Billie Holiday, “Lady In Satin”, 1958

Billie Holiday Lady In Satin immagine pubblica blogPenultimo album registrato da Billie Holiday ma ultimo a essere stato pubblicato – nel giugno 1958 – quando la cantante era ancora in vita, “Lady In Satin” può essere considerato il vero testamento artistico della celebre Lady Day. Formato da dodici brani che la Holiday non aveva mai precedentemente interpretato nel corso della sua carriera, “Lady In Satin” è un album romantico, etereo, sontuosamente orchestrato, eppure decadente e avvolto in un’aurea un po’ dark, per così dire, che non dispiace affatto, anzi che contribuisce eccezionalmente alla resa sonora complessiva del disco. Sorretta dalle partiture orchestrali arrangiate e dirette da Ray Ellis, la voce di Billie Holiday è ormai irrimediabilmente segnata dalle sue travagliate vicissitudini e dai suoi stessi accessi con alcol e droghe. Ma è proprio quella voce danneggiata, fragile e a tratti stentorea, il marchio distintivo d’un disco come “Lady In Satin”, un lavoro che segnava sia il ritorno alla Columbia dopo aver cambiato tre o quattro etichette in pochi anni e sia il ritorno all’uso dell’orchestra (da quaranta componenti, in questo caso) così come quando la nostra incideva per la Decca.

Con Irving Townsend alla produzione, la Holiday, il buon Ellis e i loro collaboratori impiegarono soltanto tre giorni per incidere “Lady In Satin”, nel corso di altrettante sedute agli studi newyorkesi della Columbia che iniziavano intorno alla mezzanotte e terminavano verso le tre del mattino. Dodici le canzoni messe a punto in queste nove ore di registrazioni, la maggior parte delle quali tratta da quel leggendario Grande Canzoniere Americano (o Great American Songbook, se si preferisce) che continua ad affascinare tuttora (vedi il recente “Triplicate” di Bob Dylan, tanto per dirne uno) e dai motivi più celebri tratti dai musical di Broadway. Tuttavia, accanto a brani quali I Get Along Without You Very Well e It’s Easy To Remember, figurano anche numeri più contemporanei (per l’epoca in cui “Lady In Satin” uscì), come quel formidabile I’m A Fool To Want You di Frank Sinatra che la Holiday ha scelto come brano d’apertura di questo suo album.

Personalmente ritengo For Heaven’s Sake il pezzo più bello contenuto in “Lady In Satin”: non possono non colpire la suggestione dell’ascoltatore frasi come “un angelo intreccia le sue mani con le mie” e soprattutto “il paradiso non può essere così lontano”. Se si pensa che Billie Holiday morì nel luglio dell’anno successivo, una canzone come For Heaven’s Sake suona tristemente profetica; eppure è cantata & eseguita con una tale dolcezza e un tale gusto che il tutto sembra il più delizioso degli addii.

Non mi resta molto altro da dire, se non che “Lady In Satin” è un disco che merita di stare nella collezione di un qualsiasi appassionato della musica d’oltreoceano. Un disco che non può deludere e che, soprattutto, non può lasciare indifferenti. Io, nel mio piccolo, sono andato a comprarmi direttamente la “Centennal Edition” pubblicata dalla Sony nel 2015, in occasione del centenario della nascita di Billie Holiday. Si tratta di una bella riedizione deluxe comprendente tre ciddì: il primo contiene l’album più alcune versioni alternative, mentre gli altri due sintetizzano i tre giorni di lavorazione all’album (dal 18 al 20 febbraio ’58) attraverso take più o meno inedite con tanto di eventuali false partenze e discussioni in sala d’incisione tra Townsend, Ellis e la Holiday. Un ascolto davvero interessante, anzi prezioso, perché ci fa apprezzare ancor di più l’album originale. – Matteo Aceto

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Miles Davis, “Kind Of Blue”, 1959

miles-davis-kind-of-blue-immagine-pubblicaOriginariamente pubblicato il 28 maggio 2009, questo post è più una goffa raccolta di considerazioni personali che una recensione vera e propria. Che poi, lasciatemelo dire: ma che cosa avrà da aggiungere un post su Immagine Pubblica, scritto da un emerito sconosciuto come il sottoscritto, a proposito di un’autentica pietra miliare della musica come “Kind Of Blue”, il classico fra i classici dell’immensa discografia di Miles Davis?

Su questo disco sono state scritte pagine e pagine dai più illustri critici musicali del mondo, se non dei veri e propri libri, come quello di Ashley Khan, uno di quei libroni sul jazz che prima o poi – continuo a ripetermi ormai da troppo tempo – dovrò comprare e quindi leggere & rileggere. Un disco, questo “Kind Of Blue”, che è stato ristampato innumerevoli volte negli ultimi cinquantotto anni (compreso un bel cofanettone, nel 2008, con tanto di vinile, ciddì & divuddì… ovviamente presente nella mia collezione) e che si può trovare praticamente dappertutto, non solo nei negozi di dischi, ma anche nei centri commerciali e nelle edicole, passando per le stazioni di servizio in autostrada.

Per questo e per tanti altri motivi, mi limiterò – ora come in quel post del 2009 – a delle semplici considerazioni sull’album originale del ’59, un vero disco coi controcazzi, come direbbe lo stesso Miles Davis in quel linguaggio colorito che gli era tanto caro, suonato da un gruppo coi controcazzi: i sassofonisti John Coltrane e Cannonball Adderley, i pianisti Bill Evans e Wynton Kelly, il bassista Paul Chambers e il batterista Jimmy Cobb. E poi in “Kind Of Blue” c’è ovviamente Miles, con la sua magica tromba ma anche con tutto il suo carisma di bandleader, qui alle prese con la massima espressione del jazz modale, vale a dire un tipo di jazz acustico (l’elettrico sarebbe arrivato per Davis solo sul finire degli anni Sessanta) che, in base a semplici schemi predefiniti sulla carta, lasciava grande spazio alla libera espressione e all’improvvisazione dei musicisti.

In effetti i cinque brani di “Kind Of Blue” – l’esaltante So What (contenente quella che forse resta l’introduzione più bella di sempre in un album jazz), il brioso Freddie Freeloader, il romantico Blue In Green, l’africaneggiante All Blues e il suggestivo Flamenco Sketches – mettono meravigliosamente in luce la sensibilità artistica & la bravura tecnica d’ogni singolo musicista, in un equilibrio di gruppo che definirei pressoché perfetto. E’ un miracolo questo “Kind Of Blue”, e concordo pienamente con chi disse e/o scrisse che dev’essere stato fatto in paradiso.

Registrato negli studi newyorkesi della Columbia in sole due sessioni fra il marzo & l’aprile 1959 e prodotto da Irving Townsend, “Kind Of Blue” è un’autentica pietra miliare non solo del jazz ma soprattutto della musica in generale. Per Miles Davis fu una sorta di fatidico spartiacque: la musica che incise prima di “Kind Of Blue” fu una cosa, la musica che incise dopo fu tutt’altro. Anche la mia esperienza di ascoltatore può essere riassunta in un prima e un dopo “Kind Of Blue”, lo credereste?

-Matteo Aceto