David Sylvian, un interesse per me immutato: e ritornano i vinili 1984-1991

David Sylvian 60 anni, vinili 2019Uno dei pochi autori pop che non m’annoiano, anzi, uno dei pochi a sembrarmi più rilevante col passare degli anni, David Sylvian, compirà sessantuno anni il 23 febbraio. Per l’occasione, la Universal – che già da qualche anno aveva acquisito gran parte del catalogo storico dell’artista inglese – distribuirà attorno a quella data nuove stampe in vinile degli album “Brilliant Trees” (1984), “Alchemy – An Index Of Possibilities” (1985), “Gone To Earth” (1986) e “Secrets Of The Beehive” (1987), mentre per quanto riguarda il collaborativo “Rain Tree Crow” (1991) si dovrà aspettare il 29 marzo.

Stando alla pagina facebook ufficiale di David Sylvian, e precisamente in un post dello scorso 12 dicembre, avremo delle “deluxe vinyl release” disponibili “for the first time on 180gram vinyl” e caratterizzate da una nuova e per molti aspetti inedita veste grafica. Nello specifico, per quanto riguarda “Brilliant Trees”, l’album “is now housed  in a gatefold sleeve with a printed inner bag and comes with a download card”. Per quanto riguarda invece “Alchemy – An Index Of Possibilities”, un album che la pagina in questione definisce “intermedio” e “formato da due progetti del 1985 completamente separati”, lo stesso post cita un “brand new artwork, photographs by Yuka Fujii, design by Chris Bigg, and a download card”. Questi ultimi tre aspetti, ovvero l’operato della Fujii e di Bigg e quindi il voucher per scaricarsi in mp3 il contenuto audio del vinile, valgono anche per il doppio “Gone To Earth”. Discorso leggermente diverso per “Secrets Of The Beehive”, il quale disporrà di un “new artwork based on Nigel Grierson’s original photographs, redesigned by Chris Bigg, housed in a gatefold sleeve with a printed inner bag”, oltre all’immancabile download card.

Non sappiamo ancora molto, infine, su che tipo di ristampa di “Rain Tree Crow” potremo avere fra le mani alla fine di marzo; sappiamo tuttavia che l’album “Dead Bees On A Cake” (1999), ristampato nell’ottobre 2018 e già sold out, tornerà nei negozi il 30 novembre, sempre in doppio vinile e sempre con la seguente scaletta “expanded” della quale abbiamo parlato anche QUI: Side A (1 I Surrender, 2 The Scent of Magnolia, 3 Dobro #1, 4 Midnight Sun), Side B (1 Cover Me With Flowers, 2 Krishna Blue, 3 Albuquerque (Dobro #6)), Side C (1 Thalheim, 2 Alphabet Angel, 3 God Man, 4 Café Europa, 5 Aparna and Nimisha (Dobro #5), 6 Pollen Path), Side D (1 The Shining Of Things, 2 Wanderlust, 3 All Of My Mother’s Names, 4 Praise, 5 Darkest Dreaming).

Insomma, per quanto mi riguarda, si tratta di una bella operazione di riscoperta e di rivalorizzazione del catalogo d’un grande artista, uno dei pochi personaggi “pop” a poter vantare davvero un così prestigioso appellativo. Tuttavia, contrariamente a quanto fece la EMI (il cui catalogo storico è ora nella mani della Warner Bros e della Universal) attorno il 2003, ovvero la riproposizione di tutti gli album di David Sylvian con e senza i Japan del periodo 1980-1991 in ciddì dalle edizioni deluxe con tanto di brani aggiuntivi, queste ristampe viniliche 2019 non dovrebbero contemplare brani aggiuntivi. La cosa non è però piaciuta, a giudicare dai commenti facebookiani, a diversi fan di David Sylvian, così come non tutti hanno gradito la scelta del nuovo artwork che interesserà ogni album del nostro. In un post del 14 dicembre 2018, lo stesso David Sylvian è voluto tornare su un punto evidentemente criticato dai “fans” ma che altrettanto evidentemente è invece a lui molto caro: “As the original art for my albums had been lost/destroyed on its journey from one label’s stewardship to another, I decided against scanning pristine copies of the original vinyl covers (as Universal did with the recent Japan reissues) and instead create a series that works as a ‘collection’ incorporating new photographic prints and design elements. With no budget, but access to Yuka’s archives and Chris’ design contributions, we feel we’ve created something beautifully expansive as will be evident once the set is seen in its entirety. I was fortunate enough to have retained some of Nigel Grierson’s work for ‘Beehive’ and Shinya Fujiwara provided me with whatever was missing from my personal archive for Rain Tree Crow. Gone To Earth was always going to be the cover that’d prove most contentious to meddle with but I was never personally in awe of the original plus I wanted to keep the series in a uniform monochrome. Nevertheless, if the original artwork had been available for the entire catalogue, I’d have sat this one out. To be haunted by one’s past isn’t as edifying as it might appear (?) As it was, we (mr Bigg, Yuka, myself) attempted to create a series echoing /in-keeping with the recent ‘Dead Bees’ release. We went the extra mile to give something we felt was worthy of our collective effort. It goes without saying, if you own original copies of the albums and you don’t like the approach we’ve taken, you’ve nothing to get bent out of shape about. Feels odd to remind people that purchases aren’t mandatory. As the creator of this body of work I have a personal take on what feels right to me regarding its representation. Although I’m not personally nostalgic, I do generally respect the the bond people make between image and audio (this must surely be the goal of art & design in this context). I’ve attempted to offer something that feels both contemporary whilst being true to the period in question. There’ll be no further involvement on my part in future reissues.”

E ancora: “Should Universal choose to release any of Samadhisound’s catalogue on vinyl, and I’ve requested they do, we have the artwork in place as was. (I believe requests for CD reissues will fall on deaf ears as it’s a dying medium. It would perhaps be of greater interest if hi res files were made available of the entire catalogue. Decisions of this nature fall outside my purview). We poured time and energy into creating something that’s a limited run for a minority audience. I do hope some of you get to enjoy it”. E questo è quanto. Per ora. – Matteo Aceto

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David Sylvian, “Brilliant Trees”, 1984

david sylvian, brilliant trees, 1984, immagine pubblica blogPrimo album solista per David Sylvian, pubblicato dalla Virgin nell’estate ’84, “Brilliant Trees” può essere pacificamente considerato come uno dei capolavori del pop inglese degli anni Ottanta. Che poi, a proposito, è anche uno di quei rari dischi degli anni Ottanta che non si dibatte in quel pantano synth-pop che era appunto il sound degli anni Ottanta che andava per la maggiore. E “Brilliant Trees”, tanto per dire, è stato un disco che è entrato agilmente nelle Top Ten di mezzo mondo.

Un disco senza tempo, insomma, come le vere opere d’arte, un album perfettamente in bilico tra le sonorità più pop dei Japan (band che lo stesso David Sylvian aveva capitanato fino a poco tempo prima) e le atmosfere ben più sperimentali che seguiranno nella lunga e sempre interessante carriera solista del nostro. Non è forse casuale la scelta di aprire “Brilliant Trees” con un brano che sembra uscito direttamente dagli archivi dei Japan come il saltellante funky di Pulling Punches (edito anche come singolo) e di chiuderlo con un pezzo che non potrebbe suonare più diversamente, ovvero lo stesso Brilliant Trees, forte di oltre otto incredibili minuti di atmosfera mistica che getta un raccordo tra spiritual, ambient e musica etnica.

In mezzo a tutto questo troviamo poi quella che secondo me è non soltanto una delle più belle canzoni di David Sylvian ma anche uno dei più bei pezzi pop di tutti i tempi, ovvero Nostalgia, il classico brano che da solo assolve tutto un disco e che giustifica i soldi spesi per l’acquisto. C’è anche un’altra perla come The Ink In The Well (edita anch’essa su singolo), un pop jazzato che anticipa le sonorità più acustiche che Sylvian avrebbe abbracciato in “Secrets Of The Beehive” (1987), altro lavoro imprescindibile per apprezzare questo affascinante cantante/musicista. Infine, accanto a un pezzo più convenzionalmente pop come Red Guitar (anch’esso su singolo) non mancano episodi ben più sperimentali ed atmosferici come Weathered Wall e Backwaters.

Inciso tra il 1983 e il 1984, tra Londra e quella Berlino che ancora soffriva della spaccatura tra Est e Ovest esemplificata da un vero e proprio muro, “Brilliant Trees” figura inoltre un cast di musicisti di tutto rispetto: Holger Czukay dei Can, Danny Thompson dei Pentangle, Kenny Wheeler, Mark Isham, Jon Hassell e Phil Palmer, oltre a quell’amico di una vita che risponde al nome di Ryuichi Sakamoto, al fratello Steve Jansen e al tastierista Richard Barbieri, questi ultimi due già con Sylvian al tempo dei Japan. – Matteo Aceto

Tears For Fears, “Songs From The Big Chair”, 1985

Tears For Fears Songs From The Big Chair immagine pubblicaGravitando ancora per un po’ attorno all’orbita dei Tears For Fears, volevo scrivere quattro parole su quello che probabilmente resta il loro album più famoso, ovvero quel “Songs From The Big Chair” pubblicato la bellezza di trentadue anni fa e che ancora oggi fa capolino in praticamente tutte le rivendite di dischi, da quelli presenti nei centri commerciali agli scatoloni degli ambulanti nei mercatini rionali.

Davvero un disco popolare, questo “Songs From The Big Chair”, è quell’album che vanta una delle più famose (e potenti) canzoni degli anni Ottanta, quella Shout che credo proprio conoscano anche le pietre. Io, che all’epoca avevo sette anni, il power-pop di Shout me lo ricordo benissimo; di fatto sono trentadue anni che lo ascolto. Che poi il pezzo tratto da “Songs From The Big Chair” che più amo è in verità un altro: Everybody Wants To Rule The World, altro singolo di successo, del quale io ricordo benissimo anche il videoclip che guardavo sul programma “Deejay Television”, in onda su Italia 1. Mi piaceva da matti quella musica irresistibilmente propulsiva abbinata alle immagini on the road di Curt Smith che guidava una Morgan.

Da “Songs From The Big Chair” vennero estratti altri tre singoli: due non proprio fortunatissimi come I Believe (un brano insolitamente soul scandito dal piano) e Mothers Talk (pulsante e rocambolesco elettrorock), e uno più celebre come Head Over Heels (un pezzo pop raggiante e corale che vanta il video più divertente per i nostri), mentre nel corso del 1986 uscì una riedizione di Everybody Wants To Rule The World chiamata Everybody Wants To Run The World, associata a una maratona benefica patrocinata da quello stesso Bob Geldof che un anno prima aveva dato avvio al progetto Live Aid.

Ad ogni modo, “Songs From The Big Chair” fu un successo straordinario in tutto il mondo (1° posto in classifica nella nativa Gran Bretagna e 2° posto nella classifica USA, tanto per dire), facendo dei Tears For Fears una delle band più popolari dei pianeta. Successo che però fu mal digerito dai nostri: Roland Orzabal e Curt Smith non sono mai stati (e mai si sono sentiti) dei divi pop, e Smith in particolare ha sofferto a tal punto la popolarità da chiamarsi fuori dall’avventura Tears For Fears già dopo il tour promozionale per l’album “The Seeds Of Love“, seguito di “Songs From The Big Chair” e – manco a dirlo – terzo album di fila per i nostri a raggiungere la vetta delle charts britanniche.

Prodotto da Chris Hughes con Dave Bascombe già tecnico del suono (sarà quindi proprio quest’ultimo il produttore di “The Seeds Of Love”), l’album “Songs From The Big Chair” figura anche la maestosa The Working Hour, cantata magnificamente da Orzabal e impreziosita dal sax di Mel Collins, la frenetica Broken (appropriatamente spezzata in due, in una sorta d’introduzione e di chiusura di Head Over Heels) e la conclusiva Listen, un pezzo stranamente somigliante alla produzione dei connazionali Japan (quelli di David Sylvian, ve li ricordate?) affidato alla voce di Smith. – Matteo Aceto

David Sylvian, Steve Jansen, Richard Barbieri, Mick Karn, “Rain Tree Crow”, 1991

rain-tree-crow-david-sylvian-steve-jansen-richard-barbieri-mick-karnIl periodo storico: a cavallo tra il 1989 e il 1990. I paesi dove sono avvenute le registrazioni: l’Inghilterra, l’Irlanda, la Francia, e anche la nostra Italia. I musicisti coinvolti: David Sylvian, Steve Jansen, Richard Barbieri, Mick Karn. L’obiettivo: la reunion dei Japan dopo il clamoroso scioglimento seguìto agli album “Tin Drum” e “Oil On Canvas” dei primi anni Ottanta. Il metodo: una serie di sedute dove la musica improvvisata la fa da padrona. Il risultato finale: un disco notevole pubblicato dalla Virgin dopo molti contrattempi, una reunion mancata, il mix finale di David Sylvian che scontenta gli altri, una crepa nei rapporti interpersonali che durerà anni.

Insomma, il disco che doveva segnare un nuovo inizio per i Japan viene invece ricordato per essere il loro testamento artistico, e per giunta sulla lapide non c’è scritto nemmeno Japan, bensì Rain Tree Crow. E’ con questo enigmatico nome, infatti, che Sylvian, Jansen, Barbieri e Karn rinnovarono il contratto con la Virgin, proponendo così una nuova edizione dei Japan che potesse rinascere negli anni Novanta, e chissà, magari anche oltre. E invece no, niente da fare. Potevano anche vantare un nuovo nome, eppure i nostri quattro protagonisti ricorsero alle vecchie, deleterie dinamiche di gruppo. I soldini, inoltre, finirono prima del previsto, e la Virgin acconsentì a finanziare ulteriormente il progetto a patto che la band tornasse a farsi chiamare Japan. Tutti d’accordo. Tutti tranne uno, David Sylvian. Il quale sborsò di tasca propria i soldi necessari alla conclusione dei lavori ma che, inevitabilmente, finì con l’impossessarsi del progetto, e col dare la veste definitiva all’album, che quindi fu chiamato “Rain Tree Crow”, come il nome stesso della “nuova” band.

Questa la storia dei musicisti coinvolti, altra è comunque la resa finale del cosiddetto prodotto finito. Un prodotto che a me è sempre piaciuto, con buona pace delle intenzioni originarie di chi l’ha concepito. “Rain Tree Crow” è un album alternativo, un ibrido pop-rock che spesso & volentieri sfocia nello sperimentalismo e nella cosiddetta musica ambient, dove i brani cantanti si alternano ad altri completamente strumentali. Eppure è un disco molto dinamico, anche nei momenti più quieti, grazie alla grande varietà di strumenti musicali e alle tecniche da sala d’incisione impiegati che lo rendono ricco di sfumature, le quali possono continuare a cogliersi ascolto dopo ascolto, anche col passare degli anni. Di “Rain Tree Crow” ne comprai una copia usata sul finire degli anni Novanta, quando stavo iniziando a interessarmi definitivamente all’arte di un musicista, David Sylvian, che ho sempre apprezzato: da lui sono passato ai Japan e quindi, inevitabilmente, a questa inconsueta e sfortunata (?) reunion a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.

Mi è piaciuto così tanto, questo “Rain Tree Crow”, che non soltanto continuo ad ascoltarlo con immutato interesse anche oggi, ma che addirittura sono andato a comprarmene una seconda copia, un’edizione giapponese della prima ora, con tanto di libretto dei testi e confezione a mo’ di cofanetto. Ci ho speso un po’ ma ne è valsa la pena. Brani come Every Colour You Are, come Red Earth (con la chitarra di Phil Palmer a fare la differenza, come sempre), come Pocket Full Of Change, come Blackwater (il brano più convenzionalmente pop in scaletta, opportunamente edito anche su singolo, in quel lontano 1991), come Cries And Whispers sono da molti anni tra i miei favoriti nell’intero catalogo sylvianiano, tutti felicemente amalgamati in un disco che trovo piacevole all’ascolto anche mentre sono alla guida. – Matteo Aceto

Gusti musicali geograficamente parlando

ivan-graziani-rock-e-ballate-per-quattro-stagioniPer molti anni, diciamo pure tra il 1988 e il 2008, ho comprato e quindi ascoltato prevalentemente musica inglese. Gruppi da me amatissimi come Beatles, Queen, Police, Pink Floyd, Genesis, Bee Gees, Clash, Depeche Mode e Cure in primis (con tutti i relativi solisti del caso, come ad esempio Paul McCartney, Sting, Phil Collins, eccetera), ma anche Bauhaus, Japan, Cult, New Order (e quindi Joy Division), Tears For Fears, Pet Shop Boys, Smiths, Verve e tutti o quasi i relativi solisti (Peter Murphy, David Sylvian, Richard Achcroft e via dicendo). Per noi parlare poi di David Bowie. Discorsetto bello lungo, insomma.

Tra il 2007 e il 2008, invece, sono stato colto dalla febbre per Miles Davis, statunitense. E quindi via con tutti i suoi dischi (o meglio, con tutti i suoi cofanetti deluxe della Sony), ai quali, di lì a poco, si sono aggiungi nella mia collezione tutti i dischi di John Coltrane, altro illustre statunitense. Allargando un po’ i miei confini, ho iniziato a comprare dischi jazz di musicisti e band d’America, come ad esempio i Weather Report, Wayne Shorter, Herbie Hancock, Chick Corea, tutti nomi che sono andati ad aggiungersi ai vari Michael Jackson, Prince e Stevie Wonder che già avevo in vinili, ciddì e cassette.

E se la black music afroamericana in fondo in fondo m’è sempre piaciuta, in anni più recenti ho avuto modo di apprezzare sempre di più i dischi di Isaac Hayes e soprattutto di Marvin Gaye. Tutta roba americana, ovviamente. Ai quali si sono aggiunti presto i dischi di Simon & Garfunkel (li ho comprati tutti!), del solo Paul Simon (ne ho comprati quattro o cinque), di Bruce Springsteen e soprattutto di Bob Dylan.

Insomma, se la Gran Bretagna la faceva da padrona per quanto riguarda la provenienza artistica dei dischi presenti in casa mia, credo proprio che ormai la fetta sia equamente divisa tra Stati Uniti e Gran Bretagna, e forse i primi sono anche in leggero vantaggio. In questa sorta di duopolio ho però registrato un curioso fatto privato: non so perché e non so per come, ma una mattina mi sono svegliato con la voglia di ascoltarmi i dischi di Lucio Battisti! Dopo qualche acquisto casuale, tanto per scoprire l’artista, ho deciso di fare il grande passo: acquistare l’opera omnia contenente TUTTI  i suoi dischi. L’anno scorso, spinto dalla curiosità, sono invece andato a comprarmi a scatola chiusa un cofanetto da tre ciddì + divuddì di Lucio Dalla, chiamato per l’appunto “Trilogia”. Io che ascolto e che soprattutto compro Lucio Dalla?! Un paio d’anni prima non l’avrei mai detto ed ora eccomi qui, a canticchiare Come è profondo il mare o L’anno che verrà oppure ancora Come sarà con tanto di Francesco De Gregori a dividere il microfono.

De Gregori che pure ha iniziato a incuriosirmi, nonostante un’antipatia per il personaggio che nutro da sempre. Ieri pomeriggio, e qui sto svelando un aspetto davvero inquietante della mia vita privata, avevo preso una copia di “Rimmel” e mi stavo già dirigendo alla cassa. Ho quindi adocchiato una raccolta tripla, fresca d’uscita, di Ivan Graziani e chiamata “Rock e Ballate per Quattro Stagioni“, edita dalla Sony in occasione del ventennale della morte del compianto cantante e chitarrista (nella foto sopra). Ebbene, ho preso una copia di quest’ultima con buona pace del classico di De Gregori.

E così, in conclusione, se una volta i miei ascolti erano concentrati quasi unicamente sulla Gran Bretagna, da un po’ di tempo sono felicemente passato all’America. E ciò nonostante rivolgo più d’un pensiero all’Italia, chissà perché. Ho iniziato anche ad apprezzare e comprare Vasco Rossi. Si attendono ora clamorosi sviluppi. – Matteo Aceto

Ristampe, ristampe, ristampe!!!

Michael Jackson Off The Wall immagine pubblicaDa una decina d’anni a questa parte, s’è definitivamente consolidata fra le case discografiche – major o meno che siano – l’abitudine di ristampare il vecchio catalogo in riedizioni più o meno meritevoli di tornare a far capolino nelle vetrine dei negozi accanto alle ultime novità.

Spesso si festeggiano i ventennali, i venticinquennali, i trentennali o addirittura il mezzo secolo di dischi famosi, riproposti in appariscenti confezioni, con tanto di note biografiche e foto d’epoca, meglio ancora se con inediti e/o rarità (che poi, almeno per me, sono le uniche motivazioni nel comprarmi una riedizione d’un disco che magari già posseggo), a volte addirittura in formato cofanetto.

E’ notizia di oggi che entro l’anno verrà ristampato “Off The Wall”, uno dei classici di Michael Jackson, edito appunto trentanni fa. In base a un accordo fra la Sony, la EMI (che non ho capito che c’entra…), gli esecutori testamentari & gli eredi del grande cantante, da qui a dieci anni dovremmo avere altre ristampe (di sicuro “Bad”, probabilmente pure “Dangerous” e tutti gli altri) e altri dischi con brani inediti. Inediti che dovrebbero comunque figurare anche nella ristampa di “Off The Wall”, fra l’altro ripubblicato già nel 2001, così come gli stessi “Bad” e “Dangerous”.

C’è da dire che le ristampe, a volte, sembrano solo una scusa per propinarci un disco del passato alla cifra non proprio popolare dei diciotto/diciannove euro: penso alla riedizione di “Dark Side Of The Moon”, il classico dei Pink Floyd, uscita nel 2003 in occasione del trentennale dell’album. Si trattava d’un ciddì in SuperAudio, col suono distribuito in cinque canali per impianti surround… vabbene, moltobbello, ma le canzoni erano quelle, non c’era uno straccio di brano aggiuntivo, e il tutto si pagava a prezzo pieno.

Si tratta comunque d’una sgradita eccezione perché il più delle volte le ristampe sono ben meritevoli d’essere acquistate. Nel 2007, ad esempio, sono stati riproposti i tre album da studio dei Sisters Of Mercy con belle confezioni cartonate, note tecniche/critiche, foto & preziosi brani aggiuntivi. L’anno dopo, la stessa operazione è stata replicata (tranne per le confezioni, non di carta ma di plastica) per i dischi dei Mission, band nata da una costola degli stessi Sisters Of Mercy. Anche i dischi di David Sylvian usciti per la Virgin – compresi quelli a nome Japan e Rain Tree Crow – sono stati riproposti in lussuose confezioni cartonate, corredate di canzoni aggiunte; ne ho comprate diverse di queste ristampe sylvianiane, come “Tin Drum” dei Japan, pubblicato in uno stupendo cofanetto con disco aggiuntivo & libretto fotografico, un lavoro davvero ben fatto e pagato la modica cifra di sedici euro. Un altro lavoro lodevole che merita l’acquisto a scatola chiusa da parte dell’appassionato è la ristampa del 2004 di “London Calling” dei Clash, comprensiva di ciddì audio con interessante materiale aggiuntivo e divuddì con documentario & videoclip.

Recentemente, l’etichetta Legacy (di proprietà della Columbia, a sua volta controllata dalla Sony), ha riproposto il primo album di Whitney Houston, ovvero quel disco che portava il suo nome, pubblicato nel 1985 con grande successo in tutto il mondo. “Whitney Houston” è stato così ristampato per il suo venticinquennale con brani aggiuntivi e un divuddì contentene videoclip, apparizioni televisive e nuove interviste. Ancora la Legacy, ad aprile, immetterà sul mercato due interessanti ristampe: una per “This Is Big Audio Dynamite”, l’esordio di Mick Jones come leader dei B.A.D. (originariamente pubblicato anch’esso nell’85), e un’altra per il classico degli Stooges, “Raw Power”, che oltre a proporre esibizioni dell’epoca, inediti & rarità figurerà anche l’originale mix di David Bowie del 1973.

Negli ultimi anni s’è ristampato davvero di tutto, spaziando un po’ fra tutti i generi musicali: “What’s Going On” di Marvin Gaye, “Tommy” degli Who, “Pet Sounds” dei Beach Boys (anche in cofanetto da tre ciddì), “Songs From The Big Chair” per i Tears For Fears, “All Mod Cons” per i Jam, “Our Favourite Shop” per gli Style Council, “Stanley Road” e “Wild Wood” di Paul Weller, “Steve McQueen” dei Prefab Sprout, “Night and Day” di Joe Jackson, i primi quattro album dei Bee Gees, “Guilty” della Streisand, “Songs In The Key Of Life” di Stevie Wonder, “Damned Damned Damned” dei Damned, “Ten” dei Pearl Jam (in un voluminoso cofanetto), l’intero catalogo per Bob Marley, i Doors, Siouxsie And The Banshees, Depeche Mode, Megadeth e Joy Division. E ancora: “Transformer” di Lou Reed, “All The Young Dudes” per Mott The Hoople, “A Night At The Opera” dei Queen, i quattro album da studio dei Magazine, gran parte dei dischi di Bowie, dei Genesis dei Cure e dei New Order, “The Final Cut” dei Pink Floyd, “A Love Supreme” di Coltrane e gran parte dei dischi di Miles Davis (spesso anche in lussuosi cofanetti da tre, quattro o più ciddì). Eppure si sono viste anche ristampe ben più povere, vale a dire senza brani extra e in confezioni standard, per Peter Gabriel, Roxy Music, Simple Minds, David Gilmour, Sting e The Police.

Riproposizione in grande stile, invece, per il catalogo dei Beatles: lo scorso 9 settembre, il fatidico 9/9/09, tutti gli album del gruppo originariamente pubblicati dalla EMI fra il 1963 e il 1970 sono stati ristampati (e remasterizzati) sia singolarmente che tutti insieme in costosi cofanetti (in formato stereo e mono), tuttavia nessun disco contemplava i succosi inediti ancora custoditi in archivio.

Per quanto riguarda i solisti, già nel 1993 la EMI ristampò tutto il catalogo di McCartney nella serie “The Paul McCartney Collection”, mentre fra il 2000 e il 2005 è toccato agli album di John Lennon. Spesso ognuno di questi album include i brani pubblicati all’epoca sui lati B dei singoli e alcune ghiotte rarità. Anche il catalogo di George Harrison è stato rilanciato di recente; qui ricordo in particolare la bella ristampa di “All Things Must Pass”, uscita nel 2001 e curata dallo stesso Harrison. Per quanto riguarda Ringo Starr, l’americana Rykodisc ha ristampato già nei primi anni Novanta i suoi album del periodo 1970-74 con diversi brani aggiuntivi, tuttavia l’operazione s’è conclusa lì e le copie a noi disponibili erano solo quelle d’importazione. Insomma, il catalogo solista di Starr meriterebbe anch’esso una riscoperta, almeno per quanto riguarda i suoi album più antichi.

In definitiva, povere o ricche che siano, tutte queste riedizioni stanno ad indicare che la musica incisa a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino ai primi Novanta è ormai giunta alla sua storicizzazione, forse perché si è ormai capito che, musicalmente parlando, quello è stato un periodo straordinario & irripetibile che evidentemente ha ancora molto da dire… e da far sentire!

– Matteo Aceto

(ultimo aggiornamento: 18 marzo 2010)

Dalis Car, “The Waking Hour”, 1984

dalis-car-the-waking-hour-mick-karn-peter-murphySpesso trovo molto interessanti quegli esperimenti discografici nati dalla combinazione inedita fra due o più membri di gruppi diversi. In passato ho già scritto di “Blue Sunshine” dei Glove, oggi è invece la volta di “The Waking Hour” dei Dalis Car, una sigla che cela un curioso duo, proveniente per metà dai Bauhaus e per metà dai Japan.
Abbiamo infatti Peter Murphy alla voce e Mick Karn alla strumentazione, due grandi talenti artistici accomunati all’epoca dal senso di smarrimento per la fine delle due band inglesi che – molto probabilmente – alimenteranno di più la loro fama, i Bauhaus, scioltisi nel 1983, e i Japan, scioltisi l’anno prima.

Parlando musicalmente in senso stretto, “The Waking Hour” suona come un album solista di Mick Karn, il seguito ideale del suo “Titles” (1982), seppur i testi sono stati scritti e quindi cantati dall’inconfondibile voce dei Bauhaus. In seguito, non a caso, Peter Murphy rinnegherà il disco, nato da una collaborazione non proprio felice perché, a detta sua, forzava alla coesistenza due persone molto diverse fra loro. In effetti non so cos’abbia realmente spinto Peter e Mick ad unire le proprie forze, tuttavia il risultato finale non mi dispiace affatto, anzi resta tuttora un gradevolissimo punto di connessione fra due gruppi – i Bauhaus e i Japan per l’appunto – che non smetterò mai d’amare.

“The Waking Hour” abbìna l’indiscutibile talento visionario di Karn (oltre che strumentale, soprattutto per quanto riguarda l’uso del basso fretless, per il quale è un mago), il suo tocco etnico e quasi tribale, alla dimensione dark e teatrale di Murphy, e nel far ciò quest’album mi suona come un notevole esperimento in musica che ascolto sempre volentieri. Prodotto dagli stessi Dalis Car col tecnico del suono Steve Churchyard, “The Waking Hour” è costituito da sette brani, tutti musicati ed arrangiati dal solo Mick Karn. C’è comunque un terzo musicista che ha partecipato alle sedute, tale Paul Vincent Lawford, che ha costruito i ritmi, secondo le note interne dell’album.
Il contenuto musicale del disco, come prevedibile, è la visione della musica dei Japan interpretata da Mick Karn (più tribale e tetra, rispetto al sentimentalismo introspettivo di David Sylvian) unìta allo spiccato senso teatrale di Peter Murphy, alla sua fascinazione per l’espressionismo tedesco al tempo della repubblica di Weimar. Abbiamo quindi l’iniziale Dalis Car, il brano che ha dato il nome all’insolito duo (a sua volta tratto da un’opera del celebre Salvador Dalì), l’ipnotica His Box, la gotica e misteriosa Cornwall Stone (è la canzone che qui più s’avvicina allo stile di Peter), la pulsante Artemis (unico brano strumentale del disco, cosa che lascia supporre che Murphy non vi abbia partecipato), la propulsiva Create And Melt e l’epica Moonlife, basata su uno dei tanti Traditional presenti nel canzoniere storico dell’Inghilterra. Chiude quest’album così atipico ma avvincente che è “The Waking Hour”, l’unico singolo che ne è stato estratto, la sinuosa The Judgement Is The Mirror.

Dopo questo tentativo di procedere come duo sotto il nome di Dalis Car, Mick Karn e Peter Murphy troveranno modo di procedere brillantemente con le loro rispettive carriere soliste per tutto il corso degli anni Ottanta, e anche oltre. – Matteo Aceto

P.S.
Piccola nota autobiografica: la prima bozza di questo post risale allo scorso 20 marzo, poi varie vicissitudini – compreso l’orrendo terremoto che ha sconquassato il mio Abruzzo – mi hanno fatto perdere le idee. Il titolo di questo disco, l’ora del risveglio, mi sembra decisamente appropriato.

Nine Horses, “Snow Borne Sorrow”, 2005

david-sylvian-nine-horses-immagine-pubblica-blogSono sempre stato un grande ammiratore di David Sylvian e così, dopo essermi deliziato con una sua rinnovata collaborazione con Ryuichi Sakamoto chiamata “World Citizen” (un ‘ep’ pubblicato nel 2004), corsi tutto entusiasta a comprare il successivo progetto sylvianiano, un’altra rinnovata collaborazione. Stavolta col batterista Steve Jansen, già nei Japan e in seguito in diversi altri album legati al fratello David; dato che a registrazioni già avviate si unì al progetto un terzo componente, il tastierista tedesco Burnt Friedman, si decise di dare un nome a quest’inedito trio: Nine Horses, dal titolo d’una raccolta di poesie il cui autore ignoro ma che piace a David. E così con “Snow Borne Sorrow” – questo il titolo dell’opera prima dei Nine Horses – il buon Sylvian non solo realizzò uno dei suoi lavori più dinamici dai tempi di “The First Day” (l’ennesima collaborazione, in quel caso con Robert Fripp e datata 1993) ma di fatto produsse uno dei dischi migliori della sua straordinaria carriera.

Dopo aver letto solo recensioni entusiastiche, come ho detto mi fiondai a comprare “Snow Borne Sorrow”; ricordo benissimo anche il periodo – la vigilia del Natale 2005 – e il fatto che il commesso del negozio mi assicurò che si trattava addirittura del disco migliore di David Sylvian dai tempi di “Secrets Of The Beehive” (1987). Tuttavia, al primo ascolto, non è che mi fece chissà quale impressione… certo, le canzoni si facevano via via più belle mentre l’album procedeva, ma che diamine, chissà cosa mi aspettavo! E invece, tempo qualche altro ascolto, in uno stato mentale certamente più disposto dopo gl’inevitabili bagordi natalizi, ecco che mi si apre un mondo: questo “Snow Borne Sorrow”, per cui David Sylvian s’è anche tolto lo sfizio di pubblicarlo sotto pseudonimo, è davvero un disco bellissimo, il migliore dopo la sublime sequenza solista di “Brilliant Trees” (1984), “Gone To Earth” (1986) e “Secrets Of The Beehive”. Un album che sintetizza magnificamente l’incrocio fra sonorità jazzistiche, d’avanguardia e sperimentali – il tutto con una spruzzata di world music – tentato dal nostro fin da quando ha messo fine ai Japan. Stavolta però la tipica miscela sylvianiana è stata proposta sotto le vesti di sofisticato pop d’autore, a tutto vantaggio della musica e per la gioia dell’ascoltatore.

In “Snow Borne Sorrow” non c’è una sola canzone brutta o trascurabile, anche grazie ad una produzione impeccabile: dal tetro ma solenne incedere del brano iniziale, Wonderful World, edito come singolo apripista, al caldo sentimentalismo della conclusiva The Librarian, passando per l’elegante pop-rock di Darkest Birds, il pacato pulsare notturno di The Banality Of Evil (inserito anche nella colonna sonora del film con Jim Carrey “The Number 23”), la sofisticata e corale Atom And Cell, la riflessiva A History Of Holes (il brano che più amo, nonché uno dei miei preferiti nel canzoniere di David), l’elettronico cullare di Snow Borne Sorrow, la meravigliosa ballata di The Day The Earth Stole Heaven e il piacevole dinamismo elettronico di Serotonin.

Come sempre nei migliori lavori di David Sylvian, anche qui il buon Sakamoto ci ha messo lo zampino, suonando il piano in due brani, ma anche i molti altri collaboratori hanno fatto la loro parte, soprattutto i musicisti impegnati ai fiati. Per quanto riguarda le tematiche, diversi testi riflettono la separazione di David dalla moglie Ingrid Chavez, ma in modo meno ossessivo rispetto a “Blemish” (2003), tuttora l’ultimo album pubblicato da Sylvian a suo nome. In questo 2009 dovremmo poterne apprezzare il seguito, che spero vivamente somigli a questo superlativo “Snow Borne Sorrow”. – Matteo Aceto

Japan, “Gentlemen Take Polaroids”, 1980

japan-gentlemen-take-polaroids-immagine-pubblicaEcco uno di quegli album dei quali volevo parlare fin da quando ho iniziato a scrivere sul blog… però poi, si sa, passa oggi & passa domani… ma comunque eccolo qui senza più indugi, “Gentlemen Take Polaroids”, il disco capolavoro pubblicato dai Japan nell’ormai lontano 1980.

“Gentleman Take Polaroids” segna al contempo un punto d’arrivo e un punto di partenza nella vicenda artistica & umana dei nostri: è il primo album distribuito dalla Virgin (mentre i primi tre – “Adolescent Sex”, “Obscure Alternatives” e “Quiet Life” – erano usciti per la Hansa) ma è anche l’ultimo che vede la formazione dei Japan in quintetto.

Vale a dire il leader David Sylvian, il fratello batterista Steve Jansen, quel mago di bassista di Mick Karn, il tastierista d’origini italiche Richard Barbieri e il chitarrista Rob Dean, che lascerà quindi i Japan di lì a poco.

Proseguendo sulla strada stilistica già magnificamente tracciata dal precedente “Quiet Life”, in quest’album Sylvian e compagni giungono alla completa maturazione artistica, proponendoci otto lunghi brani perfettamente bilanciati fra sonorità funky, techno-pop, sperimentali, ambient e di raffinato pop d’autore, grazie a perle quali Swing, Methods Of Dance (forse la canzone dei Japan che più mi regala emozioni), Gentlemen Take Polaroids, Taking Islands In Africa (prima delle tante & notevoli collaborazioni fra David Sylvian e Ryuichi Sakamoto), Burning Bridges e Nightporter. Più trascurabili ma assolutamente indispensabili nell’economia dell’album sono la pulsante My New Career e l’esotica cover di Ain’t That Peculiar di Marvin Gaye.

Evidenti influenze in “Gentlemen Take Polaroids” sono le musiche prodotte da David Bowie durante il suo periodo berlinese e il morbido & sensuale soul-pop dei Roxy Music: tuttavia le composizioni scritte da David Sylvian, e affidate a quell’ottima band che all’epoca erano i Japan, brillano di luce propria grazie ad uno stile che già a quel punto della loro carriera era diventato un marchio di fabbrica. Inconfondibile, del resto, la bellissima voce di David, alla quale fa da grandioso contrappunto l’eccezionale lavoro al basso di Mick.

Nel 2003 la Virgin ha ristampato gli album dei Japan e di David Sylvian compresi fra il periodo 1980-1991 in eleganti confezioni cartonate ed impreziosite da alcuni brani aggiunti. Per quanto riguarda “Gentlemen Take Polaroids”, oltre a una diversa posa dell’immagine glam di David in copertina, figurano in aggiunta due suggestivi brani ambient del periodo, gli strumentali The Experience Of Swimming e The Width Of A Room, oltre che un ottimo remix della sakamotiana Taking Islands In Africa.

Un’ultima curiosità: sul retro copertina delle primissime stampe dell’album, nel 1980, al posto di Burning Bridges figurava la struggente ballata Some Kind Of Fool, poi scartata all’ultimo momento per mix insoddisfacente (ed infatti era presente la non accreditata Burning Bridges). Il brano originale resta tuttora inedito, anche se David Sylvian lo ha proposto nella sua eccellente raccolta “Everything And Nothing” (2000) dopo averne ricantato tutta la parte vocale. – Matteo Aceto

David Sylvian, “Secrets Of The Beehive”, 1987

david-sylvian-secrets-of-the-beehive-immagine-pubblica‘Settembre è di nuovo qui’ canta serenamente David Sylvian nel brano che apre quello che molto probabilmente è il suo album da studio più bello ed emozionante, “Secrets Of The Beehive”, pubblicato dalla Virgin nel 1987.

Un album che oggi, primo settembre, sono andato a riascoltarmi subito con grande piacere: questo è uno dei miei dischi preferiti e settembre è uno dei miei mesi preferiti. Una combinazione pressoché perfetta, anche se il disco non è di facile recensione. Posso solo dire d’averci provato, ecco.

Il brano che abbiamo appena citato è, appunto, September, poco più d’un minuto per piano e voce, quella calda e bellissima di David. L’orchestrazione discreta è invece opera di quel mago degli arrangiamenti e delle ambientazioni sonore che risponde al nome di Ryuichi Sakamoto. Anzi, il riuscito connubio Sylvian-Sakamoto si ripete per tutte le altre tracce di “Secrets”.

Dopo la poesia minimale di September, troviamo The Boy With The Gun, un grande brano melodico che mette in risalto il nuovo approccio voluto da Sylvian per la sua musica dell’epoca: un sound più acustico, più suonato e pulito ma al tempo stesso più lieve, quasi minimale.

La successiva Maria è un pezzo decisamente dark, quasi gotico: la voce profonda di Sylvian – in alcuni casi raddoppiata – e la tetra atmosfera sonora resa da Sakamoto creano uno dei brani più suggestivi dell’intera discografia di David. Segue la splendida ed elegante Orpheus, semplicemente una delle canzoni più belle di Sylvian e, di fatto, uno dei vertici espressivi di quest’album. E’ un brano di gran classe, all’epoca edito anche su singolo, che forse giustifica da solo l’acquisto di “Secrets Of The Beehive”.

Poi è la volta d’un altro brano d’atmosfera, The Devil’s Own, una lenta filastrocca scandita dal piano. Anche qui siamo in presenza di una delle canzoni più suggestive del nostro, una canzone dalla quale è difficile non farsi ammaliare. La successiva When Poets Dreamed Of Angels è un pezzo d’immensa classe che unisce gli umori intimisti, comuni a tutto il disco, col flamenco, la cui chitarra è qui affidata al bravissimo Phil Palmer (è quello che suona quegli strabilianti assoli nella Con il nastro rosa di Lucio Battisti, per capirci).

Se con Mother And Child siamo ancora in presenza d’una filastrocca – principalmente acustica – con la successiva Let The Happiness In troviamo un lungo brano meditabondo, caldo e disteso, dall’effetto cullante con l’impiego in bella mostra delle percussioni di Steve Jansen (il fratello di David, già nei Japan e presente anche in altri brani di “Secrets”). La conclusiva Waterfront è una struggente & indimenticabile canzone per voce – David – e piano – Ryuichi – sostenuta dal sapiente e mai invadente uso dell’orchestra, sempre a cura di Ryuichi.

Fin qui, la splendida versione su elleppì di “Secrets Of The Beehive”, mentre in ciddì (negli anni Ottanta, per lanciare il nuovo supporto, vi s’inserivano brani aggiuntivi) è inclusa un’ulteriore perla: la rilettura di Forbidden Colours, brano che il duo Sylvian-Sakamoto aveva già realizzato nel 1983. Forbidden Colours è in assoluto una delle mie canzoni preferite e la versione originale non si tocca: tuttavia, questa edita nel 1987, col suono minimale ricreato dal trio Sylvian-Sakamoto-Jansen è, come dicevo, un’autentica perla.

Se volete procurarvi il ciddì di “Secrets Of The Beehive” con Forbidden Colours state però attenti alla ristampa: in quella recente del 2003 non è inclusa; al suo posto figura l’ugualmente bella Promise (The Cult Of Eurydice), un B-side tratto da uno dei singoli. Mi chiedo perché la casa discografica non abbia incluso entrambe le canzoni, dato che ce n’era tutto lo spazio… mah, misteri insondabili del marketing discografico.