Altre brutte copertine di dischi

La musica di Miles Davis che più amo è quella che il grande trombettista americano ha inciso quando era sotto contratto con la Columbia (gli anni 1955-1985). La musica che successivamente ha inciso per conto della Warner Bros, nella fase finale della sua carriera, mi piace un po’ meno ma ancora meno mi piacciono i suoi anni pre-Columbia, per così dire, soprattutto quando incideva per la Prestige. E tra i motivi che mi tengono alla larga da quei dischi metto proprio le orride copertine che molto spesso ornavano i lavori comunque degni di nota di Davis. Eccone una selezione.

Miles Davis, Relaxin

“Relaxin’ With The Miles Davis Quintet” è una raccolta di materiale inciso nel 1956 e quindi pubblicato dalla Prestige nel 1958, quando Miles era già passato alla Columbia. Non discuto il contenuto dell’album, peraltro registrato dal nostro assieme a uno dei suoi gruppi migliori, ovvero quello con John Coltrane, Red Garland, Paul Chambers e Philly Joe Jones. Ma la copertina? Mi ha sempre raffreddato la voglia di ascoltarmi il disco, purtroppo.

Miles Davis, Collectors Items

E che dire di “Collectors’ Items”, inciso sempre in quel 1956 ma con tutt’altra formazione?

Miles Davis, Miles Davis And Horns

Anche se, per quanto mi riguarda, la copertina più brutta d’un disco di Miles Davis resta quella di “Miles Davis And Horns”, anch’essa del 1956. Certo che l’allora reparto grafico della Prestige era a dir poco originale.

Il mondo è comunque pieno di brutte copertine di dischi, e continuano a farne anche in tempi recenti. Vediamone qualcuna.

Ed Sheeran, X

Ecco l’album “X” (gruppo Warner, 2014) di Ed Sheeran, un cantante del quale oggi tutti sembrano proprio non poterne fare a meno, in particolare i programmisti radiofonici.

Katy Perry, Witness, 2017

Questa è invece la spaventosa copertina di “Witness”, l’ultimo album di Katy Perry, pubblicato dalla Capitol nel 2017. E pensare che sarebbe bastata una semplice foto alla stessa Perry per dare invece alle stampe una bella copertina.

Depeche Mode - Spirit

Ancora i Depeche Mode, con una brutta copertina tratta da quello che molto probabilmente è il loro album più brutto, il recente “Spirit” (Sony, 2017).

Lou Reed, Metallica, Lulu

E che dire poi dell’orrenda copertina di “Lulu”, una collaborazione del 2011 tra Lou Reed e i Metallica pubblicata dalla Warner nel 2011?

Ma in casa, oltre a “Spirit” dei Depeche Mode e ai dischi Prestige di Miles Davis ho anche i seguenti…

Prince, Rave Un2 The Joy Fantastic, 1999

Prince, “Joy Un2 The Joy Fantastic” (gruppo BMG, 1999), oltre a…

New Order Republic

New Order, “Republic” (gruppo Warner, 1993), oppure, per fare un esempio nostrano…

Mango, Visto Così

Mango, “Visto Così” (gruppo Warner anch’esso, 1999).

Beh, penso che per ora la nostra carrellata di brutte copertine possa bastare. Ovviamente tutto è discutibile, quello che non piace a me potrebbe benissimo rappresentare un capolavoro per qualcun altro. Col prossimo post torneremo a parlare di musica vera. Forse proprio d’un noto album di Miles Davis che in questi giorni sto riascoltando spesso & volentieri. – Matteo Aceto

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La musica del 2009 tra realtà e sogni

depeche modeEccoci così al 2009! Prima di cominciare, però, lasciatemi augurarvi buon anno, di cuore. Non possiamo dire come sarà l’ultimo anno di questo decennio, ovvio, ma possiamo già tracciare i contorni della musica che ascolteremo nei prossimi mesi. Ecco quindi una breve rassegna della musica che verrà…

Album
Per me il più atteso è il nuovo dei Depeche Mode, previsto in primavera e al momento ancora senza titolo: la band inglese (nella foto) ha anche girato il video di Wrong, il singolo apripista… sono molto curioso, non vedo l’ora di vederlo! Pare che questo nuovo capitolo depechiano dovrebbe recuperare delle sonorità retrò. Intanto usciranno anche i nuovi album di Bruce Springsteen (a giorni), Peter Murphy (il cantante dei Bauhaus), Prince, David Sylvian, Morrissey, Neil Young, Megadeth, P.J. Harvey, Green Day, Devo, Roxy Music, U2, No Doubt e Robin Gibb. Forse anche il nuovo di Michael Jackson e forse – udite udite – anche il secondo album dei redivivi Sex Pistols, che darebbero quindi un seguito al celeberrimo “Never Mind The Bollocks” del 1977.

Concerti
Per quanto riguarda gli appuntamenti live previsti nel nostro paese, per ora segnalo solo i Depeche Mode, gli Eagles, i Metallica, gli Ac/Dc, i Judas Priest, i Megadeth, i Lynyrd Skynyrd e gli odiosi Oasis. Mi piacerebbe tantissimo vedere il concerto degli Eagles… ma suoneranno a Milano… per me sarà difficile starci. Spero anche che i Verve recuperino l’unica tappa del loro tour del 2008 – quello che segnava la reunion dopo quasi dieci anni dallo scioglimento – che avevano programmato in Italia: dovevano suonare a Livorno ma la loro esibizione saltò perché Richard Ashcroft aveva la laringite.

Reunion
Dopo le innumerevoli reunion degli ultimi anni, nel 2009 si attendono i ritorni – sul palco e/o in studio – di Blur (nella originale formazione a quattro), Magazine, Ultravox (nella formazione condotta da Midge Ure), The Specials, The Faces (sì, proprio il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood, scioltosi nei primi anni Settanta!) e forse anche Faith No More, Smiths (ma qui ci credo poco… sarebbe un miracolo!), Stone Roses e Spandau Ballet. Voci incontrollate parlano anche dei Jackson 5

Ristampe
“Odessa” dei Bee Gees uscirà fra pochi giorni, il 12, in un bel cofanetto con tanto di rarità & inediti (… e io ho già la bava alla bocca!) in occasione del quarantennale della sua edizione. A marzo sarà invece la volta di “Ten”, il classico dei Pearl Jam. Dovrebbero uscire anche gli ultimi capitoli della bella serie di remaster dei Cure, in particolare dell’album “Disintegration” che nel 2009 compie ventanni. In autunno, secondo alcune indiscrezioni, dovrebbero uscire anche i ciddì rimasterizzati di tutti gli album dei Beatles… chissà, io lo spero vivamente, a patto, cazzo, che vi siano inclusi degli inediti!

Film
In questo 2009 dovremmo vedere il benedetto film sulla vita di Bob Marley, in cantiere almeno dal 2003. Pare che quest’anno sia la volta buona, chissà, certo è che al momento non se ne conoscono molti particolari. Don Cheadle dovrebbe dar vita al suo film sull’immenso Miles Davis, in attesa almeno dal 2007. Si attendono anche film biografici su Freddie Mercury e Kurt Cobain, annunciati anch’essi alcuni anni fa. Correrei subito al cinema per vedermi quello su Mercury, si era parlato di Johnny Depp per la sua interpretazione, chissà.

Questo quello che è stato confermato, in maniera più o meno ufficiale da parte dei diretti interessati o da chi per loro. Ora passo brevemente alle mie aspettative per quest’anno:

  • spero in un ritorno sulle scene del grande David Bowie, magari anche solo per dei concerti, ovviamente con transito obbligatorio in Italia;
  • una cazzutissima ristampa di “The Wall” dei Pink Floyd in occasione del trentennale di quello che resta il mio album rock preferito;
  • un nuovo album da studio di Sting che, a parte la divagazione medievale di “Songs From The Labyrinth”, non mi pubblica un album con canzoni sue dal 2003;
  • un nuovo album e/o tour per i Tears For Fears con tassativo passaggio live in Italia;
  • la pubblicazione d’un cofanetto di Miles Davis con le sue collaborazioni con Prince (si parla comunque d’un nuovo cofanetto davisiano della sua discussa produzione anni Ottanta);
  • almeno un concerto in terra italiana per Paul McCartney;
  • un nuovo album per Roger Waters, che non pubblica un disco d’inediti dai tempi di “Amused To Death”.

Questo è quel che le mie antenne sono riuscite a captare nell’aria; se non altro si prefigura un 2009 abbastanza interessante sotto il profilo musicale. Per tutto il resto, come sempre, staremo a vedere! – Matteo Aceto

Notiziole musicali

Mick Hucknall Tribute To BobbyTempo di far ripartire questo modesto blog: per l’occasione penso sia utile fare una panoramica delle più recenti uscite discografiche e degli ultimi sviluppi relativi ad alcuni protagonisti della musica internazionale.

Allora, “Viva La Vida”, quarto album degli inglesi Coldplay, si è issato – come del resto era prevedibile – in testa alla classifica di casa. Ho avuto modo d’ascoltare quel disco e, sinceramente, non l’ho trovato un granché: dopo il magnifico “X&Y” del 2005 mi aspettavo qualcosa in più. Non che sia un cattivo lavoro ma le nuove canzoni di Chris Martin e compagni non mi hanno coinvolto più di tanto. A proposito di classifiche, anche l’ultimo del grande Paul Weller, “22 Dreams”, è balzato al 1° posto delle charts inglesi, a questo punto scalzato da “Viva La Vida”, presumo. Spero che Paul venga in tour anche in Italia: non l’ho mai visto dal vivo e mi piacerebbe tantissimo assistere ad un suo concerto. Passerà sicuramente da noi, invece, il mitico Stevie Wonder, il prossimo 26 settembre. Per me sarà un po’ difficile andarci, sarà a Milano… ma vedremo, è una pazzia che per il buon Stevie potrei fare!

Vecchie band in pericolo: se Ali Campbell, la storica voce degli UB40, ha recentemente comunicato la sua dipartita dal noto gruppo reggae inglese, Mick Hucknall dei Simply Red ha finalmente fatto il suo debutto solista, con un album di cover intitolato “Tribute To Bobby” (nella foto). Per la verità il buon Mick era praticamente un solista da parecchi anni ma è la prima volta che firma un album a suo nome. Pare che effettuerà un’ultima tournée celebrativa coi Simply Red, fra il 2008 e il 2009, dopodiché dovrebbe continuare a far uscire dischi come solista. Nel frattempo, Hucknall ha dato avvio alla ristampa – curata dalla Warner Bros – di tutto il suo catalogo storico: primo capitolo è forse l’album più famoso & fortunato dei nostri, “Stars” (1991), ripubblicato con tanto di ciddì aggiuntivo + divvuddì. Anche per gli inglesi Mission pare che sia arrivato il capolinea: mesi fa la band capitanata da Wayne Hussey ha girato il mondo in quello che è stato annunciato come il loro tour d’addio, nel frattempo Hussey si appresta a pubblicare un suo primo album solista, “Bare”, una raccolta di cover in chiave acustica.

Intanto Mark Thwaite, il chitarrista degli stessi Mission, è tornato ad affiancare il tenebroso Peter Murphy – storica & grande voce dei Bauhaus – sia su palco che in studio… il nuovo album di Peter, il successore di “Unshattered” del 2004, è attualmente in lavorazione.

Lavori in corso anche per i Metallica, che stanno per pubblicare un nuovo disco da studio, “Death Magnetic”, il primo da quando il bassista Rob Trujillo è entrato in formazione, intanto i Cure stanno già estraendo i singoli dal loro tredicesimo album – previsto per il… 13… settembre – che al momento non ha ancora un nome. Non si sa invece ancora nulla del fantomatico album che dovrebbe riportare Michael Jackson al vecchio splendore d’un tempo, così come si sono perse le tracce di Axl Rose e dei suoi Guns N’ Roses: ‘sto benedetto “Chinese Democracy” è tutto fuorché una realtà discografica. Molto più concreto sembra l’impegno in studio dell’ex collega di Axl, Slash, che ha annunciato la prossima pubblicazione d’un suo album solista. Che i Velvet Revolver, dopo l’abbandono di Scott Weiland per riformare gli Stone Temple Pilots, siano già un ricordo?

Sono fiero d’affermare che, dopo aver ascoltato il celebrato “Back To Black” (2006), il secondo album di Amy Winehouse, la musica della giovane & controversa cantante britannica non mi dice proprio nulla! Il solito fenomeno pop che la stampa cerca di spacciare come il nuovo grande talento… fino a qualche mese fa si parlava dei Gossip come di chissà chi, ora pare che se ne siano scordati tutti.

A settembre uscirà – udite udite – un nuovo album da studio dei Queen… o ciò che ne resta, ovvero Brian May e Roger Taylor che, dopo aver fatto comunella col cantante Paul Rodgers, si sono decisi nel riesumare in grande stile (si fa per dire) lo storico marchio. Io resto scetticissimo sull’operazione.

Ritorno in grande stile (questo sì) per i Simple Minds, che si riuniscono nella formazione originale dopo quasi trentanni: quest’anno segna infatti proprio il trentennale della band scozzese, nella quale farà ritorno il tastierista Michael McNeil, il bassista Malcom Foster (peraltro già collaboratore a sprazzi del gruppo nel corso degli anni Novanta) e il primo batterista (non ne ricordo il nome, forse perché il mio preferito è il secondo, Mel Gaynor). I redivivi Simple Minds si ritroveranno insieme in studio per incidere qualche nuovo brano da destinare a pubblicazioni antologiche, mentre dovrebbero effettuare un tour celebrativo. Attendiamo sviluppi!

E questo è quanto, per ora. Con l’approssimarsi dell’estate & del conseguente trasformarsi del mio portatile in un odioso fornello elettrico, non garantisco un aggiornamento frequente di questo sito. Ciao a tutti! – Matteo Aceto

Queen, “A Kind Of Magic”, 1986

queen-a-kind-of-magic-immagine-pubblica-blogNella prima metà del 1985, la carriera dei Queen era in stallo e forse vi sarebbe rimasta qualche anno se la band inglese non avesse ricevuto due offerte dall’esterno che di fatto la rimise in pista alla grande. Iniziò il cantante Bob Geldof che, in procinto di lanciare l’ormai storico Live Aid, invitò i Queen ad esibirsi sul palco di Wembley, a Londra, per quello che sarà ricordato dagli appassionati rock come il set più eccitante dell’intero programma del Live Aid. Poi seguì il regista Russell Mulcahy, fan dichiarato del gruppo, che invitò i Queen ad occuparsi della colonna sonora del suo primo film, un fantasy chiamato “Highlander”.

E così i nostri si ritrovarono nuovamente assieme in studio nell’autunno del 1985, per preparare la colonna sonora del film: il primo prodotto noto al pubblico fu però una canzone che esulava dal progetto, la rockeggiante One Vision, il cui testo aveva qualche rimando all’ancora fresca esperienza umanitaria del Live Aid. Pubblicata su singolo a novembre, One Vision riportò nei quartieri alti delle classifiche la vena più metallara dei Queen, che qui si producevano in un irresistibile ed epico brano rock. Curiosamente, anche One Vision fece da colonna sonora, per un film d’azione chiamato “Aquila d’Acciaio”.
Il lavoro in studio, comunque, proseguì con rinnovato entusiasmo: se la proposta iniziale di Mulcahy era d’incidere un paio di nuove canzoni per il suo film, i Queen ne registrarono molte di più e contribuirono attivamente anche agli stessi effetti sonori che la pellicola necessitava: ad esempio, c’è una scena in cui il cavallo dell’attore antagonista, il bravissimo Clancy Brown, nitrisce… beh, quel nitrito altro non è che la chitarra di Brian May!

Le canzoni che effettivamente si ascoltano in “Highlander” sono quindi Princes Of The Universe, One Year Of Love, Gimme The Prize, Who Wants To Live Forever, A Dozen Red Roses For My Darling / New York New York e la conclusiva A Kind Of Magic, quasi tutte abbastanza diverse dalle versioni che poi saranno incluse su disco. Sì, perché i Queen decisero infine di non voler pubblicare una semplice colonna sonora – come fecero sei anni prima con “Flash Gordon” – ma, con l’aggiunta di qualche altra nuova canzone, di realizzare un album vero e proprio. Da qui la pubblicazione, nel giugno ’86, di “A Kind Of Magic”, dodicesimo album da studio dei Queen che, come il precedente “The Works” (1984), volò al 1° posto della classifica inglese. In “A Kind Of Magic”, che molti appassionati come il sottoscritto considerano il miglior album dei Queen realizzato negli anni Ottanta, trovano posto nove canzoni, fra cui One Vision e cinque originariamente concepite come colonna sonora di “Highlander”. Ma ora vediamole brevemente una ad una.

1) Si parte proprio col rock ruggente di One Vision, qui in una versione più lunga (e più esaltante) di quella pubblicata su singolo. E’ una composizione accreditata a tutti e quattro i componenti del gruppo, anticipando ciò che sarà una norma nei due restanti album da studio dei Queen, “The Miracle” (1989) e “Innuendo” (1991).

2) Segue la ben più famosa A Kind Of Magic, sorta di danzereccio pop-rock pubblicato su singolo a marzo, da sempre una delle mie canzoni preferite dei Queen. La versione di A Kind Of Magic presente in “Highlander”, che ha il compito di musicare i titoli di coda del film, è molto diversa da questo noto hit: è più lenta e, sebbene sia meno rifinita nell’arrangiamento, è ben più epica. Anche se accreditata al solo Roger Taylor, il batterista dei Queen, nella versione più nota inserita nell’album risalta l’eccellente opera di riarrangiamento effettuata dall’indimenticabile Freddie Mercury.

3) One Year Of Love, presente anch’essa nel film, è invece una romantica ballata scritta da John Deacon, il mite bassista del gruppo. A parte l’appassionata prestazione vocale di Mercury, spicca in questa canzone l’assolo di sax di Steve Gregory, che è lo stesso che suona il celebre assolo in Careless Whisper di George Michael.

4) Il pop pulsante di Pain Is So Close To Pleasure, opera del duo Mercury-Deacon, è uno dei momenti più leggeri e melodici del disco, caratterizzato soprattutto dall’alta tonalità in falsetto di Freddie. In qualche Paese, Pain Is So Close To Pleasure è stata anche pubblicata su singolo.

5) Poi è la volta d’un’altra canzone molto famosa, Friends Will Be Friends, altra creazione Mercury-Deacon: una melodica ballata pop-rock, tipica dello stile dei Queen e pubblicata anche come terzo singolo, che tuttavia col tempo mi ha un po’ stancato. Insomma, se devo pensare ai Queen, non mi viene certamente in mente Friends Will Be Friends.

6) Segue un’altra celeberrima opera dei nostri, Who Wants To Live Forever, atmosferica ballata sinfonica dove la musica dei Queen (pare che però Deacon non vi abbia suonato) è accompagnata dall’orchestra diretta dal noto Michael Kamen (al lavoro con molti altri idoli pop-rock, da Bryan Adams ai Metallica, anche sarà ricordato come il direttore d’orchestra del floydiano “The Wall“). La toccante & drammatica Who Wants To Live Forever, tema centrale di “Highlander”, è anch’essa diversa da quanto ascoltiamo nel film e su disco: nel primo viene interamente cantata da Freddie Mercury, nel secondo l’introduzione, parte del bridge e la frase conclusiva sono invece cantate dal suo autore, Brian May.

7) Ancora Brian, in grande spolvero, è l’autore del brano più metallaro dei Queen, Gimme The Prize, che canta il punto di vista del Kurgan, il tosto avversario del protagonista del film, Christopher Lambert (nel mix della canzone si possono sentire anche diversi effetti audio del film). Il brano, dal massiccio andamento medio-lento, è uno schiacciasassi dove ad una grande perizia tecnico-espressiva di May si accosta la voce più urlante e cattiva che Mercury abbia mai messo su nastro. In seguito, lo stesso Mercury e John Deacon non hanno fatto mistero di non amare questa canzone.

8) Basata su A Dozen Red Roses For My Darling, uno pseudo techno strumentale che Roger Taylor ha composto per alcune sequenze del film (è stato pubblicato anche sul lato B del singolo A Kind Of Magic), Don’t Lose Your Head è un altro brano tosto, sebbene dalle tonalità più elettroniche. Interessante per l’utilizzo delle parti vocali – solista e cori per Freddie, distorte per Roger e d’abbellimento per Joan Armatrading, Don’t Lose Your Head è un brano alquanto stradaiolo e dall’atmosfera notturna.

9) La conclusiva Princes Of The Universe, un rock potente, drammatico & epico scritto da Freddie, resta una delle mie canzoni preferite dei Queen. Superbamente disinvolta la parte vocale, eccellente l’arrangiamento fra musica & cori, da antologia l’interludio in chiave speed-metal. In “Highlander” questa canzone è stata ottimamente scelta per musicare i titoli di testa e negli Stati Uniti è stata pubblicata come singolo. Il video di Princes Of The Universe, girato dallo stesso Russell Mulcahy come anche per A Kind Of Magic, figura diverse scene del film e la partecipazione attiva del suo protagonista, Christopher Lambert, che duella con quello che è il vero immortale… Freddie Mercury.

Non c’è traccia, invece, della cover di New York New York, brano reso celebre da Liza Minnelli: la versione dei Queen, che sul film si sente per meno d’un minuto e che costituisce un medley con A Dozen Red Roses For My Darling, non è presente in nessuna pubblicazione discografica ufficiale dei Queen. Di recente, Brian May ha parlato d’una possibile futura pubblicazione della colonna sonora di “Highlander” così come la si ascolta nel film, New York New York compresa. Speriamo bene!

A parte tutto, “A Kind Of Magic” resta un album ricco & piacevole, d’ottima fattura, in grado d’accontentare tutte le frange d’appassionati dei Queen, da quelli più metallari a quelli più sensibili alle belle melodie pop. A mio avviso, i Queen avrebbero potuto fare un lavoro più teso & drammatico, a metà fra l’hard rock di Princes Of The Universe e il sinfonismo di Who Wants To Live Forever e a discapito di momenti più pop quali Friends Will Be Friends e Pain Is So Close To Pleasure. Ma in fondo, e non mi dispiace ripeterlo, questo è l’album migliore edito dai Queen negli Ottanta e, di fatto, uno dei migliori a figurare nella loro discografia. – Matteo Aceto

Un anno di ritorni, il 2007… e il 2008?

john-lydon-johnny-rotten-pil-sex-pistolsIl 2007 appena trascorso s’è rivelato come l’anno dei grandi ritorni, molti dei quali del tutto inattesi. Solo un anno prima non avrei mai detto che, a distanza di pochi mesi, avrei visto dal vivo due delle mie bande rock preferite, i Genesis (con Phil Collins di nuovo nei ranghi) a Roma, e i Police a Torino… insomma, nei primi mesi del 2006 tutto questo era fantascienza per me!

L’ultima, clamorosa reunion in ordine di tempo è stata quella dei Led Zeppelin (col figlio di John Bonham a sostituire l’illustre genitore, scomparso nell’80), ma grande attenzione da parte della stampa è stata riservata ai ritorni di due celeberrime formazioni pop degli anni Novanta, i Take That (anche se privi di Robbie Williams) e le Spice Girls al gran completo. Grande attenzione da parte degli acquirenti di dischi come il sottoscritto è stata riservata invece agli Eagles che, col loro recente “Long Road Out Of Eden” (l’ho comprato per Natale… lo recensirò presto…), hanno meritatamente conquistato il 1° posto della classifica americana, vale a dire il mercato discografico più importante al mondo.

Nel corso del 2007, tuttavia, sono state parecchie le formazioni che si sono ritrovate insieme dopo molti anni, sia sul palco, sia in studio o in entrambi i casi. Qui mi limito a citare i Sex Pistols – sul palco (nella foto sopra, una rassicurante immagine del loro cantante, quel gran soggettone di Johnny Rotten) – i Verve di Richard Ashcroft – palco e studio – gli Smashing Pumpkins – studio e palco – i James (quelli di Sit Down), i Crowded House (quelli di Don’t Dream It’s Over) – palco e studio – i Jesus And Mary Chain, gli Stooges del selvaggio e carismatico Iggy Pop – studio e palco – e gli Happy Mondays, una band di sballoni proveniente da Manchester particolarmente celebre (in patria) fra gli ultimi anni Ottanta e i primi Novanta.

Pure i Queen, o ciò che ne rimane, ovvero Brian May con Roger Taylor, sono tornati in pista: a dicembre è uscito il singolo Say It’s Not True, sempre con la partecipazione di Paul Rodgers come cantante, mentre per questo 2008 si attende un album completo. Si attendono inoltre i nuovi album dei già citati Verve, dei Cure, dei R.E.M., dei Metallica e, udite udite, di Michael Jackson. Proprio il nome di Michael Jackson potrebbe essere quello più discusso in questo 2008… dovrebbe intraprendere un tour per sanare i suoi debiti e, per farlo, potrebbe resuscitare addirittura i Jacksons, la sua storica band con i fratelli. Personalmente sono molto curioso, nel frattempo a febbraio uscirà una lussuosa riedizione del suo classicissimo, l’album “Thriller” datato 1982.

Insomma, musicalmente anche questo 2008 promette bene… spero che si avranno altre piacevoli sorprese! A questo punto, per quanto mi riguarda, ora aspetto una sola reunion… quella dei benedetti Pink Floyd… ma, sia ben chiaro, senza Roger Waters non ne voglio sapere alcunché!

Buon anno a tutti, amici blogger & lettori, ci sentiamo nei prossimi giorni. Ciao! – Mat

Queen: storia e discografia

queenQueen si formarono nel 1970 a Londra, dalle ceneri degli Smile, gruppo più o meno progressive dove già militavano Brian May (chitarra, piano e voce) e Roger Taylor (batteria e voce). Con l’arrivo di Freddie Mercury (voce e piano), la band cambiò quindi nome in Queen. Nel corso del ’71, infine, entrò un bassista in pianta stabile, il mite ma affidabile John Deacon, e finalmente i Queen poterono avviare il loro corso musicale.

Tutti e quattro i componenti del gruppo iniziarono a comporre nuove canzoni, ripescandone alcune dal periodo degli Smile e alcune dal periodo di Freddie con gli Ibex e i Wreckage, le sue formazioni precedenti. Intanto i Queen firmarono per la EMI che, soltanto nel luglio ’73, si decise a pubblicare il primo album della band, l’omonimo “Queen“, anticipato dal singolo Keep Yourself Alive. Problemi con le tempistiche nei giorni di registrazione, errori di gioventù da parte del management e una certa diffidenza dei discografici ad aprire le porte a un gruppo chiamato Queen (in slang inglese ‘queen’ sta per ‘checca’), fecero apparire nei negozi un album che era già superato, sia dai concorrenti della band che dalle stesse doti compositive dei propri membri.

L’album successivo, il ben più ambizioso “Queen II“, segnò infatti una decisa maturazione dello stile dei nostri verso quella tipica sonorità che caratterizzerà la vita artistica di Freddie Mercury e compagni, ovvero un rock epico e teatrale, tanto melodico quanto potente. Forte d’un singolo da Top Ten come Seven Seas Of Rhye, “Queen II” riscuoterà un incoraggiante successo in patria, anche grazie alla qualità delle sue canzoni, fra le quali ricordo White Queen, Father To Son, Ogre Battle e The March Of The Black Queen. Farà comunque meglio il terzo album della band, sempre del 1974, l’eclettico e variegato “Sheer Heart Attack“, che spinto dall’imprevisto successo del singolo Killer Queen (2° posto in Gran Bretagna) si piazzò al 2° posto della classifica inglese. Questo terzo album dei nostri contiene inoltre classici come Stone Cold Crazy, Now I’m Here, In The Lap Of The Gods (Revisited) e Brighton Rock.

Il botto per i Queen giunse però nel ’75, grazie al successo di due prodotti artistici sensazionali: il singolo Bohemian Rhapsody e l’album “A Night At The Opera“, entrambi giunti al 1° posto nelle rispettive classifiche inglesi. L’album, il cui titolo è preso da un film dei Fratelli Marx, contiene anche You’re My Best Friend, I’m In Love With My Car e Death On Two Legs ed è riconosciuto dai critici come il capolavoro dei Queen.

La band replicò i fasti nel ’76 col singolo Somebody To Love (2° in patria) e l’album “A Day At The Races” (dal titolo sempre preso da un film dei Marx e ugualmente al 1° posto in classifica) ma poi dovette fare i conti con una scena rock notevolmente cambiata. L’esplosione del fenomeno punk in Inghilterra, fra il ’76 e il ’77, mette infatti in discussione i cosiddetti dinosauri del rock, cioè quelle band come Led Zeppelin, Genesis, Pink Floyd e gli stessi Queen, che avevano spinto i confini tracciati dal rock ‘n’ roll verso un’opera più complessa e dalle notevoli qualità artistiche. In un modo o nell’altro un po’ tutte le band suddette riusciranno a passare indenni ma saranno costrette a modificare non poco i propri stili sonori. I Queen ne vennero fuori più che dignitosamente, grazie ad un album auto-prodotto come “News Of The World” (1977), forte di due hit storiche come We Are The Champions e We Will Rock You, accoppiate insieme in un unico, formidabile singolo. Il ’77 si ricorda anche come l’anno in cui uscì un primo atto solista da parte d’un componente dei Queen, ovvero Roger Taylor col singolo I Wanna Testify, mentre un paio d’anni prima Mercury e May avevano partecipato alla realizzazione d’un singolo per il misconosciuto cantautore Eddie Howell.

Nel 1978 i Queen ritrovarono il produttore Roy Thomas Baker – col quale avevano realizzato il fortunato “A Night At The Opera” – e pubblicarono “Jazz“, un disco fantasioso e compatto che si issò al 2° posto della classifica di casa. Impreziosito da autentiche perle quali Bicycle Race, Don’t Stop Me Now, Jealousy, Fat Bottomed Girls e Let Me Entertain You, “Jazz” resta tuttora uno degli ascolti più accattivanti nella discografia dei Queen.

Se il ’79 non vide nei negozi nessun nuovo disco da studio dei Queen (uscì però “Live Killers”, un potente doppio elleppì dal vivo), nel 1980 si vedranno ben due nuovi album nelle rivendite: “The Game”, contenente singoli strafamosi come la rockabilly Crazy Little Thing Called Love (edita già durante il ’79) e la funky Another One Bites The Dust, e “Flash Gordon“, colonna sonora elettro-ambient dell’omonimo film. Sono due lavori notevoli che esaltarono per una volta sia critica che pubblico, soprattutto “The Game” che raggiunse la vetta della classifica su entrambe le sponde dell’Atlantico. Anche sul versante live i Queen si dimostrarono in gran forma, suonando con successo praticamente ovunque e divenendo campioni d’incassi soprattutto in Giappone e in Sudamerica. Per suggellare questo momento d’oro ma anche per festeggiare i loro dieci anni d’attività comune, i Queen pubblicarono quindi “Greatest Hits” (1981) e si tolsero lo sfizio di collaborare con David Bowie, realizzando un singolo da 1° posto in classifica, la superlativa Under Pressure. Nello stesso 1981, inoltre, uscì il primo album d’un Queen solista, ancora Roger Taylor, col suo “Fun In Space”.

Per quanto riguardava il nuovo album dei Queen, invece, la band pensò bene d’esplorare le sonorità più funky e disco accennate nel precedente “The Game”: ne nacque così “Hot Space“, l’album che più si discosta dallo stile abituale dei nostri. Pubblicato nel 1982, “Hot Space” suscitò molte proteste anche da parte dei fan storici, perché sacrificava gli aspetti più rock e heavy dei Queen a favore di arrangiamenti più elettronici e danzerecci. Nonostante “Hot Space” riuscisse a salire fino al 4° posto in classifica e ad agguantare un disco d’oro, l’esperienza scottò gli stessi Queen che per un periodo di tempo preferirono separarsi in modo da dedicarsi ai vari progetti solisti. In particolare, Brian May organizzò una grande jam session con Eddie Van Halen che nel corso dell’83 si tradusse in un mini album chiamato “The Starfleet Project”, accreditato a Brian May & Friends. Freddie Mercury collaborò invece con altri artisti, fra cui Billy Squier, Michael Jackson, Rod Stewart, Giorgio Moroder e iniziò ad incidere il suo primo album solista, “Mr. Bad Guy“, che vedrà la luce solo nel 1985. Più concretamente, Roger Taylor pubblicò nel 1984 il suo secondo album solista, “Strange Frontier”, mentre John Deacon, solitamente il componente meno prolifico dei Queen, collaborò, nel corso degli anni Ottanta, con The Immortals, Errol Brown degli Hot Chocolate, Elton John e Minako Honda.

Nell’estate del 1983 i Queen ebbero però modo di ricostituirsi e di tornare in sala di registrazione: a fine anno uscì quindi lo straordinario singolo di Radio Ga Ga (al 1° posto in molti Paesi europei), seguìto nel febbraio ’84 dal robusto “The Works“, undicesimo album da studio dei nostri, che riportò meritatamente i Queen al vertice della classifica inglese, anche grazie ad altri tre bei singoli come I Want To Break Free, It’s A Hard Life e Hammer To Fall. Dopo un altro periodo di pausa nel 1985 – interrotto solo dalla trionfale apparizione al Live Aid e dall’uscita del potente singolo One Vision – i Queen tornarono alla grande nell’86 con l’album “A Kind Of Magic“, ancora un numero uno nella classifica di casa. L’album, in parte colonna sonora del film “Highlander”, figura celebri pezzi come A Kind Of Magic, Who Wants To Live Forever, Princes Of The Universe e Friends Will Be Friends e venne supportato da un entusiastico e fortunato tour in giro per l’Europa, purtroppo ricordato come l’ultimo tour dei Queen.

Il 1987 vide i componenti della band tornare ad occuparsi delle proprie carriere soliste, specialmente Freddie e Roger: se il primo realizzò su singolo la cover di The Great Pretender e prese a collaborare col soprano Montserrat Caballé per quello che sarà l’album “Barcelona” (1988), il secondo diede addirittura vita ad una band parallela, The Cross, nella quale assunse il ruolo di cantante e chitarrista ritmico. Il primo album dei Cross, “Shove It”, uscì quindi entro l’anno e figurava una canzone cantata dallo stesso Mercury, Heaven For Everyone (più tardi recuperata dai tre Queen superstiti come omaggio a Freddie). Anche Brian May iniziò a registrare del materiale solista, parte del quale figurerà nel suo primo album, “Back To The Light” (1992), ma perlopiù preferirà collaborare con altri artisti, fra i quali ricordo Black Sabbath, Steve Hackett, Holly Johnson dei Frankie Goes To Hollywood, Def Leppard, Extreme, Chris Thompson, Billy Squier e altri. In realtà in quegli anni il versatile chitarrista dei Queen visse un difficile periodo personale culminato con la morte dell’amato padre e col sofferto divorzio dalla moglie.

Il nuovo album dei Queen, “The Miracle“, giunse finalmente nel maggio ’89 e volò direttamente al 1° posto della classifica inglese, supportato da due singoli potenti e memorabili come I Want It All e Breakthru. In realtà il successo dell’album sarà tale da spingere la EMI ad estrarne altri tre singoli, The Invisible Man, Scandal e la stessa The Miracle. Tuttavia alcune dichiarazioni di Freddie alla stampa e il fatto che i Queen non intrapresero nessun tour per supportare il nuovo disco diedero il via alle prime illazioni che volevano il cantante vittima d’una misteriosa malattia, molto probabilmente l’AIDS. Sarà proprio così, purtroppo, ma le reali condizioni di salute di Mercury – che peggioreranno progressivamente – saranno avvolte da un assoluto riserbo fino al giorno prima della sua morte. Freddie preferì infatti concentrarsi sull’unica cosa che gli dava la forza di andare avanti e di esorcizzare la paura: la composizione di nuova musica. Perciò, quando “The Miracle” era ancora in fase promozionale con singoli e videoclip, i Queen già tornarono in studio per dargli un seguito.

La gestazione del nuovo album risulterà più laboriosa del previsto, sia per la carenza dell’apporto di John Deacon e sia soprattutto per le condizioni fisiche di Mercury, sempre più affaticato e debilitato. Ciononostante la band realizzò un capolavoro, quello che secondo me è il loro album migliore, “Innuendo“, il quale raggiunse la vetta della classifica inglese (così come il singolo omonimo edito poco tempo prima) all’indomani della sua pubblicazione, avvenuta nel febbraio ’91. Un album straordinario “Innuendo”, del quale ricordo le canzoni The Show Must Go On, I’m Going Slightly Mad, Headlong e These Are The Days Of Our Lives.

A dieci anni dal primo “Greatest Hits”, ecco quindi “Greatest Hits II”, pubblicato nell’ottobre ’91 e contenente i successi dei Queen del periodo 1981-1991. E’ il primo disco che comprai di persona (avevo da poco preso il mio primo stereo), il ciddì che mi farà presto appassionare alla musica dei Queen, portandomi all’acquisto di tutti i loro album nel giro d’un paio d’anni. Purtroppo, però, il 24 novembre Freddie Mercury morì nella sua villa vittoriana di Kensington, dopo aver dato ufficialmente l’annuncio sulle sue vere condizioni di salute il giorno prima, per mezzo del manager dei Queen, Jim Beach. La causa della morte di Freddie è stata una polmonite dovuta alle carenze di difese immunitarie… AIDS bastardo!

Il cordoglio per la scomparsa della voce rock più bella di tutti i tempi e per uno dei maggiori entertainer del Ventesimo secolo fu grande in tutto il mondo. Diversi esponenti del pop-rock e del metal angloamericano – Elton John, David Bowie, George Michael, Metallica, Guns N’ Roses, Paul Young, Robert Plant, Liza Minnelli e altri – omaggeranno la figura e l’arte di Freddie in un grandioso concerto svoltosi allo stadio di Wembley nell’aprile 1992, organizzato dai tre Queen superstiti come evento benefico per raccogliere fondi da devolvere alla ricerca contro l’AIDS. Lo stesso Freddie, nel suo testamento, diede l’avvio alla creazione del Mercury Phoenix Trust, un ente per la raccolta di fondi contro la terribile malattia, gran parte dei quali messi a disposizione dagli stessi crediti autoriali delle sue canzoni.

Dopo il Freddie Mercury Tribute dell’aprile ’92, i membri dei Queen procederanno da soli, con Brian May che finalmente pubblicò il suo primo disco solista vero e proprio, il già citato “Back The Light”, edito nel luglio di quell’anno e seguìto, nel ’94, da “Happiness?” di Roger Taylor (dopo aver dato alle stampe altri due album a nome The Cross), lavori discografici dedicati entrambi all’amico scomparso. Un tributo più consistente a Freddie giunse però nel ’95, vale a dire il quindicesimo album da studio dei Queen, il discusso “Made In Heaven“. Il primo album post-Mercury s’avvalse ancora dell’arte del compianto cantante, giacché raccoglieva in una nuova forma tutte quelle canzoni che, per un motivo o per l’altro, erano state escluse dagli album del gruppo nel periodo 1980-1991. Gli inediti veri e propri, tuttavia, erano soltanto cinque: la riflessiva It’s A Beautiful Day, la gospeliana Let Me Live, la struggente Mother Love, la movimentata You Don’t Fool Me e la commovente A Winter’s Tale.

Un disco che mi soddisfò appena, “Made In Heaven”, ma che comunque comprai e accettai come parte della storia discografica dei Queen. La maggior parte di tutto quello che è venuto subito dopo, come antologie d’ogni sorta, remix, cofanetti, album live, dischi e tournée con altri cantanti e bassisti, nonché canzoni vendute alla pubblicità, o mi ha lasciato indifferente o mi ha deluso come fan. La mia passione per la musica dei Queen, almeno fin dove è potuto arrivare Freddie Mercury, è rimasta tuttavia inalterata dopo tutti questi anni. E di questo non posso che essere grato anche ai signori May e Taylor. – Matteo Aceto

Megadeth, “So Far, So Good… So What!”, 1988

megadeth-so-far-so-good-so-whatL’album migliore dei Megadeth è molto probabilmente “Peace Sells” ma, di fatto, quello che ascolto più spesso è il successivo “So Far, So Good… So What!”, forse perché ai caratteristici elementi sonori del metal vi sono innestate la velocità e la furia del punk. E non è un caso che fra le canzoni del disco vi sia la cover di Anarchy In The U.K. dei Sex Pistols, gli alfieri indiscussi della musica punk.

“So Far, So Good… So What!” figura il primo dei tanti cambi di formazione che caratterizzeranno la storia dei Megadeth, qui composti da Dave Mustaine (cantante, chitarrista, fondatore & leader incontrastato della band), David Ellefson (bassista e unico membro con Mustaine della formazione originaria), Jeff Young (abilissimo chitarrista) e Chuck Behler (tostissimo batterista). Vediamo ora gli otto brani che formano questo terzo album del grande gruppo metal americano.

1) Si parte con un superbo pezzo strumentale, Into The Lungs Of Hell, poderosa cavalcata metal che, dal punto di vista melodico, ricorda l’epicità dei celebri temi western composti da Ennio Morricone. Into The Lungs Of Hell è uno dei migliori inizi che io abbia mai avuto il piacere di sentire in un album, un pezzo assolutamente travolgente e forte d’una grande perizia tecnica, con le due chitarre di Mustaine e Young in grandissimo spolvero.

2) Secondo Mustaine, Set The World Afire è il primo brano che ha scritto dopo essere stato cacciato dai Metallica, nel 1983: è un irresistibile pezzo di progressive metal, un’altra grandiosa cavalcata che si staglia fra i vertici artistico-espressivi di questa band. A pensarci bene, è forse la canzone dei Megadeth che più apprezzo.

3-4) Viene quindi la rumorosa cover dei Sex Pistols citata poco fa, solo che Dave canta ‘anarchy in the U.S.A.’ e riporta erroneamente qualche altra parola del testo originale; tutto sommato è un risultato pregevole, impreziosito dalla partecipazione dello stesso Steve Jones, chitarrista dei Pistols. Poi è la volta della ben più melodica Mary Jane (anche se nella seconda metà si scatena di più), altra grande canzone tratta da questo disco, forte d’una bella & espressiva parte vocale di Mustaine.

5) Il duro & stradaiolo 502 è un brano che sembra proprio sfuggire all’inseguimento della sbirranza sulle polverose strade americane… una canzone divertente ma pericolosa per via dei suoi riferimenti alle droghe pesanti e all’incitamento a spingere il piede sull’acceleratore.

6) In My Darkest Hour, oltre ad essere una delle canzoni migliori dei Megadeth, è anche una delle più care ai fan, in quanto esprime il dolore di Mustaine per la tragica scomparsa dell’unico componente dei Metallica col quale andava d’accordo, il bassista Cliff Burton. In My Darkest Hour è una magnifica prova di grande musica rock portata all’estremo, divisa in due tempi (col secondo molto più serrato e nervoso) e forte d’un arrangiamento per chitarre davvero notevole.

7-8) Liar è invece una dura accusa contro Chris Poland, ex componente dei Megadeth: un brano secco & cattivo che forse non aggiunge nulla e che si pone come il momento più basso dell’album. Chiude Hook In Mouth, altro brano molto tirato, piuttosto secco, con Mustaine che rabbiosamente invoca maggior libertà d’espressione e d’opinione; notevoli infine gli avvolgenti assoli di chitarra che vedono alternarsi in successione Dave e Jeff.

Nel 2004 è stato ristampato tutto il vecchio catalogo dei Megadeth, remixato e remasterizzato con la supervisione dello stesso Mustaine. La ristampa di “So Far, So Good… So What!” include quattro ‘Paul Lani Mix’ – vale a dire versioni precedenti e leggermente più grezze nel sound di quelle infine pubblicate – di Into The Lungs Of Hell, Set The World Afire, Mary Jane (questa abbastanza differente) e In My Darkest Hour. Con meno di dieci euro si aggiunge tutto questo, vale a dire un grandioso materiale metal, alla propria collezione di dischi. – Matteo Aceto

Nick Cave

Nick Cave immagine pubblicaVolevo scrivere un post su questo personaggio da molto tempo… poi ho affidato il compito a mio fratello Luca. Non sarei stato in grado di fare un lavoro migliore del suo.

Quando il fratellone, conoscendo bene le mie simpatie per la rockstar australiana e la sua banda di scagnozzi, mi ha chiesto di scrivere per il suo blog questo post, io ho accettato felicemente, ma presto mi sono accorto di quanto fosse difficile scrivere di Nick Cave! Precisamente, cosa avrei scritto? Di quale Nick Cave avrei parlato?

Domande non semplici, perché nelle cantine di Melbourne il giovane Nicholas Edward Cave (classe 1957) inizia presto a far baccano, appena diciottenne, facendosi conoscere più che per la qualità del suo punk, per i furti, il consumo di droga e i primi guai con la giustizia. La maggior parte di voi conoscerà sicuramente il Cave emaciato e funereo, icona moderna del poeta maledetto, ma c’è anche quello che dalla metà degli anni Novanta in poi scrive bellissime canzoni d’amore, malinconicamente dolci; che tiene lezioni di scrittura poetica presso le università; che ha ormai superato gli eccessi della giovinezza e la terribile tossicodipendenza.

E chi non ricorda poi il Nick Cave immortalato da Wim Wenders nel suo capolavoro “Il Cielo Sopra Berlino” del 1988? Quell’australiano trapiantato nella capitale delle due repubbliche diviene l’artista-culto di una generazione berlinese senza passato, senza presente, senza futuro. Dirà Wenders di lui: “Non avrei potuto descrivere cosa fosse Berlino in quegli anni senza filmare un concerto di Nick Cave”. E adesso, proprio negli ultimi mesi, l’ex ribelle australiano torna nei negozi con il suo nuovo progetto, Grinderman (rock-blues un po’ attempato ma d’effetto sicuro), sfoggiando nuovi mustacchi neri ed una stempiatura evidente. Per farla breve, ho deciso di proporvi una semplice biografia musicale dell’artista, non troppo dettagliata, che vi permetterà di conoscere a grandi linee la vita e la musica di Nick Cave e dei suoi Bad Seeds.

Musicalmente, Nick Cave nasce nella Melbourne di fine anni Settanta, diventando con il suo primo gruppo, The Boys Next Door, uno dei punti di riferimento della scena punk locale. Con lui suona già Mick Harvey, l’amico/musicista che lo accompagnerà sempre durante la lunga carriera. Il gruppo, attivo dal 1977 al 1983, propone un sound difficile da etichettare, che spazia dal punk alla new wave, sotto l’influenza di David Bowie, Iggy Pop, Alice Cooper, Pere Ubu, Ramones. Nel 1980 i Boys Next Door cambiano nome in The Birthday Party, lasciano Melbourne e si trasferiscono prima a Londra e poi a Berlino, dove vivono di piccoli furti e spaccio. Le esibizioni deliranti li rendono più famosi dei loro dischi, che intanto sono arrivati alle orecchie di Ivo Watts-Russell della 4AD, il quale provvede a pubblicarli in Inghilterra.

Nonostante il discreto successo ottenuto, nel 1984 il gruppo si divide per problemi economici dovuti all’eccessivo consumo di droga: Cave tuttavia decide di continuare la sua carriera a Berlino, e, assieme a Mick Harvey, al chitarrista Blixa Bargeld (Einstürzende Neubauten), al batterista Barry Adamson (Magazine) ed al chitarrista Hugo Race – allegramente chiamati Bad Seeds – pubblica il primo lavoro da solista: “From Her To Eternity” (1984). L’album riprende dove i Birthday Party avevano lasciato e propone un blues malato, tanto trascinante quanto privo di senso, stravolgendo la lezione di Leonard Cohen e di Elvis Presley. Segue così “The Firstborn Is Dead” (1985), che si ricorda soprattutto per stupenda Tupelo, riconoscimento personale di Cave al dio Elvis: una cantilena spettrale divenuta subito uno dei classici dell’autore.

Nel 1986 Nick Cave, sempre accompagnato dai suoi Bad Seeds, pubblica invece il doppio lp “Kicking Against The Pricks”, un tributo ad artisti fondamentali per il suo immaginario musicale, come Jimi Hendrix e John Lee Hooker, ma anche Velvet Underground, di cui Cave ripropone magnificamente All Tomorrow’s Parties. Il 1986 è comunque un anno difficile per la band, a causa dei problemi di droga che iniziano a pesare all’interno: Berry Adamson lascia i Bad Seeds, mentre entrano Tony Wolf e Kid “Congo” Powers, ex chitarrista dei Gun Club.

Nonostante le difficoltà, Nick Cave realizza uno dei miei lavori preferiti, “Your Funeral, My Trial” (1986): il disco è un alternarsi di brani spettrali e decadenti, spesso maledettamente infervorati, come l’omonima Your Funeral, My Trial, Stranger Than Kindness o la geniale The Carny.
L’album successivo, “Tender Pray” (1988), è l’ultimo atto berlinese dei Bad Seeds. La voce di Cave, disperata, ripete ossessivamente il ritornello di The Mercy Seat, canzone-manifesto della condizione personale dell’autore: la dipendenza dalla droga è ormai totale, i concerti finiscono in rissa, e Cave non è più in grado di reggersi in piedi da solo. Tutto il disco è un desiderio musicale di redenzione, di salvezza, di espiazione.

Nel frattempo intorno al gruppo girano i tossicodipendenti di mezza Berlino, perché i concerti sono occasione di spaccio, e lo stesso Cave viene arrestato nel 1988 a Londra con quasi un chilo di eroina nelle tasche. Costretto in via giudiziale alla disintossicazione come unica alternativa al carcere, Cave vola a San Paolo, presso una clinica privata. Prima di lasciare Berlino però, nel 1987, pubblica il suo primo romanzo, “E L’Asina Vide Il Cielo”, in cui Nick dimostra di essere un bravo romanziere che conosce bene l’America dei folli predicatori e dell’integralismo biblico che sfocia nella intolleranza.

Iniziano così gli anni Novanta, ed inizia la rinascita personale e musicale dell’artista, che in Brasile conosce la compagna, madre del primo figlio Luke, la modella brasiliana Viviane Carneiro. Appena uscito dalla clinica di disintossicazione, Nick Cave appare barcollante nel video di The Ship Song, emozionante singolo dell’album “The Good Son” (1991), ma l’amore e la paternità hanno ormai cambiato l’uomo: lontano dagli eccessi berlinesi, Cave rimane colpito dalla miseria delle favelas, i cui drammi segnano profondamente i testi che scrive durante gli anni in Brasile.

Tuttavia l’equilibrio è ancora precario, gli anni a Berlino sono piuttosto recenti, e il disco ne risente, alternando momenti di ritrovata serenità ad improvvise ricadute, come nella atmosferica The Weeping Song. Seguono gli album “Henry’s Dream” (1992) e “Let Love In” (1994), famoso soprattutto per la bellissima Loverman, una diabolica dichiarazione d’amore, riproposta poi come cover dai Metallica e da Martin L. Gore. Entrambi gli album rivelano comunque un artista più vicino alla dannazione di quanto egli stesso e i giornalisti avevano fatto credere: la miseria quotidiana e il degrado suburbano sembrano affascinare non poco Cave, che con voce sempre più inquietante dà anima a testi che hanno per protagonisti stupratori, assassini e pederasti.

Nel 1994 termina la relazione con la Carneiro e Nick fa ritorno a Londra, dove risiede tuttora: ormai libero dalla dipendenza da eroina, confessa però di esserne ancora attratto nel profondo, e di lottare quotidianamente contro il proprio lato negativo così duro a morire. In questi anni Nick Cave si avvicina alla letteratura gotica anglo-americana, che ispira l’album “Murder Ballads” del 1996: dieci brani che portano in musica storielle tradizionali di carnefici e vittime, assassini e omicidi (alla fine del disco se ne contano quasi cento, un numero che porterà lo stesso Cave a scusarsi pubblicamente per la violenza dei testi). Oltre ai Bad Seeds, partecipano al disco Kylie Minogue, Anita Lane, Shane MacGowan e P.J. Harvey, con cui Cave ha anche una fugace relazione. Il celebre duetto con la Minogue, Where The Wild Roses Grow, gli vale la candidatura per gli Mtv Music Awards, che l’artista comunque rifiuta adducendo in una nota la seguente motivazione: “non voglio che la mia arte sia in competizione con nessun’ altra”.

Nel 1997 esce l’album che segna la svolta decisiva nella discografia dell’artista australiano e della sua band, “The Boatman’s Call”: un lavoro maturo, equilibrato, nato – a detta di Cave – da quella maturità che un uomo acquisisce (o dovrebbe acquisire) passati i quarant’anni. I brani sono malinconicamente dolci e si sviluppano tutti intorno alla voce limpida di Nick, accompagnata da semplici arrangiamenti di piano, come in Into My Arms o (Are You) The One That I’ve Been Waiting For?. Nello stesso anno Cave conosce Susie Bick, la sua attuale moglie, dalla quale ha due gemelli.

Nel 2001, sempre con i Bad Seeds, registra il tanto acclamato “No More Shall We Part”, album che porta a definitiva maturazione il processo creativo iniziato nel 1997: le composizioni sono arricchite dai violini di Warren Ellis, che rendono l’album particolarmente malinconico ed emozionante, come si può sentire nel primo singolo As I Sat Sadly By Her Side. Con “No More Shall We Part” Nick Cave si sbarazza definitivamente dell’abito nero da poeta maledetto che egli stesso si era cucito addosso, e con l’album successivo, “Nocturama” (2003) continua sulla stessa via, senza entusiasmare molto, pur facendosi notare per la delirante Babe I’m On Fire: diciassette minuti di pura frenesia rock-blues che sembrano fare il verso alle registrazioni degli esordi.

Nel 2004 il gruppo sembra essere davvero al culmine della creatività, pubblicando, ad un solo anno di distanza dal precedente, “Abbattoir Blues / The Lyre Of Orpheus”, doppio album che si dimostra essere un lavoro di qualità, piacevole da ascoltare, spontaneo e allo stesso tempo maturo, influenzato dal blues, dal rock classico, dai cori gospel ed a tratti anche dal pop più melodioso, come nel singolo Nature Boy.

Nel febbraio 2007 Nick Cave annuncia alla stampa la formazione del suo nuovo progetto, i Grinderman: assieme a lui, tra gli altri, l’amico Warren Ellis. Il gruppo diffonde in anteprima il singolo No Pussy Blues su Myspace, riscuotendo un buon successo mediatico. Tuttavia i Grinderman non entusiasmano a sufficienza, ma è un vizio di forma: è sbagliato aspettarsi di più da quattro attempati ragazzotti che cercano di riproporre il sound e la grinta dei loro esordi. Un nuovo album firmato Nick Cave And The Bad Seeds è atteso invece per il 2008.

Completano la produzione artistica di Cave le raccolte “The Best Of” (1998) e “B-sides And Rareties” (2005), più una serie di video musicali e documentari ufficiali, tra cui ricordo la raccolta di videclip del 1998 ed il recente dvd (2007) tratto dall’ “Abbattoir Blues Tour”. – Luca Aceto

I sostituti (a breve termine)

the-beatles-jimmy-nicolQualche tempo fa ho letto su Rockol che Joey Jordison, batterista degli Slipknot, farà parte nei Korn per cinque mesi, sostituendo il dimissionario Terry Bozzio, mentre la band valuterà un sostituto permanente. La notizia mi ha dato lo spunto per un post dedicato ai sostituti a breve termine, vale a dire quei componenti che hanno fatto parte d’una band per un breve periodo, giusto il tempo di completare un album in studio o di affrontare alcune parti d’un tour. Insomma, dei veri co.co.pro in ambito musicale! Vediamo qualche caso, cercando di procedere in ordine cronologico.

Partiamo dai Beatles, i quali, nel giugno del 1964 e alla vigilia d’un tour internazionale, sono costretti a rimpiazzare un influenzato Ringo Starr. Per non cancellare all’ultimo momento tutti gli impegni previsti, i Beatles decisero quindi di ricorrere ad un sostituto, il batterista Jimmy Nicol (nella foto sopra, coi Beatles ‘originali’), sconosciuto ai più nell’ambiente musicale e tornato a vestire i panni dello sconosciuto dopo questa prestigiosa parentesi di undici giorni. Anche i Bee Gees, fra il 1969 e il ’70, dovettero avvalersi d’un sostituto, anzi una sostituta, del tutto particolare: in quel periodo Robin Gibb aveva lasciato momentaneamente il gruppo e per riproporre dal vivo le tipiche armonie vocali a tre dei fratelli, Barry e Maurice pensarono bene di ricorrere alla propria sorella, Lesley Gibb. Una volta che Robin tornò all’ovile, di Lesley si perse però ogni traccia (artisticamente parlando, ovvio).

Pure i Genesis hanno dovuto far ricorso ad un sostituto, all’indomani della sofferta decisione del chitarrista Anthony Phillips – uno dei fondatori del gruppo – di andarsene, nel corso del 1970. Prima che Peter Gabriel e compagni trovassero in Steve Hackett un componente stabile (per poi rimanervi fino al 1977), venne quindi reclutato Mick Barnard, in modo che la band inglese potesse concludere la serie di concerti prevista in quel periodo. Anche per Mick… non so che cosa abbia combinato negli anni futuri.

Facciamo un salto temporale di oltre dieci anni e arriviamo al 1985, quando, nel corso della lavorazione al fortunato album “Love”, il batterista dei Cult, Nigel Preston, si rivelò troppo fuori di testa per poter continuare le sedute; la band si affidò così al bravissimo Mark Brzezicki dei Big Country per terminare l’album. Anche gli irlandesi Pogues beneficiarono d’un illustre sostituto, Joe Strummer dei Clash: al principio degli anni Novanta, Strummer sostituì in alcuni concerti il dimissionario (e fuori di testa) Shane MacGowan, finché Spider Stacy, flautista degli stessi Pogues, decise d’assumere permanentemente anche il ruolo di cantante.

Restiamo sempre in ambito concertistico ma passiamo ai Depeche Mode: durante il massacrante “Devotional Tour” del bienno 1993-94, la band era giunta ad un punto di rottura; un depresso Andy Fletcher capì tutto e mollò il tour nelle sue battute finali. Impossibilitati nel cancellare le date ma forse anche per togliersi di dosso il lavoro, i Depeche Mode ingaggiarono uno dei loro collaboratori, il tastierista Daryl Bamonte, che suonò con Martin Gore e compagni fra il maggio e il luglio ’94, in tutte le tappe previste nel continente americano.

Ritroviamo un altro illustre sostituto nel caso dei Jane’s Addiction: la band californiana effettuò una serie di concerti nel 1997 per suggellare il ritorno sulle scene dopo lo scioglimento del 1991, anche se il bassista Eric Avery non fu della partita. E così i Jane’s Addiction ingaggiarono l’amico Flea, il funambolico bassista dei Red Hot Chili Peppers.

In anni più recenti anche il produttore Bob Rock ha vestito i panni del sostituto: è stato il bassista dei Metallica in studio di registrazione durante le fasi preparatorie dell’album “St. Anger” (2003), dopo che Jason Newsted diede forfait ma prima che quest’ultimo venisse rimpiazzato in pianta stabile da Rob Trujillo dei Suicidal Tendencies.

Ecco, questi sono solo alcuni esempi di sostituzioni temporanee, i primi che mi sono venuti in mente (sono sicuro che anche Eric Clapton è stato un sostituto di lusso in qualche occasione ma al momento non ricordo nulla in proposito). Se ne conoscete degli altri siete calorosamente invitati ad intervenire!

Dave Mustaine

dave-mustaine-megadethIl tostissimo Dave Mustaine, leader incontrastato dei tostissimi Megadeth, ha una storia alquanto curiosa che merita di essere raccontata, seppur per sommi capi.

Il nostro è un chitarrista-cantante californiano, classe 1961, che nei primi anni Ottanta fa parte di una band chiamata Metallica in compagnia di Lars Ulrich (batteria), James Hetfield (chitarrista-cantante anch’egli) e Cliff Burton (basso). Ma la compagnia non sembra gradirlo molto e lo sbatte fuori nel 1983, poco prima d’incidere il primo album dei Metallica, “Kill ‘Em All”. Pare che Mustaine si drogasse tantissimo e per questo il temibile duo Ulrich-Hetfield lo avesse messo alla porta: in realtà, Dave non era soltanto un bravissimo chitarrista ma anche un prolifico autore… è la solita storia dei troppi galli nel pollaio.

Tuttavia, nel primo e nel secondo album dei Metallica, alcune canzoni sono accreditate anche a Mustaine, che viene quindi rimpiazzato da Kirk Hammett: i reciproci crediti autoriali si ripetono anche nell’album “Killing Is My Business… And Business Is Good!”, il primo album dei Megadeth. Sì, perché il nostro non perde tempo e mette su un altro gruppo, i Megadeth, per l’appunto. Mentre sono in procinto d’incidere il secondo album, i Megadeth vengono contattati da una major discografica, la Capitol-EMI, che pubblica così il fantastico “Peace Sells… But Who’s Buying?“. Quest’album, uscito nel 1986, è una pietra miliare del metal anni Ottanta: rientra in quel filone chiamato progressive-metal perché Mustaine e l’altro grandissimo chitarrista che l’accompagna, Chris Poland, s’inventano una tessitura che cambia più volte tempo e atmosfera ad una velocità incredibile. La forza d’urto è tremenda, ascoltare Wake Up Dead per credere!

Nel corso del 1987 le cose cambiano: Mustaine sbatte fuori il bravissimo Poland a causa della sua crescente tossicodipendenza (certo che farsi cacciare da Mustaine per una cosa simile risulta un po’ comica) e dà vita ad una seconda formazione dei Megadeth (nel corso degli anni la storia si ripeterà spesso, avrete capito tutti che Mustaine è il padrone assoluto in casa Megadeth): al principio del 1988 esce quindi “So Far, So Good… So What!“, il terzo album della band americana. E’ l’album dei Megadeth che preferisco: si apre con uno strumentale da brividi, Into The Lungs Of Hell, che ricorda un tema western di Ennio Morricone in chiave metal. Segue Set The World Afire, un’esperienza sonora sconvolgente… mi mette la pelle d’oca se l’ascolto mentre sono al volante. Segue ancora Anarchy In The U.K. (cover dei Sex Pistols, alla quale partecipa Steve Jones, chitarrista degli stessi) e poi la fantastica Mary Jane. L’altro brano memorabile è In My Darkest Hour, che Mustaine scrive all’indomani della morte di Cliff dei Metallica… pare che il povero Cliff fosse l’unico col quale Dave fosse rimasto in buoni rapporti.

Il successivo album dei Megadeth, il grandioso “Rust In Peace” (1990), segna una svolta nella carriera della band: i ritmi rallentano, il suono è più un potente hard rock che un metal, dovuto all’importante cambiamento occorso alla vita di Dave. Durante l’anno, il nostro si fa beccare drogato alla guida dell’auto: si becca una grossa multa e la condanna alla riabilitazione. Ma anche Dave si rende conto che si è spinto troppo oltre e accetta di buon grado la cura disintossicante. Negli anni successivi, Dave si sposa, ha dei figli, ritrova la fede religiosa… insomma, inizia a fare il bravo padre di famiglia e la cosa traspare inevitabilmente anche nella sua musica, che si fa via via più accessibile: l’album del ’92, “Countdown To Extinction”, vola infatti al 2° posto della classifica USA.

Da qualche parte ho letto che era meglio il Mustaine degli anni Ottanta, quello eroinomane che produceva della musica potente ed unica, mentre i suoi dischi successivi (diciamo quelli compresi fra il già citato “Countdown” e “The World Needs A Hero” del 2001), per quanto pregevoli, non hanno aggiunto più nulla. Anche per me, i primi quattro album dei Megadeth sono superiori, ma non posso però contestare la scelta d’un uomo che ha deciso d’uscire dal tunnel e di mettere la testa a posto. E poi, a parte il cambiamento della scena musicale negli anni Novanta, c’è da dire che anche le rockstar più sfrenate invecchiano… è difficile mantenere una rabbia credibile quando si ha un lauto conto in banca. -Matteo Aceto