The Style Council, il secondo gruppo di Paul Weller

Continua – dopo il post precedente – l’affascinante storia di Paul Weller che, dopo l’esordio nei Jam e la sua dipartita dagli stessi nel 1982, debutta l’anno dopo con una nuova formazione, The Style Council, alla quale è dedicato il post di oggi.

Per dare avvio al suo ambizioso progetto – un gruppo aperto alle svariate possibilità espressive (meglio se di matrice black) e alla collaborazione coi musicisti più disparati – Paul ha comunque bisogno d’un complice, d’un valido alter ego in grado d’arrangiare con la giusta finezza & professionalità le sue nuove canzoni: si ricorda quindi di Mick Talbot, abilissimo pianista, tastierista e organista dei Merton Parkas, che aveva già suonato nei Jam come turnista. Il buon Mick, classe 1958 come lo stesso Paul, ha avuto un ruolo cruciale nel sound degli Style Council e resta, molto probabilmente, il miglior collaboratore che Weller ha avuto nella sua lunga storia musicale.

Gli Style Council debuttano quindi già nell’83, col gioioso singolo Speak Like A Child / Party Chambers, dopodiché partono per Parigi per trovare nuovi spunti – sia per la musica ma anche per quanto riguarda la raffinata immagine da viveur della dolce vita. Da qui l’ottimo EP “A Paris” – contenente la celebre Long Hot Summer – e, infine, un mini album intitolato “Introducing The Style Council” e contenente altre canzoni superlative quali Headstart For Happiness, Money-Go-Round e The Paris Match. Il primo album vero & proprio degli Style Council, “Café Bleu”, esce però nel 1984 e si presenta come il frutto già maturo d’una formazione molto eclettica: jazz, pop, rock, elettronica e addirittura rap si (con)fondono con grande maestria in un album dove Weller e Talbot sono affiancati da un’invidiabile schiera di musicisti e cantanti ospiti, fra cui Tracey Thorn & Ben Watt dei nascenti Everything But The Girl che partecipano a una nuova versione di The Paris Match.

La canzone più famosa di “Café Bleu” è però la dolce You’re The Best Thing, uno dei pezzi più memorabili degli Ottanta. Vale la pena segnalare che ogni pubblicazione di You’re The Best Thing (su album, su singolo, su EP e per il video) contiene una versione differente, non dei remix, bensì delle riesecuzioni vere e proprie. Questa differenziazione musicale in base ai vari formati discografici sarà una costante per molte altre canzoni degli Style Council: è uno degli aspetti che più mi hanno piacevolmente sorpreso di questo gruppo.

Anticipato dall’irresistibile singolo Shout To The Top!, nel 1985 esce l’album “Our Favourite Shop” che procede spedìto fino al 1° posto della classifica inglese: per Paul è il giusto riconoscimento dopo tre anni di dure critiche per aver sciolto i Jam, cosa che in realtà molti inglesi non gli hanno mai perdonato. In “Our Favourite Shop” la formazione degli Style Council è ormai un quartetto stabile (anche se, in tutta la vicenda del gruppo, amici & collaboratori non mancheranno mai) composto da Paul Weller, Mick Talbot, Dee C. Lee – cantante dalla voce dolce & suadente che in poco tempo diventerà la signora Weller – e dal bravissimo batterista Steve White, all’epoca ancora teenager e tuttora al fianco di Paul nella sua attività solista. E’ inutile recensire qui “Our Favourite Shop”, uno dei miei dischi preferiti che meriterebbe un post a parte.

Nonostante Weller abbia sciolto i Jam, nonostante abbia smesso i suoi panni da mod con tanto di Union Jack in bella vista a favore d’un abbigliamento più fighetto & raffinato, la sua musica e il suo impegno civile non smettono affatto di essere contro l’imperante thatcherismo della Gran Bretagna di quegli anni; anzi, complice la maturazione umana oltre che artistica, Paul e i suoi Style Council sono fra i pochi & credibili critici d’un regime politico che, di fatto, riuscì a modificare profondamente la vita socioeconomica (e non solo…) di milioni di britannici.

Nel 1986 gli Style Council, oltre a collaborare col regista Julien Temple per la colonna sonora del film “Absolute Beginners”, fanno pubblicare un disco dal vivo, “Live – Home & Abroad”, mentre sono impegnati in studio per il nuovo album, che vede quindi la luce al principio dell’87. Il disco, chiamato “The Cost Of Loving”, è inizialmente pubblicato in doppio 12″ da 45 giri l’uno, il tutto avvolto da una copertina completamente arancione con pochissime indicazioni. La casa discografica – la Polydor, la stessa che ha dato la possibilità a Paul di debuttare nel ’77 coi Jam – non gradisce molto e in breve edita un elleppì standard con una foto del gruppo in bella mostra. “The Cost Of Loving” esplora ancor di più il territorio soul, funky e rap – cosa che suscita un po’ di disaffezione da parte dei fan storici di Paul – ma, nonostante tutto, il terzo album degli Style Council giunge al 2° posto della classifica inglese, forte di canzoni notevoli come Heavens Above, It Didn’t Matter, Angel (cover d’un brano di Anita Baker) e Waiting. Di lì a poco esce pure un cortometraggio musicale, “JerUSAlem”, dove gli Style Council sbeffeggiano le contraddizioni della società inglese del tempo: è un film molto arguto & godibile che nel 2003 è stato ripubblicato nel fondamentale divuddì “The Style Council On Film”.

Mentre Margaret “Maggie” Thatcher viene eletta per la terza volta consecutiva a capo del governo britannico, Paul ha una crisi d’identità: dei suoi proclami musicali di stampo laburista sembra non fregarsene più nessuno, mentre il suo pubblico fatica a seguirlo nelle sue avventure artistiche. Anche la scena musicale sta cambiando, nei club impazza ormai la house music che, per il momento, gli Style Council guardano da lontano. E così i testi di Paul – che nel 1988 è ormai trentenne, ammogliato e in attesa d’un figlio – diventano più riflessivi, intimisti e malinconici: anche la musica ne risente e l’album che ne viene fuori, il quarto per gli Style Council, “Confessions Of A Pop Group“, riflette magnificamente tutti questi sentimenti & tutte le contraddizioni dell’epoca.

Seppur enormemente sottovalutato – in quel 1988 raggiunse un misero 15° posto in classifica – “Confessions Of A Pop Group” segna il definitivo tocco di classe d’una carriera come quella di Weller bella come poche altre. La storia ufficiale dice che con “Confessions Of A Pop Group” la vicenda degli Style Council giunge a conclusione: tempo una manciata di singoli – la scintillante Wanted, una nuova versione di Long Hot Summer e l’ottima cover di Promised Land – & l’antologia “The Singular Adventures Of The Style Council” (1989), e con l’avvento dei Novanta il gruppo già non esiste più.

In realtà la conclusione di quella straordinaria avventura inizia da Weller nell’83 ebbe risvolti ben più polemici: nel corso del 1989 gli Style Council registrano un album di house music, “Modernism: A New Decade”, che lascia di stucco la Polydor. Il primo singolo previsto, Sure Is Sure, viene quindi ritirato prima della pubblicazione ufficiale mentre lo stesso “Modernism” non vedrà mai la luce, lasciando gli Style Council ad affrontare da soli l’ostilità del pubblico della Royal Albert Hall, che poco gradisce la svolta house di Paul.

E’ arrivato il fatidico 1990 e Weller, invece di festeggiare coi Council l’avvento d’una nuova decade che si preannunciava gravida di grandi speranze, decide di porre fine anche agli Style Council. In seguito, Paul diventerà un seguitissimo artista solista, tornando al 1° posto nella classifica inglese con l’album “Stanley Road” (1995), ma questa è già un’altra storia.

Il tempo darà però ragione agli Style Council dato che, già a partire dal ’93, la stessa Polydor (in seguito controllata dalla Universal) ha dato avvio a uno splendido florilegio di riproposizioni counciliane: prima la raccolta d’inediti & rarità “Here’s Some That Got Away”, poi nel ’98 addirittura un cofanetto di cinque ciddì – “The Complete Adventures Of The Style Council” – un’eccellente antologia con tanto di “Modernism: A New Decade”, il controverso album house (peraltro fantastico, secondo me) rifiutato dall’etichetta meno di dieci anni prima – e tutta una serie di ristampe degli album originali, culminata nella recente versione deluxe di “Our Favourite Shop” in due ciddì. – Matteo Aceto

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Pink Floyd, “The Wall”: i mattoni sparsi

pink-floyd-the-wall-film-alan-parker-immagine-pubblicaEccomi qui alle prese con l’ultimo post dedicato a “The Wall” dei Pink Floyd, una pietra miliare del rock… o meglio, un muro miliare del rock!

Dunque, tra il dicembre ’79 e il gennaio ’80, l’album volò al vertice della classifica in molti Paesi, tra i quali la nativa Gran Bretagna e gli Stati Uniti: oggi, coi suoi venticinque milioni di copie vendute, “The Wall” è il disco degli anni Settanta più venduto al mondo, una cifra ancora più straordinaria se si pensa che si tratta d’un doppio. Ora però procediamo con la storia, che i record e i numeri non mi hanno mai affascinato troppo.

Uno dei temi portanti di “The Wall” è la dimensione alienante tra artista ed audience sperimentata in prima persona col tour “In The Flesh” del 1977: Roger Waters è assolutamente contrario a portare lo spettacolo di “The Wall” negli stadi. Sono così previsti degli show in arene con un massimo di quindicimila posti, dove tutti possano godersi la musica e gli straordinari effetti visivi appositamente preparati: la costruzione effettiva da parte d’una squadra di operai d’un muro di cartone alto oltre quattro metri e lungo oltre i dieci; dei montacarichi per permettere agli operai di muoversi ma anche alla band di seguire alcune ambientazioni della storia; il classico schermo circolare tipico dei concerti dei Pink Floyd dove proiettare gli incredibili cartoni animati realizzati dalla squadra di Gerald Scarfe; ultimi ma non ultimi, gli effetti scenici degli enormi pupazzi gonfiabili, con tanto di luci accessorie, che rappresentano i vari protagonisti della storia narrata in “The Wall”.

Mentre la band ed i propri collaboratori progettavano questo nuovo spettacolo si era pensato anche di creare di volta in volta una speciale arena da montare in ogni città attraversata dal tour. La struttura era caratterizzata esteriormente da una forma a lumaca nuda che infine, per complicanze logistiche, si decise di accantonare: si scelsero invece quattro arene dove replicare più volte lo stesso spettacolo. E così, partita dalla Los Angeles Sports Arena nel febbraio ’80, la rappresentazione dal vivo di “The Wall” continuò per un anno per poi concludersi alla Wastfallenhande di Dortmund (Germania) nel febbraio ’81. Le altre due arene ‘intermedie’ erano il Greater Nassau Coliseum di New York (febbraio ’80) e la celebre Earl’s Court di Londra (agosto ’80 e giugno ’81).

Un’eccellente sintesi di queste quattro lunghe performance nelle quali i Pink Floyd eseguivano per intero “The Wall” costituisce l’album “Is There Anybody Out There?/The Wall Live“, pubblicato nel 2000. In due CD viene così riproposto lo spettacolo completo (solo audio però) della rappresentazione di “The Wall” da parte dei nostri: molte delle canzoni acquisiscono più spessore dal vivo, alcune sono invece estese per permettere nel frattempo agli operai di completare la costruzione effettiva del muro (l’ultimo mattone veniva posto appena Roger finiva di cantare Goodbye Cruel World, terminando la prima parte dello spettacolo). La cosa più interessante è però l’inclusione di parti che per ragioni di tempo e di sintesi narrativa erano state escluse dall’album in studio (il produttore Bob Ezrin convinse Waters a realizzare due LP da quaranta minuti l’uno): e così possiamo ascoltare canzoni escluse (la potente What Shall We Do Now? ma anche un grandioso medley strumentale chiamato The Last Few Bricks) o nella loro forma originaria (Empty Spaces e The Show Must Go On, entrambe più lunghe e con testi diversi). Da segnalare che in questi incredibili spettacoli dal vivo i Pink Floyd erano ben otto (!) più quattro coristi: otto perché Roger Waters (voce, basso, chitarra), David Gilmour (voce, chitarra, basso), Nick Mason (batteria) e il povero Rick Wright (tastiere) erano supportati dal bravissimo Snowy White (chitarra, già coi nostri dal vivo prima e dopo “The Wall”), da Peter Woods (tastiere), da Andy Bown (basso), da Willie Wilson (batteria) e da Andy Roberts (che sostituì White alla chitarra negli spettacoli del 1981). Tutte le altre informazioni su “The Wall Live”, comprese le note tecniche & i disegni & le foto del progetto & le interviste & tutto quello che più desiderate sapere su quest’affascinante rappresentazione rock-teatrale lo trovate nel cofanetto di “Is There Anybody Out There?” (2000), un disco che consiglio a tutti gli amanti sfrenati dei Pink Floyd come me.

Dopo i concerti, si passò all’ultima fase della multimedialità insita in “The Wall”, ovvero la realizzazione del film vero e proprio. Qui le cose si fecero notevolmente più complicate e, in definitiva, più stressanti: il film, chiamato semplicemente “Pink Floyd The Wall”, uscì nel corso del 1982 riscuotendo comunque un grosso successo. Diretto da Alan Parker (più volte in rotta di collisione con Waters, che scrisse la sceneggiatura), il film figura un giovane Bob Geldof – allora leader dei Boomtown Rats – nella parte principale, quella di Pink. C’è anche il bravissimo attore Bob Hoskins ma le cose che personalmente apprezzo di più in questo film sono le bellissime sequenze animate: davvero un’arte sopraffina, molto immaginifica e coinvolgente. E poi la musica… anche qui sono state incluse alcune canzoni che non avevano trovato spazio nell’album del 1979, ovvero What Shall We Do Now? e la versione lunga di Empty Spaces. Manca Hey You ma c’è una nuova composizione watersiana, When The Tigers Broke Free (pubblicata come singolo nell’aprile ’82), ci sono alcune riesecuzioni, come le nuove versioni di Mother, Bring The Boys Back Home e In The Flesh (quest’ultima gridata più che cantata da Bob Geldof), una In The Flesh? e una Stop! cantate ancora da Geldof, un breve interludio strumentale che anticipa Your Possible Pasts (completa nel prossimo album dei Pink Floyd, “The Final Cut“). Anche Outside The Wall, che accompagna i titoli di coda, è notevolmente diversa: oltre ad essere necessariamente più lunga, include anch’essa parti musicali che Roger Waters stava orchestrando con Michael Kamen e che vedranno la luce sul successivo “The Final Cut”.

Ora, questo legame tra “The Wall” e “The Final Cut” è molto stretto: inizialmente, Waters pensava di pubblicare gli scarti di “The Wall” (What Shall We Do Now?, Your Possible Pasts, The Hero’s Return, ma anche la nuova When The Tigers Broke Free) su un album dei Floyd chiamato “Spare Bricks”. Poi il nome cambiò in “The Final Cut”, tanto che quando uscì il singolo di When The Tigers Broke Free, sul retro copertina veniva chiaramente indicato questo titolo. Il nome alla fine restò quello ma il contenuto cambiò notevolmente: in quei giorni l’Inghilterra imperialista di Margaret Thatcher aveva dichiarato guerra all’Argentina di Leopoldo Gualtieri per quattro isolotti chiamati Falklands. Quest’inutile guerra suscitò la profonda indignazione di Roger Waters, tanto da spingerlo a scrivere del nuovo materiale e a far pubblicare il suo ultimo album con i Pink Floyd nell’aprile 1983… una commovente critica alla guerra dedicata al suo papà morto ad Anzio nel ’44. Ma questa è un’altra storia che sicuramente meriterà di essere raccontata in un altro post. – Matteo Aceto