George Harrison: un apprezzamento postumo 15 anni dopo

george-harrisonNon solo Miles Davis, non solo Freddie Mercury, ma anche George Harrison. Un anno come questo 2016, che ci ha portato via artisti del calibro di David Bowie, Glenn Frey, Maurice White e Prince, ci ricorda infatti anche importanti anniversari, tra cui quello della morte del celebre chitarrista solista dei Beatles, avvenuta appunto il 29 novembre del 2001.

Quindici anni fa quasi non ci feci caso, a quella morte. Mi spiego meglio: il buon George era malato da tempo, la sua lunga lotta contro il cancro sembrava già una battaglia persa in partenza, la spiritualità che lo ha sempre caratterizzato, così come quel suo senso dell’humour, tanto british quanto macabro, mettevano il tutto nella giusta prospettiva. E così, quando venni a sapere della morte di uno dei miei amati Beatles, in fondo ne restai quasi sollevato. Mi dispiaceva sì, certamente, ma almeno l’uomo aveva smesso di soffrire. E di nascondersi ai media che lo braccavano da mesi, in un circo del pettegolezzo macabro che puntualmente si ripete ad ogni illustre agonia ma che puntualmente torna a disgustarmi.

Quindici anni dopo e mi sembra ancora strano pensare che George Harrison non sia più di questo mondo, così come John Lennon, morto ventun’anni prima in circostanze ancora più tragiche. Sarà che dei Beatles si è sempre parlato molto, si parla ancora molto anche oggi, e probabilmente se ne parlerà ancora molto in futuro, che pare che siano ancora lì, vivi e vegeti tutti e quattro, eternamente giovani, col sorriso, circondati da quella musica che ha segnato tanto profondamente sia la storia del secondo dopoguerra che le vite di tutti noi, ci piacciano o meno i dischi dei Beatles. Insomma, sembra proprio che i Fab Four siano eterni, e poco importa che la metà di loro non ci sia più, e da molti anni ormai.

In questi quindici anni, per quanto mi riguarda, ho fatto una scoperta clamorosa, un qualcosa che in quel lontano 2001 non avrei mai lontanamente sospettato: i dischi da solista di George Harrison sono quelli che, tra tutti e quattro gli autori, mi piacciono di più, quelli che più ascolto, quelli che sembrano perfino più rilevanti col passare del tempo. Essì che ho sempre pensato che “All Things Must Pass” – il primo disco che il nostro ha pubblicato all’indomani dello scioglimento del Beatles, nel 1970 – sia non soltanto il disco più bello d’un Beatle solista ma anche uno che potrebbe stare sullo stesso piano dei vari “Sgt. Pepper”, “White Album” e “Abbey Road”; tuttavia in questi ultimi anni ho definitivamente apprezzato quell’unico componente dei miei amati Beatles che sembrava restarsene un po’ nell’ombra. Guardando in alto a quei giganti di Paul McCartney e John Lennon, e tutto preso dalla mia smisurata simpatia per Ringo Starr, infatti, quasi non mi ero accorto di George e della sua musica. Ci sono arrivato in anni più recenti, e per me è stato un autentico shock culturale.

Anche l’ultimo album da studio di Harrison, pubblicato per suo volere nel 2002, quando ormai se n’era già andato, non solo è perfettamente in linea con la sua produzione solistica dei tempi d’oro ma è anche uno dei più bei dischi beatlesolistici di sempre. E’ come se avessi avuto, ascoltando quegli album e informandomi di più sulla vita del nostro, un’autentica rivelazione.

Mi dispiace di essermi perso tutto questo quando George Harrison era ancora in vita. Eppure sono convinto che un grande artista abbia proprio questa caratteristica: dopo la sua morte, anche molti anni dopo il luttuoso evento, continua a far parlare di sé, mentre la sua opera continua ad appassionarci e, in casi non rari, a meravigliarci ancora. – Matteo Aceto

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