Sting, “57th & 9th”, 2016

sting-ultimo-album-immagine-pubblicaHo inevitabilmente sentito il richiamo della foresta: un nuovo disco di Sting mi aspettava nei negozi fin da venerdì scorso e io, dopo qualche giorno di sofferta resistenza, ho fatto il mio acquisto. Avevo scritto QUI di una mia promessa che puntualmente ho disatteso ma, se non altro, non mi sono fatto ammaliare dall’edizione deluxe di “57th & 9th” (sì, il titolo dell’ultimo disco di Sting è quanto di più impronunciabile abbia mai proposto ai suoi fan di madrelingua non inglese): un cofanetto con prodotti come divuddì e cartoline dei quali sono effettivamente in grado di vivere senza.

Prodotto dal solo Martin Kierszenbaum (e già questa è una novità, dato che mai prima d’ora il nome stesso di Sting non era stato accreditato tra i produttori d’un suo album), “57th & 9th” non sembrerebbe nemmeno un disco di Sting se le sue dieci canzoni non fossero cantate da quella voce così inconfondibile, quella voce a me tanto cara.

Si differenzia parecchio da tutti gli album che il nostro ha pubblicato dal 1985 al 2013 perché è il meno levigato di tutti, quasi grezzo nel suo sound ridotto all’osso, immediato grazie anche ad appena trentasette minuti di durata. Insomma, è proprio così: seguo Sting da oltre vent’anni, lo “conosco” almeno dal 1985 per via del suo video Russians che guardavo da bambino in televisione, eppure riusce ancora a sorprendermi. E questo aspetto, al di là dell’intrinseco valore artistico del suo nuovo album, è già positivo.

Dico subito che, tra le dieci canzoni di “57th & 9th”, la migliore è proprio quella che stiamo già ascoltando in radio da un paio di mesi, I Can’t Stop Thinking About You, che pur restando una canzonetta senza pretese, con i suoi richiami allo stile musicale dei primi Police, è se non altro quanto di più eccitante Sting ci abbia fatto ascoltare dai tempi di Desert Rose (1999-2000). Di fatto, erano anni che non ascoltavo in radio una nuova canzone di Sting trasmessa con tale assiduità.

Gli altri momenti interessanti di “57th & 9th” sono, a mio avviso, i brani Down Down Down (anche se mi ricorda qualcosa di già sentito), One Fine Day (melodica, inconfondibilmente stinghiana, candidata a prossimo singolo), Petrol Head (anch’essa decisamente poliziesca, sembra quasi un ripescaggio inedito dall’album “Ghost In The Machine“) e Inshallah (brano dal sapore vagamente mediorientale, sintomatologia d’un vezzo di Sting che parte almeno da Mad About You del 1991). Non mancano comunque momenti più intimi e ancor più minimali, come la country Heading South On The Great North Road e la conclusiva The Empty Chair, eseguite con voce e due chitarre.

E così, affidandosi a un pugno di musicisti fidati che lo accompagnano ormai da anni sia in studio e sia soprattutto sul palco (il chitarrista Lyle Workman e il batterista Josh Freese) o da molti anni (il chitarrista Dominic Miller e il batterista Vinnie Colaiuta), il nostro cantante/bassista inglese s’è tolto lo sfizio di registrare interamente a New York l’album più immediato e musicalmente più essenziale mai uscito a suo nome.

Non è certo un capolavoro, magari l’anno prossimo ce ne saremo anche dimenticati, ma di questi tempi è molto difficile ascoltare il disco di un qualsiasi cantante pop-rock d’alta classifica le cui basi ritmiche non siano condizionate da tastiere, programmazioni e interventi di editing in postproduzione. Qui il tutto è suonato, senza fronzoli ma bene, la voce del nostro è sempre quella, ovvero una vera & propria garanzia, il disco è piacevole e per giunta breve. Sono motivi più che giustificatori della mia marinaresca promessa di tre anni fa, una volta comprato “The Last Ship”: mai più avrei comprato un nuovo disco del mio beniamino all’indomani dell’uscita nei negozi. Certamente. – Matteo Aceto

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