Venti anni senza Lucio Battisti. Sembra ieri, eppure sono passati, anzi volati due decenni buoni. Non voglio comunque scrivere una sorta di elogio funebre; non è questo blog il luogo, né io mi sento all’altezza di tentare un post del genere. E poi Lucio Battisti non era quello che si era fatto completamente da parte per lasciar parlare soltanto le sue canzoni, i suoi dischi? Passerei senz’altro a quello che resta dunque il suo testamento artistico, l’album “Hegel”, ventesimo capitolo della sua avventura discografica, edito dalla BMG il 29 settembre (come – casualmente? – si intitolava una sua canzone degli esordi) del 1994.
Scritto dallo stesso Lucio Battisti assieme al paroliere Pasquale Panella, col quale collaborava fin dai tempi di “Don Giovanni” (1986), “Hegel” è stato registrato in terra inglese con l’ausilio di due soli musicisti: Lyndon Connah, alle prese con chitarre, tastiere e programmazione, e quindi Andy Duncan, ovvero batterista, percussionista, programmatore nonché produttore del disco. Entrambi avevano partecipato all’album precedente di Battisti, “Cosa Succederà Alla Ragazza” (1992), ma qui sono rimasti i soli assieme allo stesso Lucio, facendo di “Hegel” l’album battistiano col più ristretto gruppo di musicisti.
Per quanto mi riguarda, “Hegel” è formato da quattro brani che ascolterei per ore – ovvero La bellezza riunita, Estetica, La moda nel respiro e la stessa Hegel – e altri quattro che non mi esaltano granché – sto parlando di Almeno l’inizio, Tubinga, Stanze come questa e la conclusiva La voce del viso – ma che comunque suonano perfettamente omogenee nell’economia sonora complessiva dell’album, un album intriso irrimediabilmente delle atmosfere pop-dance anni Novanta ma che tuttavia conserva una sua attualità sonora. Ecco, se dovessi indicare qual è il pezzo più bello di “Hegel” direi senz’altro la contemplativa Estetica (che io avrei magari messo in chiusura e non come penultima traccia), mentre quello che meno mi piace resta la martellante Stanze come questa. Il tutto che scorre via in poco più di trentotto minuti.
L’aspetto che più mi colpisce di un album come “Hegel” resta tuttavia la voce di Lucio, quella voce così inconfondibile, mai amata all’unanimità, che però resta sempre quella, è la stessa che si può ascoltare in album come “Il Mio Canto Libero” (1972) e “Una Donna Per Amico” (1978), tanto per citane qualcuno. E’ quella voce così peculiare, riconoscibilissima, il vero filo conduttore che attraversa la complessa ma sempre affascinante vicenda artistica del nostro.
Una voce che in “Hegel” è per la quinta volta di fila alle prese con otto canzoni scritte da Pasquale Panella, sempre in bilico tra ermetismo e nonsense. A me piace tantissimo questo periodo finale della carriera di Lucio, un periodo che evidentemente non ha ancora detto tutto quello che aveva da dire, considerate la modernità dei suoni e la non univocità delle parole, dove ogni ascoltatore può intendervi ciò che vuole.
Se sembra assodato che “Hegel” debba il suo nome all’omonimo filosofo tedesco vissuto a cavallo tra il Sette e l’Ottocento, resta ancora un mistero la grande “E” riportata sulla parte bassa della copertina, peraltro d’un bianco immacolato come tutti gli album che Battisti ha fatto dare alle stampe dal 1988 in poi. Misteri che si sommano ad altri misteri, più o meno noti ai tanti appassionati di questo celeberrimo musicista nostrano. E anche questo contribuisce a spiegare perché, dopo venti anni dalla morte, di Lucio Battisti non ne abbiamo ancora avuto abbastanza. – Matteo Aceto