Tears For Fears, “Songs From The Big Chair”, 1985

Tears For Fears Songs From The Big Chair immagine pubblicaGravitando ancora per un po’ attorno all’orbita dei Tears For Fears, volevo scrivere quattro parole su quello che probabilmente resta il loro album più famoso, ovvero quel “Songs From The Big Chair” pubblicato la bellezza di trentadue anni fa e che ancora oggi fa capolino in praticamente tutte le rivendite di dischi, da quelli presenti nei centri commerciali agli scatoloni degli ambulanti nei mercatini rionali.

Davvero un disco popolare, questo “Songs From The Big Chair”, è quell’album che vanta una delle più famose (e potenti) canzoni degli anni Ottanta, quella Shout che credo proprio conoscano anche le pietre. Io, che all’epoca avevo sette anni, il power-pop di Shout me lo ricordo benissimo; di fatto sono trentadue anni che lo ascolto. Che poi il pezzo tratto da “Songs From The Big Chair” che più amo è in verità un altro: Everybody Wants To Rule The World, altro singolo di successo, del quale io ricordo benissimo anche il videoclip che guardavo sul programma “Deejay Television”, in onda su Italia 1. Mi piaceva da matti quella musica irresistibilmente propulsiva abbinata alle immagini on the road di Curt Smith che guidava una Morgan.

Da “Songs From The Big Chair” vennero estratti altri tre singoli: due non proprio fortunatissimi come I Believe (un brano insolitamente soul scandito dal piano) e Mothers Talk (pulsante e rocambolesco elettrorock), e uno più celebre come Head Over Heels (un pezzo pop raggiante e corale che vanta il video più divertente per i nostri), mentre nel corso del 1986 uscì una riedizione di Everybody Wants To Rule The World chiamata Everybody Wants To Run The World, associata a una maratona benefica patrocinata da quello stesso Bob Geldof che un anno prima aveva dato avvio al progetto Live Aid.

Ad ogni modo, “Songs From The Big Chair” fu un successo straordinario in tutto il mondo (1° posto in classifica nella nativa Gran Bretagna e 2° posto nella classifica USA, tanto per dire), facendo dei Tears For Fears una delle band più popolari dei pianeta. Successo che però fu mal digerito dai nostri: Roland Orzabal e Curt Smith non sono mai stati (e mai si sono sentiti) dei divi pop, e Smith in particolare ha sofferto a tal punto la popolarità da chiamarsi fuori dall’avventura Tears For Fears già dopo il tour promozionale per l’album “The Seeds Of Love“, seguito di “Songs From The Big Chair” e – manco a dirlo – terzo album di fila per i nostri a raggiungere la vetta delle charts britanniche.

Prodotto da Chris Hughes con Dave Bascombe già tecnico del suono (sarà quindi proprio quest’ultimo il produttore di “The Seeds Of Love”), l’album “Songs From The Big Chair” figura anche la maestosa The Working Hour, cantata magnificamente da Orzabal e impreziosita dal sax di Mel Collins, la frenetica Broken (appropriatamente spezzata in due, in una sorta d’introduzione e di chiusura di Head Over Heels) e la conclusiva Listen, un pezzo stranamente somigliante alla produzione dei connazionali Japan (quelli di David Sylvian, ve li ricordate?) affidato alla voce di Smith. – Matteo Aceto

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Morto anche Pete Burns, personaggio della mia infanzia

In questo tormentatissimo 2016 è venuto a mancare anche Pete Burns, eccentrico cantante inglese, leader dei Dead Or Alive, quelli di You Spin Me Round (Like A Record), un grande successo pop del 1985 che probabilmente conoscono anche i sassi.

Quel cantante e quella canzone io me li ricordo perfettamente proprio fin dal 1985, quando seguivo un programma televisivo pomeridiano chiamato Deejay Television, in onda su quella che all’epoca era una nuova rete televisiva commerciale, Italia 1. A quel tempo non sapevo che dietro Italia 1 ci fosse un personaggio discutibile come Silvio Berlusconi, anche se Deejay Television mi mostrava dei personaggi non meno inquietanti, gente come Claudio Cecchetto e Jovanotti.

Ad un bambino di sette anni come me, tuttavia, interessavano soltanto le “canzonette” che mi faceva vedere/ascoltare Deejay Television, mentre aspettavo il mio programma televisivo preferito, Bim Bum Bam, sempre su Italia 1. Tra quelle “canzonette”, per l’appunto, in un giorno imprecisato del 1985, spunta la travolgente You Spin Me Round (Like A Record), una sorta di power-pop in chiave disco che era praticamente impossibile ignorare, tanto era coinvolgente. Restavo incollato allo schermo anche perché, epica-sonorità-pop-a-tutto-gas a parte, quel potente vocione che cantava il tutto usciva fuori da un personaggio a dir poco bizzarro: capelli lunghi ma sparati come se avessero preso la scossa, con una benda da pirata sull’occhio, vestito come una geisha, inequivocabilmente effeminato.

Un personaggio del genere, che all’epoca non sapevo nemmeno che si chiamasse Pete Burns, era impossibile non guardarlo con gli occhi sgranati. Quell’immagine così insolita, abbinata ad una canzone così potente come You Spin Me Round (la cui musica, come molti anni dopo uno dei produttori ebbe a rivelare, era basata su La Cavalcata delle Valchirie di Richard Wagner) era un mix davvero ad effetto, tanto da diventare – giustamente – un successo d’alta classifica a livello internazionale, oltre che uno dei pezzi più rappresentativi del pop anni inglese anni Ottanta. Se volessimo compilare un campione della musica commerciale di quegli anni, infatti, un pezzo come You Spin Me Round dei Dead Or Alive non dovrebbe e né potrebbe mancare.

Così radicato nei miei ricordi di quegli anni, un cantante come Pete Burns è stato sempre per me un personaggio legato alla mia infanzia, un personaggio come George Jefferson (il protagonista di una serie televisiva che adoravo, I Jefferson), come il comandante Lassard della “Scuola di Polizia”, come Slimer di “Ghostbusters”, come i mitici robottoni giapponesi della serie “Mazinga”.

Tanti anni dopo, quando mi sono appassionato alle vicende musical-professionali di Wayne Hussey, sia come chitarrista/autore dei Sisters Of Mercy che come fondatore dei Mission (due band inglesi che da allora ho sempre amato) sono tornato ad “incrociare” Pete Burns. Venni infatti a sapere che il buon Wayne, prima appunto di entrare nei Sisters Of Mercy, era stato proprio un componente dei Dead  Or Alive. Andai quindi a curiosare – finalmente – anche nel repertorio di questi ultimi, scoprendo così che era proprio Hussey a duettare con Burns nella cover di That’s The Way (I Like It) e in Misty Circles. Insomma, in un modo o nell’altro, tutto torna sempre a quadrare tra i conti che la mia curiosità musicale mi ha fatto aprire in tutti questi anni.

Pete Burns è morto ieri, anche lui, dopo tanti altri che ormai cominciano a diventare pure troppi. E’ una questione generazionale, ovviamente, prima o poi tocca a tutti. Vederne morire ancora un altro è pur sempre un leggero dolore (che però io non so più sopportare, per dirla alla battistimogolesca maniera). – Matteo Aceto

Le visioni televisive del giovane Mat

bim bum bam, paolo bonolis, immagine pubblica blogNegli ormai lontani anni Ottanta, quand’ero un bambino biondissimo & pieno d’entusiasmo, vedevo un sacco di cartoni animati. La maggior parte su Italia 1 e Rete 4, e in particolare nelle trasmissioni “Bim Bum Bam” (condotto dai giovani Paolo Bonolis e Licia Colò) e “Ciao Ciao” (mi pare che si chiamava così, ora mi viene il dubbio…), dove trovavo cartoni giapponesi a valanga. Eppure i miei cartoni giapponesi preferiti restavano quelli sugli improbabili robottoni in lotta per la salvezza del genere umano. Cartoni che venivano trasmessi in canali dalle frequenze regionali, all’interno di programmi come Junior TV e altri che ora non rammento nel titolo.

Il mio robottone preferito è stato senza dubbio Mazinga… ricordo che ce n’erano due: Mazinga Zeta e il Grande Mazinga. Ora non ricordo le connessioni fra i due, in certi episodi comparivano assieme, ma ricordo che il Grande Mazinga mi affascinava moltissimo, con la navicella-pilota di Tetsuya che entrava nella testa del robot che, a sua volta, usciva dalle acque. Un’immagine di grande potenza, drammatica & epica, che deve avermi condizionato nel profondo per quanto riguarda i miei orientamenti artistici. Ho visto molte puntate della serie di Mazinga, ma non quante avrei voluto: ai tempi, la programmazione regionale era piuttosto mutevole, io mi mettevo davanti alla tivù (della nonna paterna) al solito orario e se il cartone veniva passato era okay, altrimenti mettevo su Italia 1.

In compenso ho visto tutte, e dico tutte, le puntate della serie di Goldrake (o Ufo Robot che dir si voglia, io l’ho sempre chiamato Goldrake…), avevo perfino il mitico robottone a giocattolo, addirittura come canotto per quando andavo al mare coi miei. Vedevo anche Daitan 3 (non ho mai capito quali fossero l’1 e il 2…), Vultus 5, Voltron, e la serie dei Transformers, questa però d’origine americana. I Transformers mi piacevano tantissimo, li vedevo su Junior TV, e alcuni li avevo anche a giocattolo… un po’ tutti i miei amici li avevano, ci divertivamo a scambiarceli e a giocarci insieme. La stessa cosa può dirsi di He-Man e i personaggi della serie dei Masters.

Tornando ai cartoni giapponesi, oltre ai robottoni, fra i miei preferiti vi erano Dolce Remì, Lupin Terzo (e la procace Margot era notevole…), Mac 5 e Carletto il Principe dei Mostri. Ma c’erano altri cartoni di fantascienza, a metà fra il disegno animato e la vera ripresa filmica di pupazzoni in movimento, che mi piacevano tantissimo: uno che vedevo poco (e non per colpa mia) ma volentieri – del quale purtroppo non ricordo più il titolo – aveva a che fare con dei dinosauri-robot che viaggiavano nel tempo, o una roba simile. Anche Ulisse, ora che ricordo, una versione fantascientifica del protagonista de “L’Odissea”: mi piaceva molto, così come quel cartone con un galeone che vagava nello spazio (anche qui… niente nome…).

Vedevo pure diversi altri cartoni che non apprezzavo particolarmente ma che guardavo come passatempo, accendendo la tivù dopo aver fatto i compiti durante le fredde giornate invernali: cose tipo Holly e Benji o Hello Spank, anche alcuni di quelli destinati soprattutto alle femminucce, tipo Heidi, Lady Oscar, Candy Candy e Occhi di gatto.

C’erano anche dei cartoni europei, che apprezzavo comunque parecchio: l’Ispettore Gadget, che trovavo sempre molto buffo & divertente, e quelli educativi sul corpo umano… non ne ricordo il titolo, il disegno era francese se non erro, la versione italiana era doppiata da Cristina D’Avena. I Puffi mi stavano un po’ sulle scatole, preferivo Asterix & Obelix, che comunque non ho seguito granché.

Un cartone americano che apprezzavo da matti erano gli Acchiappafantasmi: non i Ghostbusters, quelli derivati dal celebre film di Ivan Reitman dell’84, bensì quelli che viaggiavano su una sgangherata auto d’epoca, con a bordo un biondino dal naso aquilino e uno scimmione col cappello. Anche i chipmunk della serie di Alvin mi piacevano, tranne quando si mettevano a cantare… non ho mai gradito quelle canzoni stravolte nella parte vocale!

L’ultimo cartone che ho seguìto è stato Denver, il dinosauro fighetto con la chitarra elettrica: me lo ricordo bene, era il 1988, lo davano su Italia 1. Poi, da qualche parte in quel 1988, ho di colpo perso l’interesse per i cartoni*…. e avevo solo dieci anni! Avevo scoperto i Beatles e stavo cominciando a seguire come si deve il campionato mondiale di Formula 1… due passioni – Beatles & Ferrari – che palpitano tuttora nel mio cuore.

Sono sicuro d’aver dimenticato di citare altri bei cartoni che vedevo, in quei colorati anni Ottanta. Per ora questi possono bastare, magari più in là – anche col vostro aiuto, se vorrete – aggiungerò qualche altra riga sull’argomento. – Matteo Aceto

(*tranne quelli della Disney!)

Pet Shop Boys

pet-shop-boys-immagine-pubblicaFin da bambino, diciamo da quando guardavo un programma chiamato “Dee Jay Television” su Italia 1, conosco questo nome, Pet Shop Boys, ricordandomi perfettamente alcuni loro successi degli anni Ottanta (It’s A Sin, West End Girls, la cover di Always On My Mind e Domino Dancing). Devo dire che mi sono sempre piaciuti i Pet Shop Boys, apprezzavo molto quelle epiche sonorità elettroniche unite a quella voce leggermente nasale ma assolutamente inconfondibile. I loro album di quegli anni li ho tutti, quelli successivi mi mancano perché le mie orecchie hanno prestato interesse ad altre sonorità. Tuttavia, una parte del mio cuore è stata sempre riservata ai Pet Shop Boys, perciò ora mi preme di scrivere le loro gesta in questo blog.

Dunque, la band, un duo inglese composto dal tastierista Chris Lowe e dal cantante Neil Tennant, si forma al principio degli anni Ottanta: i due si erano conosciuti in un negozio di materiale elettronico, forse perché lo stesso Lowe ne era il commesso (di quest’ultimo dettaglio non ne sono certissimo, comunque). Adottano il nome Pet Shop Boys anche perché, a detta loro, aveva un che di rap… ed è proprio una sorta di rap (su una irresistibile base elettronica) il loro primo singolo, West End Girls, brano che è ormai diventato un classico degli anni Ottanta. West End Girls uscì per la prima volta nel 1984 ma non ottenne il risultato sperato, mentre una successiva rielaborazione, pubblicata nel corso del 1985, lo proiettò al 1° posto della classifica inglese. Il debutto su album dei nostri, tuttavia, avvenne l’anno dopo, con l’album “Please”, al quale fece seguito qualche mese dopo un album di remix, “Disco”. Oltre al rifacimento di successo di West End Girls, “Please” contiene altri tre singoli memorabili quali Suburbia, Opportunities (Let’s Make Lots Of Money) e Love Comes Quickly.

I successi dei Pet Shop Boys nelle due classifiche riservate ai singoli e agli album vengono replicati nel 1987, con la superba It’s A Sin e l’album “Actually”, che la contiene. Questo secondo album dei Pet Shop Boys include pure i singoli Rent, What Have I Done To Deserve This? (un duetto con Dusty Springfield) e Heart, oltre a It Couldn’t Happen Here, una collaborazione dei nostri con Ennio Morricone.

Nel 1988 i Pet Shop Boys, sempre all’avanguardia in fatto di sonorità, abbracciano la nascente scena house e pubblicano un album di gran classe a dir poco sbalorditivo, “Introspective”, mentre nel lavoro successivo, “Behaviour” (1990), introducono degli arrangiamenti per vere orchestre, percussioni e chitarre (gli ospiti più illustri sono il compositore Angelo Badalamenti e l’ex Smiths Johnny Marr).

Nel 1991 esce una bellissima raccolta antologica, “Discography”, contenente i diciotto singoli inglesi pubblicati fra il 1985 e il ’91, mentre nel 1993 i Boys tornano alla grande con l’album “Very”, quello contenente il famoso rifacimento dei Village People, Go West. Nel 1994 esce un secondo capitolo dedicato ai remix, vale a dire “Disco 2”, mentre nel ’95 è la volta di “Alternative”, un’interessante doppia raccolta dedicata ai lati B dei singoli e agli inediti.

Nel 1996 esce quindi il sesto album dei nostri, “Bilingual”, anticipato dal singolo Before. “Bilingual” è un disco assai gradevole che strizza l’occhio al nascente revival (almeno in Europa) della musica latina ma è anche l’ultimo album dei Pet Shop Boys a destare curiosità anche fra i non appassionati al genere. Da questo punto in poi, infatti, la carriera dei Pet Shop Boys (che non conoscerà mai momenti bassi, questo è da dire) sarà un po’ più ‘sotterranea’ e dedicata ad un pubblico più ristretto. Il seguito di “Bilingual” vede la luce nel 1999, ovvero “Nightlife”, quello contenente la malinconica ma bellissima I Don’t Know What You Want But I Can’t Give It Anymore e l’allegra e villagepeoplesca New York City Boy.

Nel 2002 è la volta di “Release”, un album che esplora territori più acustici, mentre nel 2005 esce la colonna sonora curata dagli stessi Pet Shop Boys per lo storico film muto “La corazzata Potemkin”. Il nuovo album da studio dei nostri, “Fundamental”, esce invece nel 2006, un disco che ci riporta a sonorità volutamente più retrò. Negli ultimi anni, tuttavia, sono uscite diverse compilation interessanti, fra le quali la stupenda doppia raccolta antologica “PopArt” (2003), il terzo album di remix “Disco 3” (2003) e il live “Concrete” (2006).

C’è da segnalare, infine, la carriera parallela dei Pet Shop Boys, vale a dire quella di scrittori, produttori e remixer di canzoni per altri artisti: qui mi limito a citare gli Eighth Wonder di Patsy Kensit (quelli di I’m Not Scared), Tina Turner, Liza Minnelli, Boy George, David Bowie e Robbie Williams. – Matteo Aceto

Tears For Fears: storia e discografia

tears-for-fears-immagine-pubblica-blogDa bambino vedevo sempre Bim Bum Bam su Italia 1, veniva addirittura condotto da Paolo Bonolis e Licia Colò. Siccome io non dormivo mai di pomeriggio e la mia trasmissione preferita iniziava alle 16, d’estate mi piazzavo davanti alla tele già verso le 14 e mi vedevo un’altra trasmissione musicale chiamata Dee Jay Television, ideata da Claudio Cecchetto se non sbaglio. Beh, fu probabilmente grazie a quella trasmissione che mi appassionai alla musica. Ricordo chiaramente quando, era il 1985, iniziarono a trascrivere in basso la traduzione del testo che il cantante straniero di turno stava cantando: ricordo ancora due canzoni e due video che amavo, Russians di Sting e Such A Shame dei Talk Talk.

Comunque, fu in quell’anno e nel corso di quella trasmissione che vidi un video che mi colpì molto: Everybody Wants To Rule The World dei Tears For Fears. Vedere quel cantante in occhiali da sole che percorreva le inconfondibili strade americane a bordo di una fantastica Morgan (credo che si tratti di una Morgan, è un’auto inglese per chi non lo sapesse) mi fece già capire tutto: è quello che voglio fare da grande, dissi, cos’altro chiedere alla vita?! E la musica? Beh, quella canzone era (ed è) fantastica, un ritmo incredibilmente trascinante, una voce suadente, un assolo di chitarra perfetto… e quel nome curioso, Tears For Fears, al quale rimasi sempre legato.

Oggi sono un fan dei TFF, ho tutti i loro dischi ma soprattutto posso garantirvi che non hanno mai fatto cilecca: prendete i loro album o anche uno da solista, non ci crederete ma li hanno fatti uno più bello dell’altro, veramente. Iniziamo però dal 1980, con l’album “Acting My Age”, quando il gruppo si chiamava Graduate, un quintetto inglese proveniente da Bath. Già all’epoca, però, i membri più in vista erano Roland Orzabal (cantante, chitarrista e principale autore delle canzoni) e Curt Smith (cantante e bassista). Furono proprio questi due a fondare, l’anno dopo, i Tears For Fears che, a parte un paio di singoli pubblicati fra l’81 e l’82, debuttano nel 1983 con l’album “The Hurting”. Sorretto da singoli incredibili come Change, Pale Shelter, Mad World e Suffer The Children, questo primo album dei TFF volò al 1° posto della classifica inglese. In “The Hurting” tutte le canzoni sono scritte da Roland mentre la maggior parte di esse è cantata da Curt.

I ruoli si confondono nel successivo “Songs From The Big Chair“: l’album dei TFF più famoso, se non altro perché contiene Shout e la già citata Everybody Wants To Rule The World. Anche questo disco vola al 1° posto della classifica di casa (e in USA al 2°) ma Roland e Curt sono ragazzi semplici, l’esatto contrario della tipica pop-star anni Ottanta… davvero non c’entrano nulla con quei cliché. Del resto scelsero la musica come riparo dalle loro situazioni famigliari difficili e, soprattutto nel caso di Orzabal, per sfuggire ai propri demoni personali. La stessa espressione ‘tears for fears’, lacrime dovute alle paure, è un’espressione coniata dallo psicologo Arthur Janov, inventore della terapia del ‘primal scream’, che ebbe una notevole influenza su testi e tematiche dei nostri.

E così, in qualche modo, il gioco inizia a stancare e Curt sembra ritirarsi in se stesso. L’attività del gruppo procede quindi con Roland Orzabal che si fa carico della maggior parte del lavoro (avvalendosi di collaboratori straordinari, come Phil Collins, Pino Palladino, Neil Taylor, Manu Katché, la bravissima Nicky Holland, ecc): il disco che ne risulta vede la luce nel 1989, “The Seeds Of Love“, che secondo me rappresenta il capolavoro dei TFF nonché uno dei dischi pop-rock più belli di sempre. Supportato da quattro singoli uno-più-bello-dell’altro (Sowing The Seeds Of Love, Advice For The Young At Heart, Famous Last Words e la stupenda Woman In Chains, un duetto con la scoperta tearsforfearsiana Oleta Adams), anche questo terzo album dei TFF, manco a dirlo, raggiunge il 1° posto della classifica inglese.

Dopo tre dischi numero uno (e soldi a palate, presumo), nel 1990 Curt Smith emigra in America e decide quindi di abbandonare i Tears For Fears, lasciando Roland praticamente da solo. Nel ’92 esce così la prima raccolta dei TFF, “Tears Roll Down (Greatest Hits 1982-1992)” nella quale Roland ripropone con una nuova formula anche un B-side del 1989, Laid So Low. Il brano, pubblicato come singolo, è una delle canzoni più memorabili degli anni Novanta e la raccolta è davvero eccellente, permettendo magnificamente ad Orzabal di chiudere un cerchio.

Giunge il ’93 ed esce “Soul On Board”, il primo album solista di Curt Smith: un gran bel disco, non c’è che dire. Nello stesso anno c’è però la risposta di Roland Orzabal che pubblica a nome Tears For Fears lo stupendo album “Elemental”, supportato dal noto singolo Break It Down Again (nell’album c’è anche un’amara frecciata verso Curt, Fish Out Of Water). Nel ’95 vede la luce il quinto album dei Tears For Fears, lo splendido “Raoul And The Kings Of Spain”, sempre realizzato dal solo Orzabal. Nel 1996, intanto, Curt Smith unisce le forze al polistrumentista Charlton Pettus e fonda un nuovo gruppo, i Mayfield: il primo album omonimo dei Mayfield esce nel ’98 e… mi manca, non riesco a trovarlo… dovrei provare con eBay. Tra il 1999 e il 2000, tuttavia, Curt pubblica un mini album a suo nome, ovvero “Aeroplane” (anche per questo… vale quanto scritto per “Mayfield”). In questo periodo, comunque, Roland e Curt si riavvicinano, hanno modo di chiarirsi e in seguito anche di scrivere nuove canzoni.

Nel 2001 esce “Tomcats Screaming Outside“, il primo album a nome Roland Orzabal: è stato inciso nel 2000 ma la casa discografica voleva pubblicarlo a tutti i costi a nome Tears For Fears. Roland ha tenuto duro, l’ha fatto uscire per una piccola etichetta, la Eagle, e si è tolto la soddisfazione personale d’aver realizzato uno dei dischi più belli di questo decennio. Nel 2002, finalmente, prende avvio la lavorazione del nuovo, vero album dei Tears For Fears, ad opera del ritrovato duo Orzabal-Smith. Il nuovo disco, “Everybody Loves A Happy Ending“, vede la luce nel 2004 (Curt, cavallerescamente, mette da parte il suo bel album solista “Halfway, Pleased“, pubblicato tre anni dopo) e contiene uno dei pezzi più belli del duo, Closest Thing To Heaven, edito anche su singolo.

Sebbene da allora la band sia stata molto attiva, soprattutto dal vivo, e soprattutto in America, non ha più pubblicato nessun disco di inediti. Qualche canzone nuova è sì apparsa di tanto in tanto in occasione dei Record Store Day e con la pubblicazione delle raccolte (vedi QUI, per esempio) ma per vedere il seguito di “Everybody Loves A Happy Ending” si dovrà attendere probabilmente il 2018 [

DISCOGRAFIA

The Hurting (1983)

Songs From The Big Chair (1985)

The Seeds Of Love (1989)

Elemental (1993)

Raoul And The Kings Of Spain (1995)

Everybody Loves A Happy Ending (2004)

 

…vedi anche…

Rule The World: The Greatest Hits (2017)

Halfway, Pleased (2007, Curt Smith solo)

Tomcats Screaming Outside (2000, Roland Orzabal solo)