlarne a sufficienza. Riascoltandolo in questi giorni, sempre con gran piacere e con vivo interesse, “Miles Ahead” ha semplicemente reclamato il suo posto in questo mio modesto blog dedicato sostanzialmente ai dischi che più amo. Avremo magari il modo di riparlarne più dettagliatamente in futuro. – Matteo Aceto

Miroslav Vitous, “Emergence”, 1986

Miroslav Vitous EmergenceTra tutti i dischi presenti nella mia collezione – e ne sono un bel po’, non sono mai riuscito a contarli tutti, rientrano comunque nell’ordine delle migliaia – uno dei più atipici è senza dubbio “Emergence” di Miroslav Vitous. Principalmente ricordato per essere stato il primo bassista dei Weather Report, il buon Vitous è qui alle prese con un imponente lavoro da solista nel suo senso più letterale: “Emergence” è infatti un album per solo contrabbasso, suonato per l’appunto dal solo Miroslav, avvalendosi tanto delle dita quanto dell’archetto, per cui le corde dello strumento sono ora pizzicate e ora sfregate nel corso dei circa quarantacinque minuti di durata del disco.

Registrato senza sovraincisioni nel settembre 1985 e prodotto da Manfred Eicher per conto della sua celeberrima etichetta, la ECM, “Emergence” è un lavoro ispirato, singolare e di grande suggestione. Nelle note di copertina, lo stesso Miroslav Vitous ringrazia “tutti i grandi musicisti con cui ho suonato, da cui ho imparato e dai quali sono stato ispirato” e ci spiega che il disco in questione rappresenta per lui il “culmine di una vita di esplorazioni tratte dal jazz, dalla classica, dal folk e da personali mondi di musica. Credo che sia musica senza confini”.

Insomma, per il suo autore, “Emergence” rappresenta il punto d’arrivo e la sintesi definitiva di oltre quindici anni di carriera come musicista professionista, e lo fa dando mostra della sua bravura, tanto espressiva quanto tecnica, con lo strumento che lo ha posto di diritto tra i grandi contrabbassisti contemporanei.

Un punto d’arrivo s’è detto, tanto che “Emergence” inizia con un brano chiamato Epilogue, piuttosto raccolto, che poi confluisce nello svolazzante Transformation; si parte da un epilogo, quindi, per poi subire una trasformazione che conduce all’Atlantis Suite, una composizione multiforme in quattro parti. Seguono così il fluire liquido di Wheel Of Fortune, l’esplicito omaggio all’opera “Porgy And Bess” di Regards To Gershwin’s Honeyman, la spigolosa cover di Alice In Wonderland, la contemplativa Morning Lake For Ever e la conclusiva Variations On Spanish Themes, ovvero una personale rivisitazione del “Concierto De Aranjuez” di Joaquin Rodrigo così come ce lo hanno raccontato Miles Davis e Gil Evans in quel monumento che è l’album “Sketches Of Spain”.

Molto tecnico eppure alla portata d’ogni orecchio, appassionato e meditativo a un tempo, solenne ma intimo, “Emergence” di Miroslav Vitous resta un ascolto sempre interessante, perfetto per concedersi una pausa di riflessione nelle prime ore della sera. A me, se non altro, piace sentirlo in quei momenti, quando il sole è già un ricordo all’orizzonte. – Matteo Aceto

Miles Davis & Jimi Hendrix: un appuntamento mancato

Tornando in tema di progetti musicali irrealizzati, vediamo ora un caso isolato, ovvero l’affascinante storia della mancata collaborazione fra due delle più luminose stelle afroamericane della musica, Miles Davis e Jimi Hendrix. Che genere di suoni avrebbe prodotto l’unione artistica di un gigante del jazz con un gigante del rock? Purtroppo non abbiamo avuto il modo di saperlo a causa della tragica morte del chitarrista di Seattle, tuttavia la storia del loro ‘appuntamento mancato’ è un argomento assai affascinante.

Preferisco però riportare alcuni brani tratti dal libro “Lo Sciamano Elettrico” di Gianfranco Salvatore (edito nel 2007 da Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri); lo studioso davisiano ha narrato con dovizia di particolari tutta la vicenda Davis-Hendrix. Eccone un sunto, precisando solo che parentesi quadre e grassetti sono miei.

Tra il ’68 e il ’69 anche Jimi Hendrix era alla ricerca di una svolta. Da tempo sognava di suonare assieme a una sezione di fiati, o su uno sfondo orchestrale. Probabilmente non gli interessava più di tanto che la formazione dei suoi sogni fosse jazzistica: voleva far viaggiare la chitarra elettrica su una trama sonora più ricca e più importante, vagheggiava la dimensione del “concerto” per chitarra e orchestra. […] Dal jazz Hendrix era attratto ma anche intidimito. Sapeva che la sua scarsa competenza in fatto di accordi e funzioni armoniche non gli consentiva di misurarsi con le strutture tipiche di quella musica. Non che di jazz fosse del tutto digiuno: aveva conosciuto da piccolissimo certe big band degli anni Quaranta che il padre amava ascoltare, […] e una notte del 1969 tenne una leggendaria jam con [John] McLaughlin, [Dave] Holland e Buddy Miles. […] Si era stancato dei musicisti del suo trio, l’Experience, mentre stimava certi jazzisti più smaliziati che non sentiva troppo lontani da lui, come [Roland] Kirk e altri, per la loro concezione delle improvvisazioni estese. […]
Miles Davis non gli era ignoto: conosceva ed ammirava quanto meno KIND OF BLUE. Davis, nello stesso periodo, stava cercando di trovare il modo di inserire la chitarra nella sua formazione, perché i tentativi fatti in studio di registrazione con Joe Beck e George Benson lo avevano lasciato insoddisfatto. Di Jimi lo attraeva moltissimo la sonorità, e doveva aver intuito, dall’ascolto dei dischi, che il chitarrista era predisposto per una musica più sofisticata. […]
Potrebbe essere stato Gil Evans il primo a parlare a Miles di Hendrix, a cui s’era appassionato fin dai primissimi dischi, adottando piano, chitarra e basso elettrici all’inizio del 1969 in BLUES IN ORBIT. […] Ma fu Betty Mabry [all’epoca giovane moglie di Miles], che frequentava personalmente il chitarrista, a spronare i due musicisti a incontrarsi. Verso l’inizio dell’estate del ’69 organizzò a casa Davis un party ad hoc, con pochi invitati selezionati: creata la giusta atmosfera, Miles avrebbe sottoposto a Jimi della musica scritta. Quella sera, però, andò a finire che Davis si trattenne in studio di registrazione: fatalità o tattica diversiva, la storia non lo dice. Tuttavia il padrone di casa aveva lasciato il suo spartito perché l’ospite gli desse un’occhiata, e poi gli telefonò dallo studio per sapere cosa ne pensasse, scoprendo solo in quel momento che Hendrix non era in grado di leggere la musica. La cosa, però, non finì lì: cominciarono a frequentarsi, entrarono in confidenza. […] Il più grande trombettista del jazz invitò più volte nella sua casa di New York il più grande chitarrista del rock a suonare e improvvisare insieme, anche per spiegargli come funzionavano certi meccanismi musicali, mostrandoglieli al pianoforte o alla tromba, oppure facendogli ascoltare un disco suo, o di [John] Coltrane. Hendrix coglieva il succo di tali lezioni e incorporava alcuni suggerimenti nei propri dichi: è Miles ad affermarlo, nell’autobiografia.
E l’affermazione è veritiera. Nell’autunno del ’69 il chitarrista aveva formato la Band Of Gypsys, e la notte del 31 dicembre 1969 il trio si era esibito al Fillmore East in un doppio concerto che scivolò tra il vecchio e il nuovo anno, aprendo un nuovo decennio musicale in cui rock e musica nera avrebbero trovato intese sempre più feconde. Davis li adorava: c’era Hendrix, c’era Buddy Miles – che diventò il suo batterista di riferimento -, e con Billy Cox al basso la musica aveva preso un orientamento spiccatamente più funky di quello dell’Experience. […]
Miles e Jimi cominciarono a scambiarsi lunghe telefonate, discutendo del loro lavoro e di una possibile collaborazione. […] E la loro amicizia non passò inosservata. Il chitarrista stava lavorando con un nuovo produttore discografico, Alan Douglas, proprietario della Douglas Records, che per lui aveva grandi progetti. Era l’uomo giusto per promuovere un incontro fra cultura afroamericana e psichedelia: aveva collaborato con [Duke] Ellington, [Charles] Mingus, Coltrane, Eric Dolphy ai suoi esordi, ma anche prodotto registrazioni di Timothy Leary, il guru dell’LSD. […] Quando seppe che Hendrix e Davis si frequentavano fiutò il colpo grosso, ritenendo di essere la persona più adatta per catalizzare una loro collaborazione. Per realizzare il progetto lavorò quattro mesi a un accordo tra la Columbia e la Warner Bros. Si decise che il disco sarebbe uscito per quest’ultima, e che avrebbe contenuto quattro brani, con i diritti equamente divisi tra i due musicisti. […] Douglas, che conosceva il fatto suo, commissionò la stesura del disco a Gil Evans: […] La soluzione sembrava prevenire ogni problema di ego. Evans avrebbe messo a punto la musica prima che le due star entrassero in studio di registrazione; con lui, Miles avrebbe trovato dalla sua parte colui che da tanti anni era il suo consigliere spirituale ed artistico, mentre Hendrix avrebbe ottenuto finalmente quel disco “barocco-blues-flamenco” a cui anelava.
Ma le cose si complicarono. Douglas sostiene che la sera stessa della seduta di registrazione, solo mezz’ora prima dell’orario previsto per iniziare il lavoro, l’agente di Miles lo chiamò per dirgli che il trombettista voleva cinquantamila dollari prima di entrare in studio. Il produttore stava per consultarsi con Hendrix, quando telefonò Tony Williams [il batterista di Davis] chiedendo la stessa cifra che voleva Miles…
La seduta fu annullata. Davis ammise poi nell’autobiografia che il disco non si realizzò non solo perché non si riuscì a far quadrare gli impegni suoi e del chitarrista, ma anche perché il compenso offertogli era troppo basso. Ma Hendrix non voleva rinunciare al propri progetto “jazzistico”. Frequentava anche la casa di Quincy Jones, e fu invitato a collaborare al suo album GULA MATARI nel brano Hummin’, di Nat Adderley. Tuttavia il chitarrista non si presentò né nelle sedute di marzo, né in quelle di maggio (al suo posto fu usato Toots Thielemans) [ecco così un altro caso di progetto irrealizzato, una collaborazione Jones-Hendrix]. Si decise di andare avanti con l’orchestra di Evans, senza Miles. […] Alla fine dell’anno il solista avrebbe dovuto cominciare le prove con l’orchestra evansiana, per poi esibirsi alla Carnegie Hall di New York, registrando il disco dal vivo. Fu anche commissionata a Mati Klarwein, l’artista che aveva ideato l’immagine di BITCHES BREW, la copertina dell’album in preparazione.
Ma in qualche modo Miles tornò in campo. Nell’agosto del 1970 i due musicisti erano entrambi in programma al Festival dell’isola di Wight, Miles il 29 e Jimi il 30, e avrebbero dovuto incontrarsi a Londra dopo il concerto del trombettista, tra un aereo e l’altro, per discutere del contenuto musicale del disco. A quello storico appuntamento Davis arrivò in ritardo – a causa del traffico, disse – e non vi trovò Jimi. Però, al suo ritentro a New York, Evans gli fece sapere che nel nuovo progetto con Hendrix (che evidentemente era stato anticipato, e a cui avrebbe partecipato anche Tony Williams, ridotto a più miti consigli) avrebbe voluto anche lui. Ma a quel punto si era già in settembre: il 18 di quel mese Hendrix fu trovato morto in una stanza d’albergo di Londra. Si dice che avesse già pronto il biglietto d’aereo: il giorno dopo sarebbe partito per New York per la prima seduta di registrazione con Miles e Gil. Invece volò via per sempre.
L’improvvisa scomparsa di Hendrix spezzò il cuore a Miles. Dominando per una volta la sua insofferenza alle convenzioni sociali e al fastidio di mescolarsi alla folla, si recò a Seattle per le onoranze funebri, il 1° ottobre 1970. Fu l’unico funerale della sua vita: non era andato nemmeno a quello dei suoi genitori. Si tormentava, era turbato, forse pentito. Più volte, negli anni, avrebbe confidato ad amici e collaboratori che il mancato progetto con Hendrix era il solo rimpianto della sua vita.

Jimi Hendrix, “Band Of Gypsys”, 1970

jimi-hendrix-band-of-gypsys-immagine-pubblicaCome ho già scritto in qualche altro post, non sono un grande fan dei dischi dal vivo, anche se a furia di sentire Miles Davis in tutto il suo fulgore elettrico mi sto ricredendo. Tra quei pochi live che ascolto con una certa frequenza & autentica gioia c’è “Band Of Gypsys”, l’ultimo album realizzato da Jimi Hendrix: un live muscoloso e sanguigno, insolitamente funky per chi conosce solo i tre album da studio realizzati dal celebre chitarrista mancino con l’Experience, tuttavia – forse proprio per questo – il suo disco migliore.

La nostra banda di zingari – registrata in presa diretta nel Capodanno ’70 al celebre Fillmore East di Nuova York – altro non è che un formidabile trio costituito dal bassista Billy Cox, dal batterista/cantante Buddy Miles e, ovviamente, dal chitarrista/cantante Jimi Hendrix. L’ultimo album realizzato da Jimi, s’è detto, dato che “Band Of Gypsys” venne pubblicato dalla Capitol nell’aprile 1970, cinque mesi prima della sua morte. La performance immortalata su disco comprende soltanto sei canzoni (in realtà il trio suonò per quattro set fra il 31 dicembre ’69 e il giorno dopo*), sei brani inediti (per l’epoca) che tracciavano una nuova direzione musicale per il chitarrista di Seattle: impelagato da vecchi vincoli contrattuali, in rotta col management, indeciso se resuscitare l’Experience, insoddisfatto e drogatissimo, Jimi concepì un modo più viscerale & terrestre di fare rock, con meno concessioni alla psichedelia e maggior apertura all’innata anima funk della musica nera, una dimensione sonora nella quale potesse fondere il rock col blues, il soul e – forse – anche il jazz orchestrale, tanto che Jimi Hendrix iniziò un ‘dialogo’ con Miles Davis e Gil Evans che s’interruppe solo con la prematura morte del chitarrista.

Dopodiché una marea d’incisioni inedite, più o meno autorizzate dalla famiglia Hendrix, di qualità non sempre eccelsa e, talvolta, di dubbia provenienza. Ad ogni modo, comunque, mi piace pensare che il vero testamento artistico di Jimi sia proprio “Band Of Gypsys”, l’opera incompiuta d’una grande carriera artistica rimasta a sua volta tragicamente incompiuta. Vediamo quindi le sei lunghe canzoni che compongono quest’album dal vivo.

Cantata da Jimi Hendrix con l’accompagnamento vocale di Buddy Miles, Who Knows è un’irresistibile escursione funk-blues di oltre nove minuti. La nerboruta linea di basso adottata da Billy Cox e l’implacabile batteria di Buddy sono la piattaforma di lancio da cui la chitarra del leader – viscerale & tagliente – parte per i suoi memorabili assoli. Ecco, basterebbero i nove minuti abbondanti di Who Knows per giustificare i soldi spesi per l’acquisto di questo disco.

Più fumosa e diradata l’atmosfera generale di Machine Gun, una delle tante canzoni rock ispirate alla guerra del Vietnam, all’epoca un inferno in pieno svolgimento. Il brano è una piccola epopea – dodici minuti e passa – dove la chitarra di Jimi, piena d’effetti e distorsioni, imita le incursioni aeree, i lanci di bombe e le esplosioni sul tormentanto suolo asiatico. Un pezzo straordinario, Machine Gun, una delle vette artistiche di Hendrix, secondo me.

Them Changes è la prima delle due canzoni presenti in “Band Of Gypsys” scritte da Buddy Miles. A lui spetta quindi il ruolo di cantante, in quello che è un soul-rock dalle forti venature blues e heavy, con un bel interludio dove la band cerca tutto l’appoggio del pubblico. A differenza dei due brani precedenti, Them Changes rientra comunque nella più canonica durata dei cinque minuti.

Power Of Soul presenta grossomodo lo schema dell’iniziale Who Knows: solida ritmica in tempo medio scandìta dal basso groovy di Cox e dalla batteria puntuale (ma divertita) di Miles, con Hendrix superbamente a suo agio con una chitarra che sembra squarciare la dimensione stessa del suono. Molto immediato il ritornello – ‘with the power of soul, anything is possible’ – quasi un mantra, per un brano che procede per emozionanti saliscendi e brevi sequenze stop/start.

Ben più convenzionale dei pezzi visti fin qui, Message Of Love è il momento più leggero del disco, suonato comunque con grande enfasi da un Jimi Hendrix che non si risparmia, soprattutto nel lungo assolo centrale. Ultimo in programma, We Gotta Live Together è il secondo contributo autoriale di Buddy Miles all’album, che conferma una dimensione più accessibile e apertissima all’interazione col pubblico, che pare gradire e divertirsi almeno quanto il formidabile trio che sta suonando.

Per concludere, “Band Of Gypsys” è un live album robusto e vitale, godibilissimo anche oggi, a quasi quarantanni di distanza dalla sua prima edizione, uno di quei dischi – evvivaddio – che è sempre un piacere spararsi a tutto volume con lo stereo.

(*se non ricordo male, esiste anche un cofanetto con l’esibizione integrale della Band Of Gypsys al Fillmore East)

Sting, “…Nothing Like The Sun”, 1987

sting-nothing-like-the-sun-immagine-pubblicaHo tutti i dischi di Sting, ovviamente, e mi piacciono tutti. Ovviamente. Però il mio preferito resta il secondo album da solista del nostro, “…Nothing Like The Sun”, che reputo anche uno dei lavori migliori pubblicati negli anni Ottanta.

Ricordo benissimo i videoclip che accompagnavano due dei singoli promozionali tratti da “…Nothing Like The Sun”, ovvero Englishman In New York e soprattutto They Dance Alone. Mioddio, sono ventunanni che conosco questa musica… e mi emoziona tuttora! Due video ma ancor di più due grandi canzoni che al Mat novenne fecero già capire che quella di Sting era musica seria & di classe e che lo stesso Sting era uno dei più grandi in circolazione, allora come oggi.

Quella musica mi è entrata nel cuore e da allora vi è sempre rimasta: è quindi con grande piacere che riporto sulle pagine virtuali di questo sito il mio punto di vista su “…Nothing Like The Sun”, a mio avviso il capolavoro discografico dello Sting solista.

Proseguendo una tradizione inaugurata col fortunatissimo “Synchronicity“, quando il nostro era ancora il leader dei Police, Sting fonde abilmente sonorità pop-rock con toni jazzistici, ballate di grande atmosfera, suoni esotici e terzomondisti, brani più dark e psicologicamente introspettivi. Ancor di più i testi delle dodici canzoni presenti in “…Nothing Like The Sun” riflettono temi sociali e umanitari, soprattutto nelle magnifiche Fragile (altro classicone stinghiano) e la già citata They Dance Alone. Non mancano però canzoni d’amore, con il tutto suonato da Sting con una schiera superlativa di musicisti ospiti, fra cui: Andy Summers (già al fianco del nostro nell’avventura coi Police), Eric Clapton, Mark Knopfler, Gil Evans e la sua orchestra, Branford Marsalis, Manu Katché, Andy Newmark e Kenny Kirkland.

1) Si parte con l’etereo pop rock esotico di The Lazarus Heart, una dolce melodia ispirata in realtà alla perdita della madre di Sting, avvenuta proprio durante la lavorazione all’album. Mi piace molto la parte vocale di Sting in questa canzone… calda, appassionata e leggermente cosparsa d’eco.

2) Be Still My Beating Heart resta una delle mie canzoni stinghiane preferite, sebbene non sia stata pubblicata come singolo. Ha un sound a metà fra Tea In The Sahara e King Of Pain, entrambe contenute in “Synchronicity”… infatti Be Still My Beating Heart sembra proprio un brano dei tardi Police, e forse non è un caso che a suonarvi la chitarra sia proprio Andy Summers. Col suo felpato ritmo pulsante alternato a sequenze più lente dove l’ascoltatore è trasportato alla deriva, Be Still My Beating Heart è uno dei brani più notevoli nel canzoniere di Sting.

3) La successiva Englishman In New York, uno dei quattro singoli estratti da quest’album, più che una canzone è ormai un autentico classico, uno dei brani più facilmente riconoscibili di Sting. Penso che la conoscano anche i sassi! Da segnalare quell’eccellente contrappunto alla voce di Sting nel corso di tutto il pezzo che è il sax di Branford Marsalis, uno dei musicisti che più hanno collaborato col nostro.

4) Anche la successiva History Will Teach Us Nothing riconduce al tipico sound dei Police: mi ricorda un po’ le atmosfere di “Ghost In The Machine”, con Sting impegnato oltre che col consueto basso anche con la chitarra, regalandoci inoltre l’ennesima grande prova vocale.

5) Seguono gli oltre sette minuti di They Dance Alone, un epico & dolente brano che è tutto un programma. Il testo è incentrato sul dramma cileno dei desaparecidos ed è anche un’esplicita accusa al regime autoritario di Augusto Pinochet; la musica è una morbida & toccante ballata, esaltata nel finale da un’ottimistica samba. Ascolto questa canzone da oltre ventanni e la reputo uno dei vertici artistici di Sting.

6) Un vertice artistico che continua con la successiva Fragile, altra celebre canzone del nostro, probabilmente il suo brano più toccante, che ha come tema la stupidità della guerra. Un testo cantato da Sting con sincero dolore, accompagnandosi abilmente alla chitarra su un soffice tappeto sonoro lievemente latineggiante.

7) We’ll Be Together è invece il momento leggero dell’album, una canzone d’amore inconfondibilmente pop che forse poco s’addice allo stile del nostro. Tutavia è un brano divertente che nell’economia complessiva di “…Nothing Like The Sun” non stride troppo. Nella bella raccolta che Sting ha pubblicato nel 1994, “Fields Of Gold”, si può ascoltare una versione precedente di We’ll Be Togheter, con la chitarra di Eric Clapton che ne conferisce un sound decisamente più rock.

8-9) Altre due canzoni d’amore, ma dai temi ben più poetici, sono le successive Straight To My Heart – che ci riconduce anche a ritmi più esotici, stavolta decisamente caraibici – e Rock Steady, che col suo morbido ritmo funky pare condurci invece in un caldo club dalle luce soffuse.

10) Segue la notturna Sister Moon, un brano di grande atmosfera che sembra la continuazione della lugubre Moon Over Bourbon Street, tratta da “The Dream Of The Blue Turtles” (1985), il primo album solista di Sting.

11) Little Wing è invece una delle più belle cover che io abbia mai avuto il piacere d’ascoltare. Originariamente scritta e incisa da Jimi Hendrix, qui Sting si fa accompagnare da un gruppo d’eccezione, Gil Evans e la sua orchestra, formata da grossi calibri come il chitarrista Hiram Bullock e il bassista Mark Egan. Una canzone magnifica, Little Wing, una grande ballata rock da sparare a tutto volume con lo stereo, soprattutto durante il superbo assolo di Bullock. Se si chiudono gli occhi sembra di volare… magnifica, magnifica, non c’è altro da dire!

12) Alla delicata The Secret Marriage, una ballata pianistica basata su una melodia di Hans Eisler, spetta il compito di chiudere questo grande & emozionante album del quale ho cercato di scrivere alla bellemmeglio un ritratto a parole. Se non lo conoscete, andate subito ad ascoltarvi “…Nothing Like The Sun” che è meglio!

Per concludere, alcune note tecniche per i lettori più fanaticoni di questo blog: la versione originale in vinile di “…Nothing Like The Sun” uscì in doppio elleppì, con tre canzoni per ognuna delle quattro facciate complessive. Un modo un po’ scomodo per ascoltarsi quello che certamente non è un album dalla lunga durata, di sicuro però così facendo si è evitato di tagliare alcune canzoni per farle entrare tutte nelle due facciate d’un singolo elleppì. La versione italiana uscì con i testi tradotti nella nostra lingua, mentre nel 1988 Sting pubblicò per fini benefici un mini album intitolato “…Nada Como El Sol” e contenente cinque brani tratti da questo album ricantati in spagnolo e in portoghese. – Matteo Aceto