“Love” è l’album che mi ha fatto scoprire i Cult, una tosta band inglese della quale mi sto appassionando sempre di più negli ultimi mesi. Al momento ho soltanto questo disco ma credo che in breve tempo la mia collezione si arricchirà di altri titoli dei Cult. Ora però passiamo alla recensione di “Love”, pubblicato nel novembre del 1985 e comunemente inteso come l’album più celebre dei nostri.
Un breve e sommesso conteggio fino a quattro, scandìto da quattro colpi con le bacchette della batteria, e poi tutta la forza dei Cult prorompe dalle casse dello stereo. Inizia così la trascinante Nirvana, una decisa & pulsante canzone rock che già da sola merita l’acquisto di questo fantastico album! Segue Big Neon Glitter, con quel ritmo costruito attorno alla batteria di Mark Brzezicki che sembra fatto apposta per dare la possibilità al cantante Ian Astbury di liberare tutta la sua bellissima voce. Nella successiva Love, invece, la chitarra di Billy Duffy (l’autore insieme ad Astbury di tutti i brani del disco) la fa da padrona… e che padrona! Viscerale, tosta, avvolgente, mentre le sezione ritmica procede implacabile e Astbury canta come se stesse rendendo l’anima al demonio.
Le acque si placano con Brother Wolf, Sister Moon, un maestoso lento d’atmosfera che si apre con ben tre chitarre differenti (sono tutte suonate dal bravissimo Duffy) e procede in un crescendo emotivo liberato dal suono della pioggia che arriva. E arriva davvero con Rain, forse il pezzo più famoso dei Cult: brano nel quale tutta la strumentazione è in bell’evidenza, compreso il basso di Jamie Stewart che forse era rimasto un po’ in ombra nei brani precedenti, anche se è quel geniale riff di chitarra a sostenere il tutto. Il finale di Rain è incandescente, la sensazione generale è inebriante, Ian canta con intensità e padronanza, tutto è perfetto in questo perfetto brano rock.
Phoenix sembra un brano dei Jimi Hendrix Experience in chiave heavy: la chitarra di Duffy è tormentata e viscerale, anzi le chitarre sono due, sovrapposte e con effetti diversi. Roba tosta. La successiva Hollow Man è invece simile nella struttura all’iniziale Nirvana ma se la musica è più dolce, il testo è più teso. Poi è la volta della rilassata Revolution, il classico brano rock da sentire mentre si guida al tramonto, magari pensando che da qualche parte stia accadendo una liberatoria rivoluzione. Il trascinante rock (vagamente orientaleggiante) di She Sells Sanctuary è l’unico tra i brani di “Love” ad avvalersi del batterista originale dei Cult, Nigel Preston. All’epoca, Preston era troppo fuori per i suoi eccessi con le droghe e così, dopo aver pubblicato She Sells Sanctuary come primo singolo in maggio, la band continuò il lavoro in studio rimpiazzandolo col versatile batterista dei Big Country, il già citato Brzezicki. Infine, alla struggente ballata celtica di Black Angel viene affidato il compito di concludere quello che secondo me resta uno dei dischi migliori usciti negli anni Ottanta.
Una raccomandazione finale: ascoltare “Love” con lo stereo, possibilmente un buon impianto, possibilmente sparandolo a tutto volume. Questo non è un facile dischetto da ascoltarsi con le misere cuffiette di walkman, lettori mp3 o affini, ma un lavoro potente che si merita due generose casse acustiche.