Johnny Cash, “Unearthed”, 2003

johnny cash, unearthed, 2003, immagine pubblica blogDegli innumerevoli cofanetti multiciddì pubblicati dal 2000 ad oggi, e dei parecchi che in tutti questi anni ho avuto il piacere di collezionare, uno dei più godibili resta per me “Unearthed” di Johnny Cash, un quintuplo ciddì originariamente pubblicato dalla American Recordings di Rick Rubin pochi mesi dopo la morte del celebre artista americano, avvenuta il 12 settembre 2003.

“Unearthed”, a ben vedere, rappresenta quindi un vero e proprio testamento artistico: si tratta d’un cofanetto formato da quattro splendidi dischi di materiale inedito (nel 2003) registrato da Johnny Cash nel corso degli ultimi dieci anni di carriera (e quindi negli ultimi dieci anni di vita), quando appunto sotto l’egida di Rick Rubin il nostro visse una autentica rinascita artistica. C’è però, come detto sopra, un ulteriore quinto disco in “Unearthed”: si tratta d’un best of tratto dai quattro album che Cash aveva inciso per l’American, condensato in quindici magnifici brani che da Delia’s Gone giungono fino a quel capolavoro di commozione chiamato Hurt, cover dei Nine Inch Nails che meriterebbe un post a sé, passando per Bird On The Wire di Leonard Cohen, Rusty Cage di Chris Cornell, One degli U2 e The Man Comes Around dello stesso Cash.

Trattandosi sostanzialmente d’una raccolta di brani già editi e comunque di facile reperibilità, questo quinto disco di “Unearthed” – per quanto sensazionale all’ascolto – resta però il meno interessante dal punto di vista storico. Il vero tesoro che è stato dissotterrato (questo il significato letterale del titolo) dagli archivi American è infatti tutto nei primi quattro dischi del box: brani inediti, versioni alternative di altri già precedentemente editi, duetti (alcuni davvero d’antologia), esecuzioni per sole voce & chitarra (il solo Johnny Cash che canta imbracciando la sua chitarra basta già a fare spettacolo), esecuzioni con band di supporto (e in alcuni casi con tanto di orchestra), nuove versioni di brani che il nostro aveva registrato decenni prima, cover da brividi di canzoni altrui che in non pochi casi sono forse superiori alle versioni originali (come Pocahontas e Heart Of Gold di Neil Young, tanto per dirne qualcuna).

Ad ogni modo, il materiale di “Unearthed” è suddiviso in ordine tematico, con tanto di titolo per ogni disco; e così, se il primo si chiama “Who’s Gonna Cry” e contiene cinquanta minuti buoni d’un Cash in solitaria alle prese con canzoni come la tenebrosa Long Black Veil e la rivisitazione d’un originale d’annata chiamato No Earthly Good, il secondo si chiama “Trouble In Mind” e vede il nostro accompagnato da una schiera di musicisti davvero d’eccezione – Carl Perkins, i Red Hot Chili Peppers, Tom Petty e i suoi Heartbreakers, Willie Nelson e Waylon Jennings, amico di una vita, oltre a June Carter, ovvero l’amata signora Cash – e alle prese con pezzi come I’m A Drifter, I’m Moving On, Everybody’s Trying To Be My Baby e la stessa Trouble In Mind.

E se il terzo ciddì, chiamato “Redemption Songs”, offre – tra le altre – cover preziose come Father And Son, Wichita Lineman, Redemption Song e Gentle On My Mind e si avvale d’un altro gran cast di collaboratori (tra cui Joe Strummer, Nick Cave e Glen Campbell), il quarto ciddì, chiamato “My Mother’s Hymn Book” è un vero e proprio “nuovo” album di Johnny Cash, inedito in questo cofanetto al momento della sua prima pubblicazione, ovvero in quel 2003. Con brani molto corti, per un disco che comunque non arriva ai quaranta minuti, “My Mother’s Hymn Book” è un lavoro acustico formato da spiritual, inni e canti religiosi della tradizione americana, tutti reinterpretati dall’inconfondibile stile country di Johnny Cash.

Di recente, considerando il vigoroso revival del vinile, l’American ha ristampato tutto il box “Unearthed” in tale intramontabile formato discografico. Ci avevo fatto anche un pensierino, lo ammetto, ma il prezzo era abbastanza esagerato per portarmi a casa ciò che nel mio caso sarebbe un costoso doppione. Ve lo consiglio, tuttavia, se non avete nessuna edizione d’un box come questo “Unearthed” che, a mio modesto avviso, resta non solo un acquisto necessario per ogni appassionato di Johnny Cash ma anche un cofanetto facilmente apprezzabile da qualsiasi amante di buona e onesta musica pop-rock. – Matteo Aceto

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The Clash, “London Calling”, 1979

The Clash London CallingIn blog precedenti avevo già recensito tutti gli album dei Clash ma, bisognoso di nuovi argomenti per ampliare questa riedizione di Immagine Pubblica, mi sono messo a riscrivere un vecchio post (originariamente datato 23 marzo 2009) su quello che viene comunemente inteso come il manifesto artistico della band inglese, ovvero “London Calling”, il suo terzo terzo album, che ha una genesi peculiare che merita d’essere raccontata.

Londra, aprile ’79, i nostri trovano un nuovo quartier generale, un’autorimessa della quale affittano il piano superiore per farne una sala prove ma anche un ritrovo; il locale viene denominato Vanilla per via del colore delle pareti. La nuova atmosfera si rivela salutare per i Clash: liberi da un manager/mentore tanto geniale quanto ingombrante, Bernie Rhodes, licenziato poco prima, i quattro – Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon – hanno l’opportunità d’affiatarsi sempre più, non solo come musicisti ma soprattutto come amici. Al Vanilla prendono così a sperimentare generi diversi dal punk, quali funk, reggae, soul, disco e jazz, tanto che tra maggio e giugno i Clash si ritrovano con un bel quantitativo di nuove composizioni (parte di questo materiale, le cosiddette “Vanilla Tapes”, verrà incluso nella riedizione deluxe di “London Calling” del 2004). Dopodiché, una volta rinnovato il contratto con la CBS, i Clash chiamano il produttore Guy Stevens, un loro idolo, già produttore ma anche mentore della band preferita di Mick, i Mott The Hoople.

Stevens aveva già prodotto i nostri, nel novembre ’76, quando, dopo un interessamento da parte della Polydor, il gruppo aveva effettuato con lui il suo primo demo professionale. Allora le cose non andarono come i Clash avevano sperato ma, a distanza di quasi tre anni, erano fermamenti convinti che Guy fosse l’unico in grado di produrre il loro nuovo disco. Le sessioni si svolsero così ai Wessex Studios, con Stevens e il tecnico Bill Price alla consolle: tutto l’entourage dei Clash ricorda il comportamento folle di Stevens, il quale, alcolizzato cronico, incitava la band in studio con urla, salti e distruzione del mobilio. L’atmosfera in studio era quindi sempre carica, rovente, e il nuovo materiale dei Clash riuscì a giovarne, a dispetto di quel che si potrebbe pensare vedendo le immagini amatoriali di Stevens che fa il pazzo in studio, contenute nel divuddì della riedizione deluxe di “London Calling” (sono riprese molto divertenti ma anche un tantino inquietanti)! Le sessioni, durate fino alla fine d’agosto, hanno prodotto quello che secondo molti critici e molti fan è l’album migliore per Strummer & compagni.

Un album che parte col botto, l’omonima London Calling, che non è solo la canzone più rappresentativa dei nostri ma è oggi considerata un autentico classico del rock. E’ un brano potente & visionario, dove tutta la strumentazione e le parti vocali sono esaltate, e lo si capisce già dagli iniziali, incalzanti secondi. London Calling è una delle prove più belle dei Clash, qui al meglio di quello stile epico applicato al punk rock nel quale sono maestri.

Brand New Cadillac è invece l’irresistibile cover d’un rock ‘n’ roll di Vince Taylor & His Playboys, datato 1959: il pezzo, tirato e coinvolgente, serviva ai Clash per riscaldarsi prima di passare alle canzoni di propria composizione ma Stevens lo registrò comunque e convinse la band ad includerlo nell’album. Jimmy Jazz inizia con una sonnacchiosa chitarra unita al fischiettare d’un amico dei Clash, dopodiché la musica diventa saltellante e gioviale, quanto di più distante i nostri avessero mai inciso fino ad allora. I ritmi tornano a farsi comunque più serrati con la trascinante Hateful, dove la voce roca di Joe è magnificamente supportata da quella più sbarazzina di Mick.

Voce di Mick che torna protagonista in Rudie Can’t Fail, convincente ibrido tra sonorità punk e latinoamericane, dove gli interventi ai fiati degli Irish Horns – che partecipano ad altri momenti del disco – sono particolarmente efficaci. Spanish Bombs sembra invece un classico brano da autoradio: melodioso, caldo, dal ritmo sostenuto, col testo – cantato quasi all’unisono da Joe & Mick – a richiamare numerose immagini di quegli anni di piombo.

La saltellante The Right Profile è un’altra grandiosa commistione di stili: rock ‘n’ roll, punk, ritmi latini e un pizzico d’immaginario hollywoodiano; Strummer ne scrisse infatti il testo dopo aver letto una biografia del tormentato attore Montgomery Clift. E se Lost In The Supermarket – brano pulsante ma disteso, con Mick alla voce solista – è una delle canzoni migliori di “London Calling”, la successiva Clampdown è una delle più incalzanti, grazie all’inesorabile batteria di Topper che resta in primo piano per tutto il tempo. Poi è la volta di The Guns Of Brixton, la prima composizione firmata (e cantata) da Paul Simonon, dove il ritmo è decisamente reggae, con una linea di basso irresistibile & una voce impassibile a narrare gangster stories.

Stagger Lee/Wrong ‘Em Boyo è un altro esempio di fusione tra generi nella quale i Clash si dimostravano sempre più a loro agio: un medley fra un traditional e una cover dei Rulers che ci porta ad anni luce dal punk, dato che sembra piuttosto d’ascoltare un appassionato gruppo rock che esegue dei ritmi da swing band anni Cinquanta. Death Or Glory e Four Horsemen mi sembrano gli unici momenti deboli di “London Calling”: sono canzoni delle quali avrei anche fatto a meno, sebbene non siano cattive e suonino inconfondibilmente Clash nell’approccio e nello stile. Ben più interessante mi sembra The Card Cheat, cantata da Mick, dove tutta la strumentazione – col piano come strumento portante – è raddoppiata e fornita d’eco. E’ un’ulteriore testimonianza della versatilità raggiunta dal gruppo in studio, anticipatrice di alcuni episodi di “Sandinista!” (1980), così come il breve ma divertente rock di Koka Kola, cantato da Joe.

E se in Lover’s Rock i nostri si divertono a confondere stili e sonorità, con Joe e Mick a cantare all’unisono, I’m Not Down è semplicemente un’altra bella canzone cantata da Mick, piacevolmente energica. Memorabile resta anche la cover di Revolution Rock di Danny Ray, dove i Clash non solo si cimentano alla grande con sonorità dub-ska (anch’esse riprese con grande efficacia in “Sandinista!“) ma si dilettano pure a riproporre la sezione fiati di Sea Cruise, un pezzo di Frankie Ford.

A chiudere questo disco superlativo che è “London Calling” ci pensa una coinvolgente canzone cantata da Mick che doveva essere abbinata come flexi-disc al magazine NME; la cosa non si concretizzò e la melodica Train In Vain trovò posto in fondo all’album, nemmeno nominata nelle prime stampe del disco.

Due righe merita anche la copertina, giudicata una delle più evocative della discografia mondiale. Scattata da Pennie Smith, la foto ritrae Simonon che spacca il suo basso durante un concerto americano, mentre la grafica riprende quella del primo album di Elvis Presley. – Matteo Aceto

Altre canzoni, altre citazioni musicali

Stevie Wonder Sir Duke immagine pubblicaDopo un post che riportava alcune autoreferenze musicali fra (ex) componenti d’una stessa band, ora vediamo quali brani si riferiscono – più o meno direttamente – a cantanti, gruppi o componenti di band esterne all’artista che canta e/o scrive la canzone.

Citazioni che esplicitano i Beatles si trovano in All The Young Dudes dei Mott The Hoople, Born In The 50’s dei Police, in Ready Steady Go dei Generation X e in Encore dei Red Hot Chili Peppers, mentre i Clash sfottono la beatlemania in un verso dell’ormai classica London Calling. In realtà, nel periodo in cui i Beatles erano attivi e famosi in tutto il mondo, comparvero diverse canzoni di artisti meteore che citavano i quattro per i motivi più disparati: ricordo, ad esempio, una canzone rivolta a Maureen Starkey, prima moglie di Ringo Starr, che doveva ‘trattare bene’ il batterista, ma anche una rivolta a John Lennon, che, secondo il suo autore, s’era spinto troppo oltre con la celebre sparata dei ‘Beatles più famosi di Cristo’. Anche noti artisti italiani hanno citato i Beatles, come Gianni Morandi in C’era Un Ragazzo Che Come Me… e gli Stadio in Chiedi Chi Erano i Beatles.

Alla prematura & sconvolgente morte di Lennon fanno invece riferimento Empty Garden di Elton John, Life Is Real (Song For Lennon) e Put Out The Fire dei Queen, Murder di David Gilmour, ma anche la famosa Moonlight Shadow di Mike Oldfield. John vivo & vegeto viene invece citato da David Bowie nella sua celebre Life On Mars? del 1971… Bowie che a sua volta viene citato – con Iggy Pop – in Trans Europe Express dai Kraftwerk. Esiste tuttavia una canzone chiamata proprio David Bowie, pubblicata dai Phish… che poi, a dire il vero, le citazioni riguardanti Bowie sono molte di più: uno dei più acclamati biografi di David, Nicholas Pegg, dedica alla questione un intero paragrafo nella sua notevole enciclopedia.

Anche i Rolling Stones sono stati oggetto di diverse citazioni, fra le quali le stesse C’era Un Ragazzo Che Come Me…, All The Young Dudes e Ready Steady Go viste sopra, ma anche I Go Crazy dei Queen e She’s Only 18 dei Red Hot Chili Peppers. Il solo Mick Jagger viene invece citato da David Bowie nella sua Drive In Saturday e ritratto in altre canzoni del suo “Aladdin Sane” (1973), mentre i Maroon 5 hanno addirittura creato una Moves Like Jagger.

Billy Squier ci ricorda Freddie Mercury con I Have Watched You Fly, così come ha fatto anche il nostro Peppino Di Capri in La Voce Delle Stelle, mentre a commemorare Kurt Cobain ci hanno pensato Patti Smith in About A Boy e i Cult con Sacred Life. Riferimenti a Elvis Presley si trovano in diverse canzoni di Nick Cave, così come in Angel degli Eurythmics, mentre i Dire Straits lo invocano in Calling Elvis. Nella sua God, John Lennon dice invece di non crederci più, in Elvis, così come in Bob Dylan. Dylan che viene esplicitamente citato in Song For Bob Dylan di Bowie e in Bob Dylan Blues di Syd Barrett ma che tuttavia viene sbeffeggiato in alcuni inediti lennoniani come Serve Yourself.

Citazione-omaggio per Brian Wilson dei Beach Boys da parte dei Tears For Fears in Brian Wilson Said, dove la band inglese rifà anche il verso ad alcuni tipici effetti corali dell’indimenticata surf band americana. Invece al celebre tenore Enrico Caruso hanno reso omaggio, oltre a Lucio Dalla con la struggente Caruso, anche gli inglesi Everything But The Girl con The Night I Heard Caruso Sing. Il grande Duke Ellington ci viene ricordato da Stevie Wonder con la famosa Sir Duke (nella foto in alto, la copertina del singolo), ma il pezzo più impressionante dedicato al duca è di Miles Davis che, con He Loved Him Madly, realizza uno straordinario requiem in stile fusion per il suo idolo musicale. Un altro grande artista nero, Marvin Gaye, ci viene invece malinconicamente ricordato in un successo dei Commodores, Nightshift, mentre trent’anni dopo il giovane Charlie Puth si è fatto notare con una canzone chiamata proprio Marvin Gaye.

A Jonathan Melvoin, tastierista degli Smashing Pumpkins morto d’overdose nel ’96, Prince ha dedicato la bellissima The Love We Make (Jonathan era amico di Prince, giacché questi era stato fidanzato a lungo con sua sorella, Susannah Melvoin). Invece il truce rapper The Notorius B.I.G. è stato omaggiato dalla fortunata I’ll Be Missing You, un duetto fra Puff Daddy e Faith Evans basato sulle note di Every Breath You Take dei Police.

Oltre ai ricordi dolorosi, però, ci sono anche sentimenti d’amicizia e di stima, simpatie, accuse e sfottò… ecco quindi i Police che si fanno beffe di Rod Stewart in Peanuts e i Sex Pistols che, in New York, deridono tutta la scena punk americana che sembra averli preceduti. La scena punk inglese viene invece omaggiata da Bob Marley in Punky Reggae Party, dove il grande artista giamaicano cita i Clash, i Jam e i Damned. I Pink Floyd rimpiangono invece Vera Lynn in Vera, tratta dal loro monumentale “The Wall”. In She’s Madonna, Robbie Williams, oltre a farsi accompagnare dai Pet Shop Boys (citati anch’essi in un altro pezzo di Robbie), esprime il suo apprezzamento per… Madonna. E se Wayne Hussey dei Mission canta la sua vicinanza a Ian Astbury dei Cult in Blood Brother, gli Exploited urlano l’innocenza di Sid Vicious in, appunto, Sid Vicious Was Innocent. Altri riferimenti alla parabola di Sid (e della compagna Nancy Spungen) li possiamo trovare in I Don’t Want To Live This Life dei Ramones e in Love Kills di Joe Strummer. I Sex Pistols in quanto tali sono invece citati in una canzone dei Tin Machine, così come in un’altra di quel gruppo capeggiato da David Bowie viene citata Madonna.

Non è mai stato chiarito da Michael Jackson se la sua Dirty Diana si riferisca all’amica Diana Ross o meno, ma per completezza ci mettiamo anche questa, così come non è chiaro il destinatario di You’re So Vain, il più grande successo di Carly Simon (secondo i più è indirizzata a Mick Jagger che, in realtà, contribuisce ai cori della canzone stessa). Di certo una curiosa immagine di Yoko Ono ci viene invece offerta da Roger Waters nella sua The Pros And Cons Of Hitch Hiking.

Per quanto riguarda gli italiani, mi vengono in mente La Grande Assente di Renato Zero (un omaggio all’amica Mia Martini), No Vasco di Jovanotti (non so se il titolo è esatto, comunque il riferimento è Vasco Rossi) e quella buffa canzone di Simone Cristicchi che cita di continuo Biagio Antonacci.

Quali altri esempi conoscete? Di certo, oltre a quelli che non conosco io, ce ne sono molti altri che ho dimenticato di citare [ultimo aggiornamento, 7 aprile 2011]. – Matteo Aceto

Autoreferenze musicali: accuse, rimorsi e nostalgia

George Harrison All Those Years AgoUn altro aspetto della musica che mi ha sempre affascinato riguarda i riferimenti – espliciti o meno – di un artista verso uno o più componenti della sua stessa band. La storia del pop-rock è piena d’esempi, con testi che, da semplici sentimenti di nostalgia per qualcuno che purtroppo non c’è più, vanno ad accuse al vetriolo verso chi non s’è comportato bene per i motivi più disparati. Di seguito riporto quelli che per primi mi sono venuti in mente, riservandomi il diritto d’aggiornare il post in seguito, magari anche col contributo dei lettori.

Partiamo come sempre dai Beatles: già con You Never Give Me Your Money, Paul McCartney si lamentava delle beghe finanziare dell’ultima fase del celebre quartetto. In Two Of Us, invece, Paul ripensa malinconicamente a John Lennon e alla tanta strada che i due hanno fatto insieme. McCartney riuscì comunque a trovare sollievo nella consolatoria Let It Be, dopo i suoi ‘times of trouble’. I riferimenti all’uno o all’altro Beatle sono aumentati dopo lo scioglimento del gruppo: e così abbiamo Ringo Starr che in Early 1970 commenta l’amara fine dei Beatles, George Harrison che sfoga un suo litigio con Paul in Wah Wah, mentre McCartney e Lennon si scambiano accuse, rispettivamente, con Dear Friend e How Do You Sleep?. Altre frecciate da parte di George, verso Paul ma anche John, si trovanon in Living In The Material World. Altre beghe contrattuali e giudiziare in Sue Me Sue You Blues, ancora con Harrison, che tuttavia è l’autore della prima canzone-omaggio a Lennon, All Those Years Ago (nella foto, la copertina del singolo), cosa che anche McCartney farà con la sua Here Today. Invece la morte prematura dello stesso George sarà ricordata da Ringo in Never Without You. Altri riferimenti espliciti ai Beatles in quanto tali si trovano in God di John, in I’m The Greatest di Ringo e in When We Was Fab di George.

In realtà i riferimenti all’uno o all’altro Beatle sono molti di più: ricordo la tesi d’uno studente australiano che affermava come la maggior parte delle canzoni dei Beatles scritte da John e Paul fosse un continuo botta & risposta fra i due: e così, per esempio, se John sceglieva di cimentarsi con la cover di Money (That’s What I Want), Paul rispondeva con la sua Can’t Buy Me Love. Altri riferimenti a McCartney si trovano in You Can’t Do That e Glass Onion, mentre pare che il bassista fosse anche il destinatario di Back Off Boogaloo, uno dei primi pezzi solisti di Ringo, e nella conciliatoria I Know (I Know) di John. E’ un aspetto molto interessante nel canzoniere dei Beatles che meriterebbe un post tutto per sé… per ora andiamo avanti, con esempi presi da altre discografie.

Passando ai Pink Floyd, abbiamo l’arcinota Shine On You Crazy Diamond che ci ricorda Syd Barrett con struggente nostalgia, così come Wish You Were Here e Nobody Home. Ma è dopo la dolorosa defezione di Roger Waters che i componenti dei Floyd iniziano a battersi con le canzoni: e così per un David Gilmour che, rivolgendosi al burbero bassista, canta You Know I’m Right, abbiamo un Waters che replica in Towers Of Faith… ‘questa band è la mia band’. In seguito Gilmour cercherà di essere più conciliante ma Waters seppe solo mandarlo affanculo… è quanto sembra emergere fra le righe di Lost For Words. Altri riferimenti a Barrett e allo stesso Waters si ritrovano in Signs Of Life, brano d’apertura di “A Momentary Lapse Of Reason”.

Risentimenti vari anche in casa Rolling Stones: Mick Jagger e Keith Richards se li sono scambiati a vicenda negli anni Ottanta con, rispettivamente, Shoot Off Your Mouth e You Don’t Move Me. Rabbia verso altri (ex) partner musicali si trovano anche in F.F.F. dei PiL (indirizzata a Keith Levene, solo pochi anni prima affettuosamente ritratto in Bad Baby), in This Corrosion dei Sisters Of Mercy (l’indirizzo è quello di Wayne Hussey), in Fish Out Of Water dei Tears For Fears di Roland Orzabal (il destinatario è ovviamente Curt Smith) e sopratutto in Liar dei Megadeth, ovvero una scarica di pesanti insulti verso l’ex chitarrista Chris Poland.

In casa Queen siamo invece addolorati per la morte di Freddie Mercury: ce lo cantano Brian May con la sua Nothin’ But Blue (alla quale partecipa pure John Deacon) e Roger Taylor con Old Frieds. Ma trasudano tristezza anche Wish You Were Here dei Bee Gees e Knock Me Down dei Red Hot Chili Peppers: nella prima si piange la morte prematura di Andy Gibb, fratello più giovane di Barry, Robin e Maurice, nella seconda si piange invece quella del chitarrista Hillel Slovak. Ancora in casa Chili Peppers, fra l’altro, in Around The World del 1999 viene citato anche il sostituto di Slovak, il più noto John Frusciante.

Sentimenti di rivalsa invece con Don’t Forget To Remember dei Bee Gees, Solsbury Hill di Peter Gabriel, We Are The Clash dei Clash, Why? di Annie Lennox e No Regrets di Robbie Williams: la prima è un monito a Robin Gibb (in quel momento fuori dai Bee Gees), la seconda parla del perché Peter ha deciso di mollare i Genesis, la terza è rivolta da Joe Strummer contro Mick Jones, la quarta è indirizzata a Dave Stewart, partner della Lennox negli Eurythmics, mentre la quinta è rivolta al resto dei Take That, per i quali Robbie non prova ‘nessun rimorso’.

Altri riferimenti più o meno velati ai propri (ex) compagni di gruppo si trovano in Dum Dum Boys di Iggy Pop, Public Image dei PiL, The Winner Takes It All degli Abba, Should I Stay Or Should I Go? dei Clash, The Bitterest Pill dei Jam, In My Darkest Hour dei Megadeth. Ne conoscete degli altri? Sono sicuro che ce ne sono molti ma molti di più! – Matteo Aceto

(ultimo aggiornamento il 2 marzo 2009)

Quando il cinema entra nei videoclip

michael-jackson-liberian-girl-immagine-pubblicaMi fa sempre un certo effetto vedere qualche attore famoso, o ancor meglio qualche divo di Hollywood, recitare una parte nei videoclip musicali. In questo caso credo che il record spetti a Michael Jackson: diversi suoi video hanno ospitato celebri attori americani, in particolare nel video di Liberian Girl (nella foto, la copertina del singolo), brano tratto del celebre album “Bad” (1987), dove c’è una parata di stelle dall’inizio alla fine davvero da antologia.

Anche il video di Ghostbusters, il celebre hit-single di Ray Parker Jr., tema della colonna sonora del film omonimo, vantava un bel cast: oltre al balletto con i quattro acchiappafantasmi originali, vale a dire Dan Aykroyd, Bill Murray, Ernie Hudson e Harold Ramis, il video figura infatti anche i vari John Candy, Chevy Chase, Danny DeVito e Peter Falk. Pure il nostro Renato Zero s’è però difeso bene: nel suo video di Ancora Qui, datato 2009, figurano infatti Manuela Arcuri, Asia Argento, Paola Cortellesi, Massimo Ghini, Leo Gullotta, Alessandro Haber, Rodolfo Laganà, Giorgio Panariello, Rocco Papaleo, Giorgio Pasotti, Vittoria Puccini, Elena Sofia Ricci ed Emilio Solfrizzi.

Infine ci sono dei grandi registi che hanno accettato di girare dei videoclip e anche in questo caso Michael Jackson ha parecchio da dire. Ecco quindi la lista di quei videoclip – che ho trovato o che ricordavo (non valgono le scene tratte dal film del quale il brano è l’eventuale colonna sonora) – che includono almeno un attore famoso o che sono stati girati da celebri registi. Ho aggiunto anche i nomi che alcuni miei lettori hanno riportato fra i commenti…

  • Lysette Anthony: in Run To You di Bryan Adams, in Looking For The Summer di Chris Rea e in I Feel You dei Depeche Mode.
  • Asia Argento: in (s)Aint di Marilyn Manson (anche in veste di regista)
  • Manuela Arcuri: in Somewhere Here On Earth di Prince
  • Dan Aykroyd: in Liberian Girl di Michael Jackson, in X Colpa Di Chi di Zucchero, e in We Are The World degli USA For Africa
  • Jim Belushi: in X Colpa Di Chi di Zucchero
  • Hugh Bonneville: in The Importance Of Being Idle degli Oasis
  • Peter Boyle: in Three Wishes di Roger Waters
  • Marlon Brando: in You Rock My World di Michael Jackson
  • Adrian Brody: in A Sorta Fairytale di Tori Amos
  • Robert Carlyle: in Little By Little degli Oasis
  • Chevy Chase: in You Can Call Me Al di Paul Simon
  • Sacha Baron Cohen: in Music di Madonna
  • Sofia Coppola: in Deeper And Deeper di Madonna
  • Geppi Cucciari: in Se Mi Ami Davvero di Mina & Adriano Celentano
  • Macaulay Culkin: in Black Or White di Michael Jackson
  • Robert Downey Jr: in I Want Love di Elton John
  • Irene Ferri: in Siamo Soli di Vasco Rossi
  • Claudia Gerini: in Amore Impossibile dei Tiromancino
  • Whoopi Goldberg: in Liberian Girl di Michael Jackson
  • Steve Guttenberg: in Liberian Girl di Michael Jackson
  • Daryl Hannah: in Feel di Robbie Williams
  • Rutger Hauer: in On A Night Like This di Kylie Minogue
  • Nicole Kidman: in Somethin’ Stupid di Robbie Williams, dove la bella Nicole duetta con lo stesso Robbie
  • Udo Kier: in Deeper And Deeper di Madonna e in Make Me Bad dei Korn
  • Christopher Lambert: in Princes Of The Universe dei Queen
  • Dolph Lundgren: in Believer degli Imagine Dragons
  • Michael Madsen: in You Rock My World di Michael Jackson
  • Debi Mazar: in diversi video di Madonna, fra cui Music
  • Brittany Murphy: in Closest Thing To Heaven dei Tears For Fears
  • Eddie Murphy: in Remember The Time di Michael Jackson
  • Mike Myers: in Beautiful Stranger di Madonna
  • Francesca Neri: in Un’Altra Te di Eros Ramazzotti
  • Brigitte Nielsen: in Make Me Bad dei Korn
  • Gary Oldman: in Love Kills di Joe Strummer
  • Natalie Portman: in Dance Tonight di Paul McCartney
  • Dennis Quaid: in Thing Called Love di Bonnie Raitt
  • Eric Roberts: in We Belong Together di Mariah Carey
  • Winona Ryder: in Here With Me dei Killers
  • Riccardo Scamarcio: in Meraviglioso dei Negramaro
  • Arnold Schwarzenegger: in You Could Be Mine dei Guns N’ Roses
  • Emmanuelle Seigner: in Hands Around My Throat dei Death In Vegas
  • John Travolta: in Liberian Girl di Michael Jackson
  • Carlo Verdone: in Meraviglioso dei Negramaro e nel già citato Se Mi Ami Davvero di Minacelentano.
  • Christopher Walken: in Weapon Of Choice di Fatboy Slim
  • Carl Weathers: ancora in Liberian Girl
  • Bruce Willis: in Stylo dei Gorillaz

Infine, gli attori protagonisti del film “La Famiglia Addams”, fra cui Anjelica Houston, Raul Julia e Christina Riccci, figurano tutti in Addams Family Groove di M.C. Hammer.

Per quanto riguarda i registi, abbiamo invece…

  • Michael Bay: per Love Thing di Tina Turner, Do It To Me di Lionel Richie, e altri
  • Tim Burton: per nel già citato Here With Me e per Bones, entrambi dei Killers
  • Jonathan Demme: per The Perfect Kiss dei New Order
  • David Fincher: per… un sacco di gente! Qui mi limito a ricordare Englishman In New York di Sting, Freedom ’90 di George Michael, Vogue di Madonna, Cradle Of Love di Billy Idol, e Love Is Strong dei Rolling Stones
  • John Landis: per Thriller e per Black Or White di Michael Jackson
  • Spike Lee: per Cose Della Vita di Eros Ramazzotti
  • Russell Mulcahy: per alcuni video dei Duran Duran, dei Queen e di Elton John
  • Roman Polanski: per Gli Angeli di Vasco Rossi
  • Martin Scorsese: per Bad di Michael Jackson
  • Julien Temple: per diversi video di David Bowie
  • Gus Van Sant: per Fame ’90 di David Bowie.

Se ne conoscete/ricordate degli altri potete scriverlo nei commenti, così come hanno fatto gli amici Liar e Marckuck, che ovviamente ringrazio [aggiornato il 21 ottobre 2018].

Julien Temple, “Joe Strummer – The Future Is Unwritten”, 2007

joe-strummer-film-clash-immagine-pubblicaMiracolosamente, il docufilm di Julien Temple su Joe Strummer, “The Future Is Unwritten”, è arrivato anche in una sala cinematografica abruzzese, precisamente al Massimo di Pescara. La proiezione si è tenuta ieri sera e… non me la sono fatta scappare!

Antonella & io arriviamo per tempo, alle ventiettrenta, di fronte ad un botteghino già molto affollato: un quantitativo di gente che non mi aspettavo di trovare ma che mi ha fatto molto piacere di vedere. Quando entriamo in sala riusciamo per fortuna a trovare due comodi posti nelle file centrali ma entro le ventuno, ora d’inizio della proiezione, la sala è già piena.

Il docufilm di Temple parte già alla grande, con la storica ripresa (in bianco & nero) di Joe che registra la sua voce solista sulla base strumentale – che in quel momento ascolta solo lui, in cuffia – di White Riot, il primo singolo dei Clash. Poi entra prepotentemente & selvaggiamente il resto della musica, con le immagini che stavolta passano al cortile di casa Mellor (il vero cognome del nostro) dove troviamo il piccolo Joe a giocare col fratellino maggiore David. Queste immagini iniziali sono fra le poche che mi hanno veramente emozionato: non avevo mai visto quelle sequenze amatoriali (a colori) del giovane Strummer, così come le foto e le immagini dei suoi genitori. Tutto il film scorre cronologicamente, dall’origine nella middle-class inglese alla resurrezione artistica del nostro con la sua ultima band, The Mescaleros, passando per gli anni in collegio, il periodo da squatter a Londra, l’esplosione del fenomeno punk, il suo passaggio dagli 101ers ai Clash, l’epopea di questi ultimi, gli anni di smarrimento nella seconda metà degli Ottanta.

Una storia complessa & affascinante, narrata oltre che dalle stesse parole di Joe (prese dalle sue interviste radio e/o televisive) anche da quelle persone – musicisti o tizi comuni – che più sono state in contatto con lui, fra cui: i tre ex Clash Mick Jones (in ottima forma & a suo agio), Topper Headon e Keith Levene (ma non clamorosamente Paul Simonon, chissà perché…), Tymon Dogg, Steve Jones dei Sex Pistols, Don Letts, Courtney Love, amici d’infanzia e compagni hippy e/o squatter, le sue due mogli – Gaby e Luce – più una serie d’interventi di gente che a mio avviso c’entra ben poco, come quel ruffianone onnipresente di Bono Vox. Che cavolo c’entra Bono con Joe Strummer?! Altri interventi ci mostrano invece gli attori Matt Dillon, Steve Buscemi e Johnny Depp e il regista Martin Scorsese.

E’ molto bello che la maggior parte di questi interventi si svolga attorno ad un falò sulla spiaggia, come piaceva fare a Joe per ritrovarsi e confrontarsi con gli amici più cari. Uno dei pochi che non appare di fronte al caldo scoppiettare delle fiamme è Mick Jones, che parla del suo rapporto artistico e umano con Strummer dal grattacielo in cui viveva da solo con la nonna, nella seconda metà degli anni Settanta. Grande Mick, da sempre il mio Clash preferito! Anche il manager-mentore dei Clash, il controverso Bernie Rhodes, dice la sua, col suo classico taglio polemico & aggressivo, anche se i suoi interventi sono soltanto vocali (credo telefonici), su alcune immagini di repertorio.

“The Future Is Unwritten” è quindi un ottimo documento per conoscere la vita privata & artistica di Joe Strummer, non manca nessun aspetto: il dolore per la perdita del fratello David, gli anni giovanili errabondi, la storia dei Clash ovviamente, le colonne sonore realizzate per il cinema (come “Walker”), le parti che Joe ha recitato per lo stesso cinema (come “Mystery Train” di Jim Jarmusch, che anch’egli contribuisce coi suoi ricordi attorno al falò), i suoi programmi radiofonici condotti per la BBC a cavallo fra gli anni Novanta e Duemila (spesso come colonna sonora abbiamo proprio i pezzi che Joe sceglieva, introducendoli con la sua inconfondibile voce), fino alla sua esibizione coi Mescaleros nell’autunno del 2002, per supportare la causa dei pompieri in sciopero, un’esibizione che vide anche la partecipazione (a sorpresa) di Mick Jones per un paio di pezzi dei Clash. Altre sequenze davvero emozionanti!

A parte clamorose assenze – una su tutte, come detto, Paul Simonon, ma anche i produttori Mikey Dread (peraltro morto pochi giorni fa…) e Bill Price, nonché Martin Slattery dei Mescaleros – l’unico grande punto debole che ho trovato in “The Future Is Unwritten” è la sua verbosità. Una valanga di parole, da quelle dei già numerosi ospiti attorno al falò a quelle dello stesso Joe, con la musica che quasi sempre resta un mero sottofondo. Una valanga di informazioni che danno sì un profilo abbastanza completo di Joe Strummer ma che risultano eccessivamente compresse in due ore di visione. Insomma, va pure bene la prima volta che vediamo il film, ma le altre volte? Dov’è la musica? C’è da dire che, almeno nei titoli, essa è abbastanza rappresentativa dei vari periodi artistici di Joe: ascoltiamo quindi (anche se per pochi secondi ognuna) Keys To Your Heart dei 101ers, White Riot, London Calling, Magnificent Seven, Rock The Casbah e altri classici dei Clash, estratti dalle colonne sonore di “Walker”, “Permanent Record” e “When Pigs Had Flies” (non sono sicuro che quest’ultimo titolo sia esatto, la musica resta tuttora inedita), Tony Adams , Johnny Appleseed e Willesden To Cricklewood dei Mescaleros. Insomma, i titoli non mancano ma li si ascolta veramente per pochi secondi, quasi sempre come sottofondo alle parole.

Altri aspetti che ho gradito poco – e dei quali francamente non ho visto l’utilità – sono stati gli inserti di sequenze tratte dal bel cartone animato de “La fattoria degli animali” e del film “1984”, entrambi presi dalle notevoli opere letterarie omonime di George Orwell. Potrebbero anche fare scena ma per me sono inutili.

In definitiva, penso che “The Future Is Unwritten” sia un ottimo racconto per chi vuole conoscere Joe Strummer sapendone veramente poco, o per chi volesse avere una guida visuale della sua carriera. Ma per chi conosce già la storia di Joe e consuma da anni album quali “London Calling” e “Sandinista!” questo film rappresenta solo un simpatico & gradito diversivo. A tratti pure un po’ noioso. – Matteo Aceto

The Clash: a Johnny Rotten non sono mai piaciuti

johnny-rotten-no-irish-no-blacks-no-dogsHo appena finito di leggermi questo librone di trecentocinquanta pagine buone, “No Irish, No Blacks, No Dogs”, l’autobiografia del leader dei Sex Pistols, il pittoresco John Lydon, alias Johnny Rotten.

Il libro, pubblicato nel 1994, è stato tradotto e stampato per il mercato italiano solo da poco, nel 2007, e questa la dice lunga sulla cultura rock nel nostro paese. Non posso lamentarmi se la maggior parte dei miei conterranei ritiene Ligabue o Piero Pelù delle icone del rock. A parte l’imbarazzante ritardo, comunque, ho trovato godibilissimo questo libro, anche quando Johnny racconta la sua infanzia e i suoi famigliari più prossimi, argomenti che ho sempre trovato un po’ noiosi nelle biografie dei miei idoli musicali.

C’è un passaggio in particolare che mi ha sorpreso, si trova a pagina 118: Johnny Rotten afferma chiaramente & senza alcun pelo sulla lingua che i Clash non gli sono mai piaciuti! Ma come?! Nelle interviste e nei libri riguardanti i Clash notavo sempre stima & rispetto per i Sex Pistols da parte della band di Joe Strummer, eppure John non li poteva soffrire, a quanto pare. Ecco la citazione, che riporto pari pari dall’edizione italiana dell’autobiografia, edita dall’Arcana e tradotta da Giuseppe Marano [le parentesi quadre sono mie per specificare il contesto]…

“Una volta facemmo un concerto il 4 luglio [1976] con i futuri Clash di spalla. Strummer e gli altri avevano un atteggiamento orribile in quel concerto. Keith Levene era nella band, ed era l’unico che riuscì a tenere una conversazione decente con noi. Bernie Rhodes, ex-socio di Malcolm [McLaren, manager dei Sex Pistols], gli faceva da manager ed era il loro primo concerto in pubblico. Malcolm e Bernie erano concorrenti, perciò Bernie stava aizzando la band a prendere una posizione molto anti-Pistols, come se fossero loro i veri re del punk. Non mi sono mai piaciuti i Clash. Come compositori non erano granché. A metà concerto erano già spompati perché all’inizio partivano in quarta. I Sex Pistols imparavano la dinamica sul palco. E di questo do merito a Paul [Cook, batterista del gruppo]. Sapeva spezzare il ritmo. Strummer prendeva il via e da quel momento in poi andava avanti a tutta velocità. Non va molto bene perché non basta essere veloci per comunicare qualcosa. Non puoi ballarci su, e riesci a malapena ad ascoltare. Dopo mezz’ora è sgradevole. Mi sembrava che i Clash, nell’aspetto e nel sound, urlassero contro se stessi dicendo niente in particolare: qualche slogan trendy preso qua e là da Karl Marx. I Clash introdussero l’elemento competitivo che trascinò giù un po’ tutto. Per noi non è mai stato così. Noi eravamo i Pistols e basta. Non ci siamo mai considerati parte di un movimento punk”.

Insomma, ci sono rimasto un po’ male: uno dei miei idoli punk, Johnny Rotten, che fa praticamente a pezzi una delle mie band preferite, The Clash, che s’è professata sempre ammiratrice & amica dei Pistols. Hai capito Johnny, non le risparmia per nessuno, nemmeno per i suoi colleghi… figuriamoci per gente come Mick Jagger (e gliene dice quattro nel corso del libro)!

“No Irish, No Blacks, No Dogs” è uno spasso, a tratti esilarante, spesso rabbioso, imprevedibilmente umano & anche toccante. Credo che sia il punto di vista privilegiato d’un esponente musicale che nel bene o nel male ha cambiato la faccia della musica pop-rock e della sua fruizione da parte del pubblico. E’ un libro che dovrebbe leggere ogni vero appassionato di punk music, anche se dice poco a proposito del dopo-Pistols. Pare che quello sarà il tema della seconda autobiografia che Johnny dovrebbe dare alle stampe in futuro. Prenderò senz’altro anche quel libro, sperando che la versione italiana non giunga ancora una volta con tredici anni di ritardo. – Matteo Aceto

The Clash, “The Clash”, 1977

the-clash-primo-album-omonimoQuesto 2007 ha segnato importanti anniversari discografici, celebrati chi più chi meno dalla stampa specializzata (e con molta più umiltà & meno pretese dal sottoscritto): “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967) dei Beatles, “Velvet Underground & Nico” (1967) dei Velvet Underground, “The Doors” (1967) dei Doors, “The Piper At The Gates Of Dawn” (1967) dei Pink Floyd, ma anche “Exodus” (1977) di Bob Marley & The Wailers, “Never Mind The Bollocks” (1977) dei Sex Pistols, la colonna sonora di “Saturday Night Fever” (1977, quella coi pezzi dei Bee Gees per intenderci), ma pure “Appetite For Destruction” (1987) dei Guns N’ Roses.

Io a questa lista aggiungerei anche “Low” e “Heroes” di David Bowie, “The Idiot” di Iggy Pop, “News Of The World” (1977) dei Queen (è quel disco che contiene We Are The Champions e We Will Rock You, avete presente?), “The Clash” (1977) dei Clash, “…Nothing Like The Sun” (1987) di Sting, “Sign ‘O’ The Times” (1987) di Prince, e “Bad” (1987) di Michael Jackson: alcuni di essi li ho già recensiti alla bellemmeglio su questo blog, di altri mi piacerebbe parlare in post futuri, mentre di “The Clash” parlerò subito, riciclando idee già scritte in un mio vecchio post.

“The Clash”, album di debutto dei Clash, fu il secondo grande album punk a vedere la luce in Gran Bretagna, nel corso del 1977, l’anno che sancì l’affermarsi nelle classifiche riservate al pop-rock di una nuova & ruvida sonorità, il punk per l’appunto. Iniziarono a febbraio i Damned di Brian James e Captain Sensible con l’album “Damned Damned Damned”, ad aprile seguirono i nostri con “The Clash” e completarono la trilogia di classici punk i Sex Pistols, col fondamentale “Never Mind The Bollocks”, pubblicato a novembre, anche se era pronto già da diversi mesi prima.

A partire dal 12 febbraio 1977, nel corso di tre lunghi weekend giovedì-domenica, i Clash e il produttore Mickey Foote (lo stesso tecnico del suono che accompagnava la band nei concerti) sono impegnati per l’incisione del loro album d’esordio agli studi londinesi della CBS . L’atteggiamento assunto dai Clash nei confronti del personale in studio è di aperta sfida: all’epoca la CBS era la casa discografica più grande al mondo e i Clash la vedevano come una sorta di multinazionale alla quale opporsi per non farsi fagocitare. Joe Strummer preferisce incidere le sue parti vocali quando il resto del gruppo non c’è: canta rivolto contro il muro e al contempo suona la sua chitarra ritmica. Evidentemente, secondo lui, ciò era il solo modo possibile per ricreare in studio una sua performance dal vivo; tuttavia la sua voce non è nelle condizioni ottimali, dato che Joe accusava dei noduli alla gola.

Pare, inoltre, che molto del suo contributo strumentale sia stato sostituito a sua insaputa dalla chitarra di Mick Jones, che è il componente dei Clash che, in fin dei conti, più si adatta all’ottica lavorativa in studio: utilizza tre diverse chitarre e collabora col fonico per la resa ottimale dei suoni. Mick dirige anche le operazioni dei compagni: in particolare, insegna a Paul Simonon quali parti di basso deve eseguire… Paul, infatti, aveva le note disegnate sulla tastiera del suo strumento! Contrariamente ad alcune dicerie, però, Simonon eseguì effettivamente le sue parti di basso. C’è da dire, comunque, che il suono di basso che si ascolta per tutto il disco è piuttosto pronunciato e contribuisce enormemente alla definizione del sound complessivo in “The Clash”.

Terry Chimes, già ufficialmente fuori dai Clash, è stato il membro della band meno collaborativo: s’è limitato ad eseguire le istruzioni impartite dagli altri & a suonare le sue parti di batteria correttamente. Si discute, invece, sull’effettivo ruolo del produttore Mickey Foote: anche se Mick Jones abbia potuto svolgere un ruolo di produttore di fatto, a Foote si deve riconoscere quantomeno l’importante ruolo da lui assunto di cuscinetto tra l’aggressività dei Clash in studio e i tecnici della casa discografica, per la prima volta alle prese con la musica punk e i suoi stilemi (ricordiamoci che a quei tempi la CBS andava forte con gente come gli ABBA…).

Per quanto riguarda le singole canzoni, invece…

1) L’iniziale Janie Jones è dedicata ad una nota ‘signora’ londinese: è un brano carico di ruvida urgenza, cantato perlopiù coralmente, mentre negli ultimi ventitré secondi esplode la sola voce di Mick.

2) Remote Control, un duetto tra Mick e Joe, è il brano più convenzionalmente rock dell’album: perciò è stato scelto come secondo singolo dalla CBS (ad insaputa dei Clash che s’incazzarono parecchio).

3) I’m So Bored With The U.S.A. parla dell’americanizzazione della Gran Bretagna e dei suoi costumi; originariamente la canzone era intitolata I’m So Bored With You ed in effetti è questa la frase che cantano Mick e Paul nei cori.

4) La versione di White Riot contenuta nel disco risulta più grezza all’ascolto rispetto a quella pubblicata su singolo qualche tempo prima: è diversa sia nella strumentazione e sia nel cantato, inoltre non prevede gli effetti (sirena, vetro infranto, allarme antincendio, ecc.) usati per il singolo.

5) Hate & War è un brano cantato perlopiù da Mick e cita l’opposto dell’ideale hippy di ‘peace & love’: la situazione non è certamente vista come positiva, bensì viene criticata come segno dei tempi che rende più difficile la vita dei ragazzi.

6) Tranne Police & Thieves (che vedremo fra poco), tutte le canzoni di questo disco sono accreditate alla coppia Strummer/Jones, mentre la breve & coinvolgente What’s My Name? reca un credito di composizione anche per Keith Levene, chitarrista nei Clash fino al settembre ’76. Intervistato in anni recenti, Levene ha affermato che, pur non piacendogli l’album, avrebbe dovuto spettargli lo status di coautore con Strummer & Jones in tutte le canzoni contenute in “The Clash”. Chissà…

7) Deny presenta una struttura più complessa: il tempo cambia più volte dopo il ritornello, mentre a poco più di un minuto dalla fine la voce di Mick s’intreccia al canto rabbioso di Joe.

8) London’s Burning è uno dei pezzi più rappresentativi dell’album: la dichiarazione iniziale di Strummer che sembra asserire un dato di fatto (e il rullare dei tamburi rafforza il tutto), mentre il ritornello corale ad opera di Mick e Paul, l’assolo di chitarra supportato dalle frasi gridate di Joe, e il pestare della batteria di Terry rendono il finale di questa canzone davvero esplosivo.

9) Career Opportunities presenta una complessità atipica per gli standard punk: questo come altri brani dell’album fanno intendere chiaramente che i Clash hanno (e avranno) molto più da dire rispetto ai loro colleghi e rivali musicali.

10) Cheat, a mio parere, è il brano meno riuscito del disco: le idee ci sono (come l’effetto di phaser sul finale) ma evidentemente i tempi ristretti di lavoro e la difficoltà dei Clash ad ambientarsi in un ambiente non familiare come quello dei CBS Studios hanno fatto la loro parte.

11) Protex Blue è un puro brano punk, una canzone ricca di vitalità dove Mick canta uno dei primi testi che ha scritto.

12) Eccoci quindi alla cover di Police & Thieves, un pezzo reggae di Junior Marvin: seppur aggiunta per dare più corpo all’album (dura la bellezza di sei minuti), tutti i Clash si dimostrarono entusiasti del risultato finale, in particolare colpisce l’efficace arrangiamento per due chitarre che Mick s’è inventato.

13-14) 48 Hours presenta un grande coro a tre voci e un assolo di chitarra piuttosto rock ‘n’ roll, mentre Garageland è il malinconico brano di chiusura con tanto di armonica a bocca; il testo è una risposta al famigerato articolo di chi voleva rispedire i Clash al garage lasciando il motore acceso.
“The Clash” raggiunse piuttosto in fretta il 12° posto della classifica britannica: trattandosi d’un nuovo sound proposto da una nuova band, il risultato è sbalorditivo e la dice lunga sulla voglia di cambiamento che i giovani inglesi del tempo cercavano nel panorama musicale.

E per finire, alcune curiosità…
La strategia promozionale per “The Clash” era congiunta al magazine New Musical Express: le prime 10mila copie del disco contenevano un adesivo rosso da applicare a un tagliando pubblicato sul numero di aprile di NME, così da ottenere gratuitamente il singolo Capital Radio.
“The Clash” è stato pubblicato negli USA dalla Epic il 23 luglio 1979 con una scaletta differente: alle prime copie era anche allegato il singolo Gates Of The West / Groovy Times. Poche altre band sono state generose quanto i Clash.

– Matteo Aceto

Mick Jones

mick-jones-the-clash-big-audio-dynamiteMichael Geoffrey Jones (Londra, 26 giugno 1955), musicalmente noto come Mick Jones, è stato il vero motore dei Clash, il principale architetto del sound del gruppo. A lui si deve l’evoluzione musicale della storica band inglese, dal furioso punk degli esordi con “The Clash” (1977) alle sonorità dance e funky di “Combat Rock” (1982), passando per i generi più disparati quali reggae, ska, soul, hip-hop, rap, rhythm ‘n’ blues e rockabilly. Nella sua immaginazione, non c’erano barriere che la musica dei Clash non avrebbe potuto sfondare; eppure il buon Mick ha dovuto vedersela con gli altri due leader della band, ovvero Joe Strummer e Paul Simonon, che nel 1983 hanno preferito buttarlo fuori dal gruppo e tornare ad un punk rock tanto anacronistico quanto banale negli intenti.

Figlio d’un tassista londinese e d’una madre d’origine ebrea fuggita dalle persecuzioni nella sua terra d’origine, la Russia, il piccolo Mick è stato allevato dalla nonna materna, Stella, dopo che il matrimonio dei Jones è andato in frantumi nel 1963. Abbandonato dalle persone che più avrebbero dovuto stargli vicino, Mick ha trovato conforto nella musica: una passione sconfinata per artisti quali Beatles, Rolling Stones, Cream, Jimi Hendrix, The Who, Mott The Hoople, David Bowie e più tardi New York Dolls lo ha convinto ben presto a comprarsi una chitarra e a fondare varie band con gli amici. Il suo cammino artistico giunge ad una svolta nel 1975, quando conosce Tony James, bassista col quale fonda i London S.S., e Bernie Rhodes, consociato in affari di Malcom McLaren, proprietario del Sex, la nota boutique alla moda londinese e manager dei New York Dolls.

Bernie, in una sorta di competizione artistica ma anche ideologica col suo partner McLaren, in procinto di lanciare il fenomeno Sex Pistols, decide di diventare il manager dei London S.S., divenendone in breve tempo anche il direttore d’immagine, l’ideologo e il talent scout per i nuovi membri del gruppo. Iniziano così una serie di audizioni che faranno dei London S.S. una band leggendaria per le origini della musica punk: nelle sue fila passeranno i prossimi membri dei Clash (Terry Chimes, Keith Levene, Topper Headon) ma anche future star come Brian James e Rat Scabies (che di lì a poco formeranno i Damned). Mick sarà costretto a separarsi da Tony James (mai abbastanza gradito da Bernie), anche se i due resteranno sempre amici, tanto che nei primissimi anni del successo coi Clash, Mick e Tony vanno a vivere sotto lo stesso tetto.

Con James fuori, il nome del gruppo cambia in The Young Colts, composto da Mick, dal chitarrista Keith Levene e dall’aspirante bassista Paul Simonon (Mick lo conobbe nel corso di un’audizione dei London S.S., rimanendo colpito dal suo look da rude-boy londinese… dovrà comunque insegnargli a suonare il basso). Il biennio 1976-77 è un periodo carico di novità che si susseguono rapidamente: i Young Colts propongono a Joe Strummer, il carismatico leader d’una pub-band chiamata The 101ers, di unirsi al gruppo come cantante. Joe, pressato da Bernie, finirà con l’accettare e la band, costituita a questo punto da Mick Jones, Keith Levene, Paul Simonon, il batterista Terry Chimes e quindi Strummer, assume il nome The Clash e vola verso la leggenda.

Gli anni che discograficamente hanno visto attivo Mick Jones nei Clash (1977-82) disegnano un paesaggio sonoro in continua evoluzione artistica che ha dato vita a tre capolavori indiscussi del rock, ovvero gli album “London Calling” (1979), “Sandinista!” (1980) e “Combat Rock” (1982). Tutti quelli che hanno conosciuto da vicino il mondo dei Clash ricordano Mick come il componente del gruppo più professionale, quello più interessato alle tecniche di produzione in studio, nonché quello che musicalmente era sempre al passo coi tempi. Aveva anche un carattere difficile che nei momenti di tensione tendeva a chiudersi in se stesso e a farne un divo capriccioso & intrattabile. I Clash si sono sempre considerati come una gang e come tale si comportavano ma, col tempo, Joe e Paul hanno iniziato ad accusare il comportamento da star che tendeva ad assumere Mick: questa frizione diventa sempre più insanabile e così i due (su pressioni di Bernie) forzano l’uscita di Mick dai Clash nella tarda estate del 1983.

Jones non resta con le mani in mano e di lì a poco progetta già una nuova band: per un breve periodo si unisce ai General Public, dopodiché crea i TRAC che debuttano nel 1984 a nome di Big Audio Dynamite. La storia dei B.A.D. è bella & affascinante e testimonia sulla lunga distanza che, musicalmente parlando, Mick aveva ragione su Joe e Paul. Terminato il progetto B.A.D. (dopo varie incarnazioni chiamate Big Audio Dynamite II e Big Audio), sul finire degli anni Novanta, Mick ha ripreso a scrivere canzoni con Joe Strummer e si è distinto nella produzione di altri artisti (recentemente per i Libertines e i progetti solistici di Pete Doherty, ma in passato anche per il suo idolo Ian Hunter, la cantante americana Ellen Foley, con la quale Mick ha vissuto una storia sentimentale, i Theatre Of Hate e altri).

Dal 2002, Mick Jones è tornato in prima linea coi Carbon/Silicon, una nuova band creata col suo amico di sempre, Tony James. Inizialmente il gruppo ha iniziato a distribuire la propria nuova musica in download gratuito, anticipando band più acclamate come i Radiohead, dopodiché, nel corso del 2007 ha debuttato nel tradizionale mercato discografico con un primo album, “The Last Post”, che si avvale anche di Leo Williams, al fianco di Mick nella prima e più esaltante fase dei Big Audio Dynamite. Infine, proprio questi ultimi, saranno oggetto di una clamorosa reunion all’inizio del 2011, nella formazione originale. [ultimo aggiornamento: 2 aprile 2011] – Matteo Aceto

Richard Ashcroft, “Keys To The World”, 2006

richard-ashcroft-keys-to-the-worldSul finire del 2005 ebbi il piacere d’ascoltare in radio una gran bella canzone che tornò a farmi interessare alla musica più contemporanea: si trattava di Break The Night With Colour di Richard Ashcroft (voce e anima dei Verve), canzone che continuai ad ascoltare per mesi e che, di lì a poco, mi spinse all’acquisto di “Keys To The World”. Acquisto avvenuto all’inizio di quest’estate, quando ho scovato in un centro commerciale una copia sola soletta di “Keys To The World” all’allettante cifra di otteurennovanta.

Terzo album solista per Richard Ashcroft, “Keys To The World” mi piace un po’ di più ogni volta che lo metto nel lettore, sia a casa che in auto: non è un disco contenente chissà quali mirabolanti effetti speciali o chissà quale musica innovativa (che di questi tempi è cosa assai rara), tuttavia è un bel lavoro, suonato e prodotto con gusto, caldo & sentimentale ma non stucchevole & lagnoso, leggero ma non stupido, coinvolgente ma non impegnativo. Insomma, un buon disco che assolve ottimamente alla sua funzione: farci compagnia per quarantacinque minuti con della buona musica pop-rock inglese, senza però ridursi a mero sottofondo.

1) Si parte con la spumeggiante Why Not Nothing?, un movimentato brano vagamente retrò (ma suona retrò un po’ tutto il disco, sarà per questo che mi piace così tanto…) che strizza l’occhio agli anni Sessanta. Anche la distribuzione spaziale degli strumenti ricorda il glorioso passato pop d’oltremanica, soprattutto le parti di chitarra, separate nei canali sinistro e destro.

2) Music Is Power è la rivisitazione da parte di Richard d’un vecchio brano del compianto Curtis Mayfield: in pratica sarebbe una cover, ma il nostro ne ha riscritto completamente il testo. Ammetto di conoscere poco l’arte del buon Curtis, tuttavia la coinvolgente Music Is Power mi ricorda perlopiù lo stile sonoro degli Style Council.

3-4) Ed eccoci finalmente all’emozionante Break The Night With Colour, che ritengo la migliore fra le dieci canzoni incluse in “Keys To The World”. Anzi, dirò di più… dopo pochi ascolti è diventata già una di quelle che amo di più, sarà che mi ricorda parecchio lo stile di John Lennon. Segue a ruota la melodica Words Just Get In The Way, pubblicata come secondo singolo, che è una canzone assolutamente deliziosa, strepitosamente semplice & appassionata. Nient’altro da dire.

5) A metà del disco troviamo la canzone che gli dà il titolo, Keys To The World, dal ritmo appena più sostenuto rispetto alle ultime che abbiamo visto. E’ il solo brano presente qui ad avvalersi di una voce che non sia quella di Richard (che di solito canta tutte le parti vocali, da quelle soliste ai vari tipi di cori), cioè quella d’una corista che infonde a Keys To The World un che di etnico. In effetti, questo quinto pezzo in programma suona come una metropolitana world music, sembra adatto come colonna sonora per un giro turistico nella parte più cosmopolita di Londra.

6) Davvero molto bella la canzone seguente, la commovente Sweet Brother Malcom, molto più minimale ed intima delle altre viste fin qui. Con l’inconfondibile voce di Richard ben in primo piano e una delicata orchestra a farle da contrappunto, lo strumento portante diventa quindi la chitarra acustica. Credo che Sweet Brother Malcom sia una delle migliori creazioni da parte del nostro.

7) A seguire troviamo la dolente ma magnifica Cry Til The Morning: l’inizio è lento ma dopo poco più d’un minuto subentra la bella base ritmica guidata dal piano. Stile vagamente lennoniano anche qui, per un pezzo maturo che conduce i nostri sentimenti alla deriva, specie nel finale, affidato ad un circolare & avvolgente assolo di chitarra elettrica.

8) La romantica Why Do Lovers? è un altro dei pezzi forti di questo disco: un crescendo melodico ed emozionale molto intenso, con la voce di Richard in primo piano che pare spezzarsi dopo ogni verso. Why Do Lovers? rappresenta un tipo di ballata che può venir fuori da una sola terra… la Gran Bretagna, senza dubbio.

9) Simple Song è il brano che meno mi piace in questo disco, anche se oggi lo apprezzo di più rispetto alle prime volte che l’ascoltavo. E’ una canzone piuttosto teatrale che s’incastra fino ad un certo punto con le altre presenti in “Keys”, anche se non si tratta affatto d’una cattiva prova… forse suona un po’ artificiosa.

10) La conclusiva World Keeps Turning è un classico pezzo da ascoltarsi in auto, meglio ancora se si è sulla via del ritorno. Dopo l’iniziale Why Not Nothing?, questo è il brano più veloce del disco, come se il buon Richard avesse voluto raccogliere un cuore più lento e riflessivo fra un inizio e una fine più movimentate.

Prodotto dallo stesso Richard Ashcroft col fido Chris Potter, “Keys To The World” figura diversi musicisti dal passato (per me) interessante: fra i batteristi troviamo l’ottimo Steve Sidelnyk, già con gli Orange Juice e ospite frequente nei primi singoli degli Style Council; fra i bassisti troviamo John Giblin, produttore e collaboratore di alcuni dei migliori lavori dei Simple Minds; al piano c’è invece Martin Slattery, già coi Mescaleros del compianto Joe Strummer. Infine, le efficaci partiture orchestrali, presenti un po’ ovunque, sono eseguite dalla London Metropolitan Orchestra. – Matteo Aceto