I sostituti (a breve termine)

the-beatles-jimmy-nicolQualche tempo fa ho letto su Rockol che Joey Jordison, batterista degli Slipknot, farà parte nei Korn per cinque mesi, sostituendo il dimissionario Terry Bozzio, mentre la band valuterà un sostituto permanente. La notizia mi ha dato lo spunto per un post dedicato ai sostituti a breve termine, vale a dire quei componenti che hanno fatto parte d’una band per un breve periodo, giusto il tempo di completare un album in studio o di affrontare alcune parti d’un tour. Insomma, dei veri co.co.pro in ambito musicale! Vediamo qualche caso, cercando di procedere in ordine cronologico.

Partiamo dai Beatles, i quali, nel giugno del 1964 e alla vigilia d’un tour internazionale, sono costretti a rimpiazzare un influenzato Ringo Starr. Per non cancellare all’ultimo momento tutti gli impegni previsti, i Beatles decisero quindi di ricorrere ad un sostituto, il batterista Jimmy Nicol (nella foto sopra, coi Beatles ‘originali’), sconosciuto ai più nell’ambiente musicale e tornato a vestire i panni dello sconosciuto dopo questa prestigiosa parentesi di undici giorni. Anche i Bee Gees, fra il 1969 e il ’70, dovettero avvalersi d’un sostituto, anzi una sostituta, del tutto particolare: in quel periodo Robin Gibb aveva lasciato momentaneamente il gruppo e per riproporre dal vivo le tipiche armonie vocali a tre dei fratelli, Barry e Maurice pensarono bene di ricorrere alla propria sorella, Lesley Gibb. Una volta che Robin tornò all’ovile, di Lesley si perse però ogni traccia (artisticamente parlando, ovvio).

Pure i Genesis hanno dovuto far ricorso ad un sostituto, all’indomani della sofferta decisione del chitarrista Anthony Phillips – uno dei fondatori del gruppo – di andarsene, nel corso del 1970. Prima che Peter Gabriel e compagni trovassero in Steve Hackett un componente stabile (per poi rimanervi fino al 1977), venne quindi reclutato Mick Barnard, in modo che la band inglese potesse concludere la serie di concerti prevista in quel periodo. Anche per Mick… non so che cosa abbia combinato negli anni futuri.

Facciamo un salto temporale di oltre dieci anni e arriviamo al 1985, quando, nel corso della lavorazione al fortunato album “Love”, il batterista dei Cult, Nigel Preston, si rivelò troppo fuori di testa per poter continuare le sedute; la band si affidò così al bravissimo Mark Brzezicki dei Big Country per terminare l’album. Anche gli irlandesi Pogues beneficiarono d’un illustre sostituto, Joe Strummer dei Clash: al principio degli anni Novanta, Strummer sostituì in alcuni concerti il dimissionario (e fuori di testa) Shane MacGowan, finché Spider Stacy, flautista degli stessi Pogues, decise d’assumere permanentemente anche il ruolo di cantante.

Restiamo sempre in ambito concertistico ma passiamo ai Depeche Mode: durante il massacrante “Devotional Tour” del bienno 1993-94, la band era giunta ad un punto di rottura; un depresso Andy Fletcher capì tutto e mollò il tour nelle sue battute finali. Impossibilitati nel cancellare le date ma forse anche per togliersi di dosso il lavoro, i Depeche Mode ingaggiarono uno dei loro collaboratori, il tastierista Daryl Bamonte, che suonò con Martin Gore e compagni fra il maggio e il luglio ’94, in tutte le tappe previste nel continente americano.

Ritroviamo un altro illustre sostituto nel caso dei Jane’s Addiction: la band californiana effettuò una serie di concerti nel 1997 per suggellare il ritorno sulle scene dopo lo scioglimento del 1991, anche se il bassista Eric Avery non fu della partita. E così i Jane’s Addiction ingaggiarono l’amico Flea, il funambolico bassista dei Red Hot Chili Peppers.

In anni più recenti anche il produttore Bob Rock ha vestito i panni del sostituto: è stato il bassista dei Metallica in studio di registrazione durante le fasi preparatorie dell’album “St. Anger” (2003), dopo che Jason Newsted diede forfait ma prima che quest’ultimo venisse rimpiazzato in pianta stabile da Rob Trujillo dei Suicidal Tendencies.

Ecco, questi sono solo alcuni esempi di sostituzioni temporanee, i primi che mi sono venuti in mente (sono sicuro che anche Eric Clapton è stato un sostituto di lusso in qualche occasione ma al momento non ricordo nulla in proposito). Se ne conoscete degli altri siete calorosamente invitati ad intervenire!

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The Cult, “Love”, 1985

the-cult-love-immagine-pubblica-blog“Love” è l’album che mi ha fatto scoprire i Cult, una tosta band inglese della quale mi sto appassionando sempre di più negli ultimi mesi. Al momento ho soltanto questo disco ma credo che in breve tempo la mia collezione si arricchirà di altri titoli dei Cult. Ora però passiamo alla recensione di “Love”, pubblicato nel novembre del 1985 e comunemente inteso come l’album più celebre dei nostri.

Un breve e sommesso conteggio fino a quattro, scandìto da quattro colpi con le bacchette della batteria, e poi tutta la forza dei Cult prorompe dalle casse dello stereo. Inizia così la trascinante Nirvana, una decisa & pulsante canzone rock che già da sola merita l’acquisto di questo fantastico album! Segue Big Neon Glitter, con quel ritmo costruito attorno alla batteria di Mark Brzezicki che sembra fatto apposta per dare la possibilità al cantante Ian Astbury di liberare tutta la sua bellissima voce. Nella successiva Love, invece, la chitarra di Billy Duffy (l’autore insieme ad Astbury di tutti i brani del disco) la fa da padrona… e che padrona! Viscerale, tosta, avvolgente, mentre le sezione ritmica procede implacabile e Astbury canta come se stesse rendendo l’anima al demonio.
Le acque si placano con Brother Wolf, Sister Moon, un maestoso lento d’atmosfera che si apre con ben tre chitarre differenti (sono tutte suonate dal bravissimo Duffy) e procede in un crescendo emotivo liberato dal suono della pioggia che arriva. E arriva davvero con Rain, forse il pezzo più famoso dei Cult: brano nel quale tutta la strumentazione è in bell’evidenza, compreso il basso di Jamie Stewart che forse era rimasto un po’ in ombra nei brani precedenti, anche se è quel geniale riff di chitarra a sostenere il tutto. Il finale di Rain è incandescente, la sensazione generale è inebriante, Ian canta con intensità e padronanza, tutto è perfetto in questo perfetto brano rock.
Phoenix sembra un brano dei Jimi Hendrix Experience in chiave heavy: la chitarra di Duffy è tormentata e viscerale, anzi le chitarre sono due, sovrapposte e con effetti diversi. Roba tosta. La successiva Hollow Man è invece simile nella struttura all’iniziale Nirvana ma se la musica è più dolce, il testo è più teso. Poi è la volta della rilassata Revolution, il classico brano rock da sentire mentre si guida al tramonto, magari pensando che da qualche parte stia accadendo una liberatoria rivoluzione. Il trascinante rock (vagamente orientaleggiante) di She Sells Sanctuary è l’unico tra i brani di “Love” ad avvalersi del batterista originale dei Cult, Nigel Preston. All’epoca, Preston era troppo fuori per i suoi eccessi con le droghe e così, dopo aver pubblicato She Sells Sanctuary come primo singolo in maggio, la band continuò il lavoro in studio rimpiazzandolo col versatile batterista dei Big Country, il già citato Brzezicki. Infine, alla struggente ballata celtica di Black Angel viene affidato il compito di concludere quello che secondo me resta uno dei dischi migliori usciti negli anni Ottanta.

Una raccomandazione finale: ascoltare “Love” con lo stereo, possibilmente un buon impianto, possibilmente sparandolo a tutto volume. Questo non è un facile dischetto da ascoltarsi con le misere cuffiette di walkman, lettori mp3 o affini, ma un lavoro potente che si merita due generose casse acustiche.