Eagles, “Hotel California”, 1976

Eagles Hotel California immagine pubblicaUno dei dischi più famosi e venduti di tutti i tempi, “Hotel California”, il capolavoro degli Eagles datato 1976, segna tuttavia un deciso spartiacque nella storia della celeberrima band americana. Perso già con l’album precedente uno dei membri fondatori, Bernie Leadon, in “Hotel California” fa il suo debutto il chitarrista Joe Walsh, mentre un altro fondatore, Randy Meisner, è qui all’ultimo capitolo nella sua storia con gli Eagles. Restano in mezzo i talenti autoriali, strumentali e vocali di Glenn Frey e Don Henley, qui superbamente affinati dopo cinque anni di attività comune e quattro album di crescente successo, e il chitarrista Don Felder, al quale si deve l’inizio della nostra storia.

Hotel California, infatti, nacque proprio da una sequenza di accordi che il nostro chitarrista mise su nastro mentre strimpellava – in stato di grazia, evidentemente – nella sua casa in riva al mare. Passata per le mani di Frey e Henley, e col contributo chitarristico di Walsh (che nella formidabile coda strumentale della canzone duetta splendidamente con lo stesso Felder), la canzone è diventata quella che tutti noi conosciamo, ovvero una superba ballata rock con tanto di venature tex-mex e perfino reggae. Penso che una canzone come Hotel California non abbia bisogno di ulteriori presentazioni in quanto è davvero una delle canzoni più famose di tutti i tempi.

Tornando alla scaletta originale dell’album, passiamo quindi a New Kid In Town, altro pezzo molto famoso dei nostri; amabilmente cantata da Glenn Frey, New Kid In Town è uno dei più brillanti esempi di quella fusione tra country & western e sensibilità pop-rock nella quale gli Eagles sono dei maestri assoluti. Decisamente più rock è invece la trascinante e opportunamente stradaiola Life In The Fast Lane, con Don Henley nuovamente al microfono principale.

Wasted Time è sostanzialmente una ballata pianistica, discendente diretta di quella Desperado pubblicata tre anni prima; è soltanto un tantino meno efficace di quell’illustre predecessore, e forse quella sua ripresa orchestrale che apre il lato B può suonare come un inutile barocchismo. Ci pensa comunque la successiva Victim Of Love, uno dei pezzi più vigorosi e squisitamente rock degli Eagles, a rimettere il tutto nella giusta prospettiva, grazie alla graffiante voce di Henley, alle chitarre di Felder e Walsh in grande spolvero e, più in generale, a un’esecuzione strumentale che molto ricorda un’incisione in presa diretta.

Con la commovente Pretty Maids All In A Row siamo invece alle prese con quella che molto probabilmente resta il contributo autoriale più bello che Joe Walsh abbia mai dato agli Eagles; scritta con l’amico Joe Vitale e cantata dallo stesso Walsh, Pretty Maids è semplicemente una delle tante, e indimenticabili, ballate presenti nel canzoniere dei nostri. La successiva Try And Love Again è invece scritta e cantata da Randy Meisner, che in quest’occasione diventata il suo saluto di commiato agli Eagles; è un canto appassionato, quello di Meisner, con quella tipica voce alta che a me piace tantissimo e che tanto ha caratterizzato il sound degli Eagles nella sua prima e trionfale parte di carriera.

Chiude il tutto quella che mi sembra la canzone meno riuscita dell’intero album, ovvero una ballata pianistica chiamata The Last Resort; non che sia brutta (a parte che il concetto di “brutta canzone” forse non può applicarsi agli Eagles) ma ha una costruzione alquanto tortuosa che la rende molto meno spontanea delle altre. Non le giova comunque una durata di oltre sette minuti e il fatto che sia la terza ballata di fila dopo Pretty Maids e Try And Love Again: forse un ordine diverso delle canzoni in scaletta, con una The Last Resort e con tutto il suo carico ecologista messi a metà del disco, avrebbe giovato all’attenzione dell’ascoltatore.

Piccola pecca, comunque, una delle poche, in un album come “Hotel California” che resta un punto di riferimento necessario per capire e apprezzare l’evoluzione della musica rock (e popolare) avvenuta in un decennio fondamentale come quello degli anni Settanta. Si potrebbe dibattere se “Hotel California” sia o non sia l’album più bello degli Eagles: non saprei dirlo, ma certamente è l’album che consiglierei a chiunque avesse intenzione di ascoltare un album degli Eagles per la prima volta. – Matteo Aceto

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Eagles, “Long Road Out Of Eden”, 2007

Eagles - Long Road Out Of EdenIl gennaio 2016 è stato fatale per diversi grandi nomi della musica. Non mi ero ancora capacitato della morte di David Bowie che già leggevo di un’altra illustre scomparsa dal firmamento del rock mondiale: Glenn Frey, autore, voce, chitarra e fondatore degli Eagles. Sono sempre stato un grande appassionato della famosa band californiana, e in Glenn – che avevo avuto modo di apprezzare anche come solista – trovavo il mio componente preferito. Un mio pur piccolo tributo mi sembra doveroso: si tratta della rivisitazione della recensione che scrissi nel 2008 a proposito di “Long Road Out Of Eden”, l’ultimo album degli Eagles, dell’ormai lontano 2007, quando non soltanto Glenn Frey era vivo e vegeto ma quando il gruppo stesso era tornato a nuova vita, pubblicando il suo primo album dai tempi di “The Long Run” del 1979.

Ora che Glenn non c’è più, “Long Road Out Of Eden” diventa il testamento artistico degli Eagles, l’epitaffio d’una carriera stratosferica, ricchissima di successi e sorretta da una popolarità che non è mai scemata, e questo nonostante 28 anni di separazione tra l’ultimo e il penultimo album… un’eternità nel curriculum di qualunque rockstar. Dopo una tale attesa è difficile aspettarsi un altro capolavoro, c’è quasi da pensare che ormai si tratti di un’altra band.

Eppure non sono stati anni silenziosi: negli Ottanta, gli Eagles hanno spesso collaborato l’uno al progetto solista dell’altro, così da non tagliare mai del tutto i ponti; e poi c’era stato un primo ritorno, nel 1994, con l’album live “Hell Freezes Over”, impreziosito da quattro nuove canzoni da studio. Nel 2000 i nostri salutarono il nuovo millennio sul palco davanti al loro pubblico, mentre tre anni dopo aggiunsero la nuova Hole In The World in un’antologia di successi. Le stesse Fast Company, No More Cloudy Days e Do Something, tre delle venti canzoni contenute in “Long Road Out Of Eden”, sono state rese note al grande pubblico con qualche anno d’anticipo rispetto all’album.

Insomma, “Long Road Out Of Eden” non è venuto dal nulla ma ha richiesto anni di affinamento e ripensamenti. Lo stile musicale dell’album – edito sia come doppio ciddì che doppio vinile – è infatti quanto di più rassicurante un fan potesse desiderare: un perfetto mix fra sonorità retro e contemporanee, con più d’un occhiolino al glorioso passato della band. A proposito, la formazione è così composta: Glenn Frey – chitarra, tastiera, basso & voce – Don Henley – batteria, percussioni, chitarra & voce – Timothy B. Schmit – basso & voce – e Joe Walsh – chitarra, tastiera & voce. Manca quindi il chitarrista Don Felder, già da tempo fuori dalla formazione ufficiale degli Eagles, nonostante avesse partecipato al progetto “Hell Freezes Over”.

C’è da dire che alcuni brani suonano come delle prove soliste alle quali hanno collaborato gli altri in veste di musicisti e coristi: in questo senso credo che Frey l’abbia fatta da padrone, mentre più stretta mi pare l’intesa fra Henley e Schmit. Meno prominente, invece, il contributo di Walsh, tuttavia protagonista di alcuni momenti assai interessanti. Nel complesso possiamo però affermare che in “Long Road Out Of Eden” gli Eagles, intesi come una band, ci sono e si sentono eccome.

Si parte con No More Walks In The Wood, sorta d’inno ambientalista acappella: è una canzone minimale, pacata, della durata di appena due minuti, scritta da Don Henley e Steuart Smith (uno dei principali collaboratori al disco) ma basata su una poesia di John Hollander. Segue quindi la cover di How Long (che i nostri già eseguivano dal vivo nei primi anni Settanta), scelta come singolo apripista; scritta e pubblicata nel 1972 da J.D. Souther, storico (co)autore degli Eagles, How Long suona pur tuttavia irresistibilmente eaglesiana e figura i due leader, Glenn e Don, a dividersi il canto solista.

Prima composizione Henley/Frey a figurare nell’album, Busy Being Fabulous è un rilassato e orecchiabile country-rock dove Don canta della superficialità che può subentrare in una relazione. Lo stesso binomio del brano precedente è autore di What Do I Do With My Heart, tenera e romantica ballata, stavolta con Glenn alla voce solista; veramente da applausi il bridge seguìto da uno scambio vocale fra le voci di Frey, Henley – che si riserva anche alcune linee soliste – e Schmit per il ritornello finale.

Caratterizzata da batteria secca e pianoforte in stile western, Guilty Of The Crime è una baldanzosa cover d’un brano dei Bellamy Brothers; stavolta abbiamo Joe Walsh al microfono principale, con la sua chitarra solista più tipica che finalmente si ritaglia uno spazio maggiore di quanto le era stato concesso finora nell’album.

Splendida canzone, I Don’t Want To Hear Any More è una rivisitazione dell’ancora più splendida I Can’t Tell You Why del ’79, entrambe affidate alla delicata voce di Timothy B. Schmit. La canzone che più amo è però Waiting In The Weeds, una gemma prossima agli otto minuti di durata; cantata da Henley con commovente passione, alterna momenti più malinconici (nella parte delle strofe) a ottima musica da viaggio (nel ritornello, cantato all’unisono con Timothy). Bello il bridge, bella la lunga coda finale, belle le parti di banjo eseguite da Steuart, insomma una gran bella canzone!

Suadente e rilassata cavalcata country, No More Cloudy Days è scritta e cantata da Glenn: come in ogni grande pezzo degli Eagles, qui i cori sono bellissimi (con Henley e Schmit in primo piano), anche se il caldo assolo di sax in chiusura è più tipico dello stile solista freyano. Fast Company è invece un funky rock che sembra una sorta di distesa Life In The Fast Lane, altro hit storico dei nostri; la sua peculiarità è tuttavia il canto in falsetto di Henley, che non si ascoltava in modo così prominente da One Of These Nights del ’75. La morbida voce di Schmit torna invece in primo piano nella successiva Do Something, anche se la raschiata voce di Henley – oltre a farsi sentire forte e chiara nei cori – si ritaglia qualche verso in solitaria sul finale di questa commovente ballata.

Al delicato country di You Are Not Alone, scritto e cantato da Frey, spetta il compito di chiudere il primo cd su toni di speranza e dolcezza. Tutt’altra atmosfera troveremo nel secondo cd. Long Road Out Of Eden è infatti un dolente e amaro brano di progressive-rock della durata superiore ai dieci minuti, dove finalmente troviamo in grande spolvero la chitarra solista di Walsh; bello e coinvolgente il suo assolo, a cinque minuti buoni dall’inizio. Cantato da Henley (che è l’autore del brano assieme a Frey e Schmit), il testo è una critica esplicita all’America di oggi, di certo fra le cose più coraggiose ed epiche mai proposte dagli Eagles.

Quasi a voler schiarire la plumbea atmosfera del pezzo precedente, ecco I Dreamed There Was No War, un placido seppur breve strumentale composto da Frey, dove la chitarra solista viene sorretta da efficaci arrangiamenti per sintetizzatore e orchestra. Ancora Glenn è protagonista con Somebody, tirato brano rock da autoradio (scritto con uno degli autori di fiducia di Frey, Jack Tempchin), forte di scintillanti parti di chitarra. Il canto di Frey, piuttosto teso, è alle prese con un testo alquanto gotico… apparentemente c’entra poco con la produzione eaglesiana ma, a ben vedere, anche il testo di quel classicone di Hotel California ha un che di gotico e maledetto, per cui i conti tornano.

E se con Frail Grasp On The Big Picture torna protagonista la voce raschiata di Don, per un robusto brano funk-rock dai toni accusatori verso l’America della guerra e del petrolio, nella successiva Last Good Time In Town si risente il canto solista di Walsh. Qui l’arrangiamento latineggiante attenua un po’ il tono ombroso di questo lungo brano di rock californiano; se il testo (scritto proprio da Joe, con J.D. Souther) parla d’un volontario esilio, la musica è molto coinvolgente: oltre ai noti percussionisti Lenny Castro e Luis Conti, fa affidamento sulla secca batteria, la semplice ma pronunciata linea di basso, le coloriture di tastiere e fiati, ma soprattutto la chitarra alquanto blues di Joe.

I Love To Watch A Woman Dance è una cullante melodia cantata da Frey e affidata ad alcuni tipici strumenti western quali fisarmonica e banjo; sembra di sentire gli Eagles suonare davanti ad un falò nel cuore d’un villaggio di pionieri, mentre una qualche sensuale danzatrice ammalia gli occhi. E se con Business As Usual, brano viscerale introdotto da un’ariosa sequenza di accordi chitarristici scanditi da una secca batteria, la voce di Don è ancora critica verso la società, con Center Of The Universe quella stessa voce è invece alle prese con una disincantata canzone d’amore. Il tono complessivo di questo brano, perlopiù acustico, sembra molto triste ma l’esecuzione e l’intreccio delle voci durante i ritornelli lo trasformano in un’altra gemma all’interno di un album – ormai s’è capito – davvero imperdibile.

Placidamente cantata da Glenn Frey e scritta col fido Jack Tempchin, la messicaneggiante It’s Your World Now suona ad un primo ascolto piuttosto atipica per lo stile degli Eagles. Eppure, con la sua musica consolatoria e il suo testo di commiato, è perfetta per salutare i titoli di coda di questo film ideale che è “Long Road Out Of Eden”, album da studio finale per il celebre gruppo country-rock, qui alle prese con uno dei suoi progetti più riusciti. Addio Glenn, it’s our world now. – Matteo Aceto

Ringo Starr

ringo-starr-immagine-pubblicaL’unico dei Beatles ad aver assunto un nome d’arte, Ringo Starr, il nostro in realtà si chiama Richard Starkey, ed è nato a Liverpool il 7 luglio 1940, mentre l’Inghilterra subiva le conseguenze della guerra contro la Germania. I genitori di Richie provenivano dalla classe operaia più modesta, col papà che, quando il piccolo aveva tre anni, decide di mollare moglie & figlio. La madre di Richie, nonostante l’abbandono e le ristrettezze economiche, farà in modo di non far mancare nulla a quel suo unico figlio, fin troppo cagionevole di salute: infatti, nel corso dell’infanzia, Richie passerà più tempo in ospedale che a scuola.

A partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta, l’esplosione del rock ‘n’ roll in America e del fenomeno Elvis Presley hanno notevole risonanza in Inghilterra, specie in una città portuale come Liverpool, commercialmente aperta via mare agli Stati Uniti. Richie diventa un teddy boy ma non sarà mai un delinquente perché la sua gracile costituzione e la sua bassa statura non glielo permetteranno. Tuttavia la sua crescente passione per la musica trova finalmente sfogo quando il secondo marito di sua madre gli regala una batteria.

Il ragazzo inizia così a pestare sui tamburi con entusiasmo, rivelandosi alquanto portato. Ben prima di aver compiuto il suo ventesimo anno di vita, Richard Starkey sarà un richiesto batterista di diversi complessi & complessini liverpooliani, fra cui Rory Storm & The Hurricanes. Più o meno in quel periodo assume il suo noto pseudonimo artistico: Ringo perché portava (e porta tuttora) sempre diversi anelli (‘rings’) alle dita e Starr perché costituiva un’abbreviazione del suo cognome.

Con l’istrionico Rory Storm e i suoi Hurricanes, Ringo ha modo di girare l’Inghilterra e la città tedesca di Amburgo, meta lavorativa di vari altri gruppi liverpooliani. Sarà proprio ad Amburgo che il nostro avrà la possibilità di socializzare con un’altra band di Liverpool, i Beatles, un quartetto costituito dal ruvido John Lennon, dal talentuoso Paul McCartney, dallo schivo George Harrison e dall’anonimo Pete Best. E sarà proprio quest’ultimo che Ringo Starr andrà a sostituire dietro ai tamburi, una volta che i Beatles – guidati dal geniale manager Brian Epstein – avranno firmato un contratto discografico con George Martin della EMI.

Ringo debutta come batterista dei Beatles in studio, ad Abbey Road, nel settembre 1962, dopo un non propriamente caloroso benvenuto negli spettacoli dal vivo, quando le tante ammiratrici di Pete Best gliene urlavano di tutti i colori. Martin non fu particolarmente impressionato dalla tecnica di Ringo, tuttavia in poco tempo il nostro farà passi da gigante, contribuendo notevolmente alla definizione del sound dei Beatles. Essendo anche mancino (come McCartney), Starr svilupperà uno stile tutto suo e, con l’esplosione della beatlemania in tutto il mondo fra il ’63 e il ’64, quel suo stile diventerà presto una sorta di standard per tutti i futuri batteristi pop-rock. Il suo lavoro alla batteria, per quanto non virtuosistico, è sempre stato professionale ed impeccabile, lo documentano i nastri originali dei Beatles conservati negli Abbey Road Studios, parte dei quali pubblicata nel progetto “Anthology”. Inoltre, come cantante, Ringo ha avuto l’opportunità di farsi apprezzare in alcuni dei più amati e scanzonati brani beatlesiani, su tutti Yellow Submarine e With A Little Help From My Friends.

Nel corso degli elettrizzanti ma anche stressanti primi anni della beatlemania, Ringo viene visto come l’uomo normale fra quattro ragazzi altrimenti favolosi, quello attorno al quale il gruppo si stringe per smorzare la tensione, grazie alle sue battute fulminanti (Starr se ne usciva con espressioni incredibili che suscitavano l’ilarità degli altri tre, fra cui ‘it’s been a hard day’s night’ e ‘tomorrow never knows’… vi dicono niente?) e al suo tipico stile rilassato alla peace & love. Starr diventa quindi una sorta di mascotte in seno ai Beatles e non a caso sarà il componente del gruppo più in vista e divertente nei film “A Hard Day’s Night” (1964) e “Help! (1965). Queste sue prime esperienze cinematografiche fecero capire a Ringo che forse avrebbe potuto avere qualcosa da dire anche come attore e non solo come musicista. Infatti, nel momento più difficile dei Beatles, su finire dei Sessanta, Ringo parteciperà come apprezzato attore in diversi film.

Dopo John Lennon, Ringo fu il primo Beatle a prender moglie, sposando nel 1965 Maureen, la sua fidanzata storica: il matrimonio durerà dieci anni e darà tre figli alla coppia, fra cui Zak Starkey, noto batterista anch’egli. Tuttavia il grande amore di Ringo sarà Barbara Bach, una delle più belle ‘bond girl’ mai apparse sullo schermo, che il batterista sposa quindi in seconde nozze nel 1981, dopo averla conosciuta l’anno prima sul set de “Il Cavernicolo”.

Facciamo però un salto indietro: nel 1969 la storia dei Beatles volge al termine e il nostro si guarda ansiosamente attorno per decidere quale strada seguire per il futuro. E così, oltre ad apparire in una grande produzione cinematografica – “The Magic Christian” – accanto ad un’altra grande star, Peter Sellers, Ringo appronta l’album “Sentimental Journey”, una pregevole raccolta di standard degli anni Trenta e Quaranta pubblicata nel marzo 1970. Passa al country di lì a poco, con l’album “Beaucoup Of Blues” (1970), poi proverà anche a fare il regista, dirigendo l’amico Marc Bolan e i suoi T. Rex nel film “Born To Boogie” (1972).

Torna trionfalmente alla musica con l’album “Ringo” (1973), al quale partecipano in vario modo anche gli altri Beatles. L’album, che raggiunge il 2° posto della classifica americana, viene tuttora ricordato come il capolavoro solista di Starr. Nel frattempo, Ringo ha anche modo di farsi notare sul mercato dei singoli, grazie ai grandi successi di It Don’t Come Easy, Photograph e You’re Sixteen. Starr prova a ripetere i fasti di “Ringo” con l’album “Goodnight Vienna” (1974) ma riesce a prendervi parte il solo Lennon e il disco non ottiene lo stesso successo del predecessore. “Goodnight Vienna” fu comunque l’ultimo successo da Top Ten per il nostro, dato che col successivo “Ringo’s Rotogravure” (1976) inizierà un lento declino commerciale ma, sotto certi aspetti, anche artistico.

A metà dei Settanta, infatti, Ringo Starr balzerà agli onori delle cronache più per i suoi bagordi con gli amici John Lennon, Harry Nilsson e Keith Moon che per i suoi meriti musicali. Tuttavia, dopo i disastrosi risultati degli album “Ringo The 4th” (1977) e “Bad Boy” (1978), Ringo preparava un ritorno in grande stile, grazie al supporto degli altri Beatles e rinfrancato dal successo d’un disco per bambini al quale aveva preso parte in quel periodo. Nel novembre 1980 Ringo è a New York, ospite dei Lennon per discutere del prossimo disco del batterista, in programma nell’81. John aveva già scritto per il suo amico quattro nuovi pezzi – fra cui Life Begins At 40 – ma fu soltanto la mano d’uno squilibrato ad impedire ai due di realizzare un disco che, probabilmente, sarebbe stato il trampolino di lancio per una reunion dei Beatles nel corso degli Ottanta.

Anni Ottanta che invece, per Ringo, si trasformano in un progressivo ritiro dalle scene, anche per combattere una volta per tutte il suo alcolismo. Vincerà nell’88, assieme all’amata moglie Barbara, e così sarà nuovamente pronto ad affrontare un nuovo decennio in forma smagliante, con nuovi tour e nuovi dischi. In particolare, Ringo torna a far parlare di sé presso gli appassionati di musica col celebrato progetto “Anthology” (1995-2000) dei Beatles e con il buon album solista “Vertical Man” (1998), al quale presero parte anche George e Paul.

Ringo Starr è stato musicalmente attivo anche in questo decennio, pubblicando finora tre pregevoli album da studio a suo nome – “Ringo Rama” (2003), “Choose Love” (2005) e “Liverpool 8” (2008) che, seppur non riportandolo ai fasti dei primi anni Settanta, lo hanno riabilitato musicalmente nei confronti dei tanti critici che in passato lo avevano stroncato.

Infine, una piccola annotazione… davvero invidiabile la lista di musicisti e cantanti che hanno preso parte, in epoche differenti, ai dischi solisti di Ringo: qui ricordo Quincy Jones, David Gilmour, Elton John, Maurice Gibb dei Bee Gees, Eric Clapton, Steve Cropper dei Blues Brothers, Dave Stewart degli Eurythmics, Ozzy Osbourne, Alanis Morissette, Joe Walsh e Timothy B. Schmit degli Eagles, Ron Wood dei Rolling Stones, Chrissie Hynde dei Pretenders, Willie Nelson e Stephen Stills. – Matteo Aceto

Eagles

eagles-glenn-frey-don-henley-joe-walsh-timothy-b-schmidtCon molto piacere ho sentito che “Long Road Out Of Eden”, il primo album da studio dei grandissimi Eagles dopo “The Long Run” del 1979, è al 1° posto di numerose classifiche internazionali, fra cui quella del paese che più compra musica, ovvero gli USA. Più in là, magari come regalo natalizio, andrò anch’io a comprarmi la mia bella copia di questo doppio ciddì a prezzo speciale… nel frattempo, ecco un post che scrissi mesi fa sul vecchio blog.

La storia di oggi riguarda gli Eagles, uno dei gruppi che più apprezzo e ascolto. Semplicemente, ho sempre trovato gradevolissima quella fusione di country e rock: per me è il solo modo di ascoltare quel genere musicale, il country per l’appunto, così tipicamente americano. Per me gli Eagles hanno il merito di aver reso molto più appetibile questo stile, inventandosi a loro volta uno stile unico al mondo, perfettamente riconoscibile, grazie all’impeccabilità dei loro arrangiamenti, alla loro abilità come musicisti, al loro innato senso melodico e ai loro inconfondibili effetti corali. E allora vediamo un po’ cosa hanno combinato questi Eagles nel corso della loro fortunata carrierra discografica.

La band si forma a Los Angeles nei primi anni Settanta, costituita da Glenn Frey (chitarra), Randy Meisner (basso), Bernie Leadon (chitarra) e Don Henley (batteria). La cosa più interessante da notare è che tutti e quattro i membri della band sono in grado di cantare e che tutti si alterneranno alla voce solista, anche se il principale cantante resterà Don Henley.

Gli Eagles debuttano con l’omonimo album nel 1972: “Eagles” è il disco che contiene il loro primo successo, Take It Easy, scritto da Glenn Frey con Jackson Browne, ma pure la deliziosa Peaceful Easy Feeling. Nel ’73 esce uno dei loro dischi migliori, “Desperado”, album che non solo contiene la stupenda Desperado (secondo me una delle canzoni più belle di sempre) ma anche la westerniana Doolin Dalton e la magnifica Tequila Sunrise. Nel ’74 è la volta di “On The Border”, un album che forse segna un passo indietro ma che comunque contiene una memorabile ballata da 1° posto in classifica, The Best Of My Love. “On The Border” segna anche l’ingresso in formazione d’un quinto membro, il chitarrista Don Felder, in modo da rafforzare l’aspetto rock delle performance dal vivo della band.

Gli Eagles tornano alla grande già nel 1975, col fantastico album “One Of These Nights”, disco che contiene alcune delle migliori canzoni dei nostri – ovvero One Of These Nights, Lyin’ Eyes, Take It To The Limit e After The Thrill Is Gone – e che vola ovviamente al 1° posto della classifica americana riservata agli album. Per celebrare il momento di grazia, la casa discografica pubblica una raccolta del periodo 1972-75, intitolata “Thier Greatest Hits”, raccolta che a tuttoggi è il disco più venduto di sempre negli USA. Tuttavia, sul finire dell’anno, gli Eagles accusano l’abbandono del gruppo da parte di Bernie Leadon anche se la cosa, per fortuna, non inficia sul momento di grazia della band, anzi. Nel 1976 gli Eagles se ne escono infatti con un altro album numero uno, il celebrato & celeberrimo “Hotel California”. Il brano omonimo è semplicemente sensazionale ma tutte le altre tracce del disco sono stupende… qui mi limito a citare Wasted Time, New Kid In Town e Life In The Fast Lane. C’è da segnalare che in “Hotel California” il posto di Leadon è preso dal nuovo acquisto, il grande chitarrista Joe Walsh.
Dopo “Hotel California” e il relativo tour, al termine del quale anche Randy Meisner lascia la band, gli Eagles si prendono per la prima volta un periodo di pausa, interrotta nel novembre 1978 dal singolo natalizio Please Come Home For Christmas. Qui fa la comparsa il nuovo quinto membro della band, il bassista Timothy B. Schmit, in fuga dai Poco.

In quel periodo, comunque, la band è impegnata in studio con un nuovo album: le sessioni si prolungano a causa di manie di perfezionismo e di attriti crescenti fra i membri del gruppo. Il lavoro che ne esce, “The Long Run”, pubblicato nel corso del 1979, è comunque notevole: supportato da tre singoli eccezionali come la scanzonata Heartache Tonight, la dolcissima I Can’t Tell You Why e l’omonima The Long Run, l’album vola anch’esso al 1° posto della classifica. Il primo disco dal vivo ufficiale degli Eagles, “Eagles Live”, viene pubblicato nel 1980 ma nel corso del 1981 la band si scioglie con ogni membro apparentemente ansioso di cimentarsi con la propria carriera solista.

Durante gli anni Ottanta, l’amore del grande pubblico per gli Eagles non diminuirà affatto, tanto che saranno diverse e fortunate le raccolte pubblicate in quel decennio. La band torna trionfalmente per un tour mondiale nel corso del 1993, immortalato nell’album “Hell Freezes Over” – che contiene anche alcune nuove canzoni, le prime da oltre dieci anni – edito nel 1994. La reunion è però provvisoria, dopodiché ognuno torna a curare i suoi affari personali. E’ significativo però che la prima raccolta di Glenn Frey sia intitolata “Solo Collection”, a testimonianza che, nonostante dieci anni di carriera solista, il buon Glenn si senta ancora parte di una band. Un buon auspicio.

Gli anni Duemila segnano infatti una nuova reunion degli Eagles, tanto che il gruppo torna a calcare i palcoscenici internazionali nel corso di due distinte tournée. La band ha anche modo di tornare in studio, dando così vita al singolo Hole In The World, ispirato ai tragici fatti dell’11 settembre 2001. Il brano è contenuto in una stupenda, doppia raccolta antologica pubblicata nel 2003, “The Complete Greatest Hits”, un acquisto che consiglio vivamente a tutti gli amanti del rock. Per la cronaca, l’ultima reunion degli Eagles non ha visto la partecipazione di Don Felder, per cui, come all’inizio, la band è tornata ad essere un quartetto.

Per il 2007 si vocifera che ci sarà sia un nuovo tour da parte degli Eagles e sia un nuovo album da studio, il primo dal 1979. Considerando che quest’anno segnerà il ritorno dei Genesis, degli Stooges, dei Roxy Music e dei Police, un ritorno in grande stile degli intramontabili Eagles ci sta benissimo. – Matteo Aceto

Lionel Richie

lionel-richieHo sempre amato la black music, mi mette istintivamente felicità, mi dà coraggio, mi dà speranza e, cosa sempre gradita, mi diverte & m’emoziona. La storia della black music è piena di grandi personaggi, di grandi artisti, di persone importantissime & influenti che hanno avuto molto più peso di quello che il grande pubblico bianco appassionato di musica sia pronto a riconoscere. Uno di questi grandi artisti neri, uno di quelli che mi sono sempre piaciuti, è Lionel Richie, sia come cantante dei Commodores e sia come affermato solista.

Sia a nome Commodores che a nome Lionel Richie, il nostro sarà eternamente ricordato per aver dato alle stampe almeno due classici intramontabili, rispettivamente, quella stupenda ballata chiamata Easy e quell’hittone danzereccio chiamato All Night Long. E’ inoltre coautore, assieme a Michael Jackson, della ormai storicissima (e superlativa) We Are The World. Insomma, basterebbero solo queste tre canzoni per far capire chi sia Lionel Richie…

La carriera professionale del buon Lionel Brockman Richie (20 giugno 1949… 20 giugno, la mia stessa data di nascita… un altro motivo per cui lui mi sta simpatico) prende avvio al principio degli anni Settanta, come tastierista e principale cantante dei Commodores, un gruppo appartenente alla formidabile scuderia Motown (che resta una delle case discografiche più prestigiose del mondo), pensato come supporto dei Jackson 5, in quel periodo gli artisti di maggior successo della stessa Motown. In realtà i Commodores, parallelamente ai Jackson 5 (che a metà anni Settanta passano alla CBS e assumono il nome di The Jacksons), si riveleranno molto più d’una semplice band di supporto in chiave funk, bensì una macchina sforna hit melodici & indimenticabili. Ecco quindi celebri canzoni come Just To Be Close To You (1976), la già citata Easy (1977), Three Times A Lady (1978), Sail On (1979) e Still (1979), tutte firmate dal solo Lionel, che si toglie pure lo sfizio di scrivere Lady, un hit da primo posto nella classifica americana per l’artista country Kenny Rogers. Nel 1981, invece, Lionel Richie duetta con la grande Diana Ross in una canzone da lui composta, la romantica & splendida Endless Love, colonna sonora del film omonimo e altro numero uno in classifica.

Per un talento come quello di Lionel Richie, senza nulla togliere agli altri bravissimi musicisti & autori in seno ai Commodores, intraprendere la carriera solista era solo una formalità (seppur, a quanto dichiarato dal nostro, presa non proprio a cuor leggero). Ecco quindi una trilogia di album firmati Lionel Richie che faranno la sua grande fortuna nel corso degli anni Ottanta e lo porteranno sulla vetta degli artisti più famosi e di successo di quel decennio: l’omonimo “Lionel Richie” del 1982, l’ormai classico “Can’t Slow Down” del 1983 e “Dancing On The Ceiling” del 1986, tutti contenenti hit famosi e bellissimi quali Truly (1982), All Night Long (1983), Hello (1983), Running With The Night (1983), Penny Lover (1983), Say You, Say Me (1985), Dancing On The Ceiling (1986) e pure qualcun altro che ora mi sfugge.

Sono anni, gli Ottanta, dove Lionel Richie si diverte anche a collaborare con gli artisti più disparati (diversi di essi cantano/suonano proprio nei suoi pezzi): oltre al già citato Michael Jackson e all’imponente progetto di USA For Africa legato al singolo We Are The World (1985), Lionel collabora con Joe Walsh degli Eagles, con Eric Clapton, con Joni Mitchell, col bassista Nathan East, col tastierista Greg Phillinganes, col percussionista Paulinho Da Costa e con altri musicisti d’eccezione.

Con l’arrivo degli anni Novanta, Lionel si ritira maggiormente dalle scene, seppur pubblichi due album in quel decennio, “Louder The Words” (1996) e “Time” (1998), e finora tre in questo decennio, “Renaissance” (2001), “Just For You” (2004) e “Coming Home” (2006). In questa produzione più recente del nostro non mancano le collaborazioni importanti e, soprattutto, le belle canzoni… insomma, pur se Lionel Richie sia maggiormente conosciuto come un artista legato agli anni Settanta e Ottanta, non ha perso nulla della sua innata classe.

Per questo, a chi ha voglia di saperne di più, consiglio una bella doppia raccolta intitolata “The Definitive Collection”, comprendente la produzione solista e commodoriana di Lionel dal 1974 al 2002: con un po’ di fortuna, in alcuni centri commerciali la si trova anche a dieci euro… due ciddì pieni di belle canzoni, a cinque euro l’uno, mi pare proprio un ottimo affare! – Matteo Aceto