Erano anni che non sentivo la mia copia di “Abacab”, l’undicesimo album da studio dei Genesis, pubblicato originariamente nel settembre 1981. Di recente ho avuto modo di riascoltarmelo sia in auto e sia con lo stereo di casa e devo ammettere che, per quanto possa suonare musicalmente datato, resta ancora coinvolgente & godibile dopo tutti questi anni. Forti del loro primo numero uno nella classifica inglese degli album con “Duke” (marzo 1980), i Genesis bissarono quel clamoroso successo già l’anno successivo, con “Abacab” per l’appunto: da lì in poi sarà una costante per tutti gli album del gruppo e per molti di quelli pubblicati dai solisti, almeno fino ai primi anni Novanta
L’album inizia proprio con la coriacea Abacab, che resta probabilmente il più mirabile esempio della nuova strategia compositiva dei Genesis: ormai stabilmente un trio formato da Phil Collins (voce e batteria), Tony Banks (tastiere) e Mike Rutherford (basso e chitarra), i tre presero ad improvvisare tutti assieme in studio e quindi a vedere un po’ che cosa se ne potesse ricavare in termini di canzoni. Nel caso di Abacab, una composizione accreditata a tutti e tre i musicisti coinvolti, siamo alle prese con sette minuti buoni di esplosiva miscela a base di pop, rock, funk e progressive. Davvero notevole.
Il brano successivo, No Reply At All, introduce una vera sezione fiati, quella degli Earth Wind & Fire, in un brano dei Genesis accreditato come un’opera comune ma chiaramente pilotato da Phil Collins. Trovo magnifico il break a 2′ e 44” dall’inizio, dove il tempo rallenta notevolmente e Phil sfoggia al meglio quello che diverrà presto un suo marchio di fabbrica, ovvero una voce tagliente come un bisturi.
Composta dal solo Banks – e si sente – la successiva Me And Sarah Jane ripropone in sei minuti quella struttura progressive tanto cara ai nostri; progressive che in realtà non è mai stato messo completamente da parte nel corso della lunga vicenda artistica dei Genesis. La stessa cosa potrebbe dirsi d’un lungo e composito brano che compare più tardi, Dodo/Lurker, meno melodico di Sarah Jane ma più teatrale e heavy per quanto riguarda l’arrangiamento complessivo, forte anche di accenni reggae in alcune sezioni.
La serrata Keep It Dark, non troppo memorabile a onor del vero, vanta se non altro una prestazione vocale da parte di Collins davvero degna di nota. C’è chi comunque ritenne Keep It Dark, con quel suo ritmo irregolare e sincopato, talmente appetibile da farla pubblicare anche su singolo. E se con l’isterica Whodunnit? sprofondiamo al punto più basso di “Abacab” (ma voglio credere che l’inserimento d’un brano come questo, nato chiaramente da un’improvvisazione in sala d’incisione come gran parte dell’album, sia stata una mossa autoironica), con la canzone successiva siamo al cospetto non solo del punto più alto dell’album ma anche di una delle canzoni più belle dei Genesis. Stiamo parlando di Man On The Corner, una ballata scritta dal solo Collins e interpretata come solo lui sapeva fare, tant’è vero che sembra “rubata” al suo album “Face Value” (febbraio 1981). Molto bello il bridge che inizia a 2′ e 18” dall’inizio, direi toccante, mentre il testo sembra anticipare quello che sarà il tema della canzone più famosa di Phil, Another Day In Paradise, grande hit del 1989.
Accreditata al solo Rutherford, Like It Or Not mostra invece un’evidente sensibilità blues, caratteristica non troppo comune nel vasto canzoniere dei Genesis. E se l’introduzione quasi ambient di Another Record sembra promettente, la canzone vera e propria resta invece la più debole di tutto l’album. Non una grande chiusura, questa Another Record, ma forse non è stata messa lì a caso, tanto per portare il disco alla canonica lunghezza dei quaranta minuti quando il gruppo aveva ormai perso la sua ispirazione migliore. Il semplicistico titolo del brano (“un altro disco”, “un altro pezzo” ma anche “un’altra registrazione”) parrebbe indiziare in tal senso.
Autoprodotto dagli stessi Rutherford, Collins e Banks col sensibile supporto tecnico di Hugh Padgham (che dal successivo album in poi sarà accreditato come produttore effettivo), “Abacab” non è certo il disco perfetto dei Genesis ma resta quanto meno uno dei più solidi e divertenti sfornati dalla band inglese. E dopo trentasette anni non è certamente poco.
Vale la pena segnalare, infine, una peculiarità della copertina: certamente non bella (anzi, la si potrebbe forse includere tra QUESTE), è stata pubblicata con lo stesso schema grafico ma con colori diversi. Credo che ne esistano almeno quattro, probabilmente anche legate ai diversi formati via via disponibili dell’album (vinile, cassetta, ciddì, ciddì remaster, eccetera). La copertina della mia copia, una ristampa Virgin del 1994, debitamente remasterizzata, è appunto quella che compare nella foto sopra. Credo che sia comunque la più comune. – Matteo Aceto
PS: nel post ho volutamente inserito, oltre all’anno, anche il mese d’uscita degli album citati. E’ impressionante notare come Phil Collins, in soli diciotto mesi, abbia dominato da solo o con i Genesis la classifica del suo Paese con ben tre album. Non può essere semplicemente un caso e non può essere soltanto fortuna.