Riprendendo un discorso introdotto un paio di post fa con “Agharta“, passiamo quindi a “Pangaea”, l’altro doppio live che è stato tratto dalle due esibizioni che la band di Miles Davis tenne il 1° febbraio 1975 all’Osaka Festival Hall.
Controparte essenziale di “Agharta”, il nostro è un album formato da due sole lunghe composizioni, Zimbabwe e Gondwana, una per ciddì. Dalla durata di ben 41’48”, Zimbabwe inizia con lo stesso frenetico funk che dà avvio alle danze in “Agharta”, con Miles che entra già a 1’17” per il suo primo assolo. Il sax solista di Sonny Fortune entra invece a 5’10”, dopo aver accompagnato l’assolo di Miles in alcuni punti. L’intervento di Sonny, molto bello, anticipa di poco un rallentamento del ritmo che si verifica a 5’44”. Invece a 8’35” parte l’assolo di chitarra di Pete Cosey, avvolgente e stridente, sparato sul canale sinistro dello stereo. Il ritmo accelera a 11’05”, mentre la tromba di Miles rientra a 11’27”; di lì a poco, tuttavia, l’intensità del brano diminuisce, lasciando per brevi tratti il solo basso e le percussioni a condurre le danze. A 16’03” ritroviamo il frenetico funk iniziale, seguìto pochi secondi dopo da una melodia all’unisono da parte di Davis e Fortune; Cosey torna quindi protagonista con la sua abrasiva chitarra a 18’02”, mentre a 18’39” – nel pieno di quell’assolo – il ritmo rallenta ancora una volta. La tromba di Miles annuncia a 21’51” un cambiamento d’atmosfera del brano, che si fa quindi più pacato ma anche più sinuoso e sensuale; un assolo compiuto di Davis inizia così a 23’22”, seguìto a 27’33” dal sax alto di Fortune. Anche il chitarrista ritmico Reggie Lucas si prodiga in un brillante assolo, a 30’29”, mentre il bassista Michael Henderson dà vita ad un possente groove che di fatto sorregge tutta quella sequenza del brano. Cosey torna a farsi sentire a 33’24” con una serie di pigre distorsioni – seguìto a ruota da Lucas – quando la musica placa l’incedere incalzante di poco prima per entrare in una dimensione quasi onirica. A 35’07” Miles puntella con un sommesso assolo alcuni passaggi che portano Zimbabwe a concludersi fra le originali percussioni ad acqua di Mtume.
Il secondo brano in programma, Gondwana, è invece un’opera più d’atmosfera, o anche decisamente dark se vogliamo. Si parte col flauto di Fortune in bell’evidenza, con Henderson, Mtume e il batterista Al Foster a procurargli un lento ma intenso tappeto sonoro, ricco di suggestioni africane. La tromba di Miles sostituisce il flauto di Sonny a 4’51”, per un pacato assolo che si prolunga fino a 9’34”, poco prima d’una notevole riduzione di volume & intensità della musica che si verifica a partire dal decimo minuto. Qui sono gli effetti percussivi di Mtume a farla da padrone, mentre a 14’19” Foster è l’artefice di una lenta ma vigorosa ripresa del ritmo, suggellata a 15’33” dal ritorno della tromba del leader. A 18’12” ha inizio – seppur in modo poco appariscente – il primo intervento da solista di Cosey in Gondwana, che si farà decisamente più incisivo una volta che la musica cambia atmosfera a 19’35”. A quel punto, infatti, il grandioso assolo di Cosey marca una sezione del brano più epica e drammatica che prosegue fino a 25’48”, quando il ritrovato vigore della lunga composizione sembrerà spegnersi ancora una volta. Alcuni fraseggi d’organo da parte di Davis e vivaci percussioni di Mtume daranno poi l’avvio ad una terza parte del brano, sempre dal ritmo medio-lento ma decisamente più incalzante. A 28’11” Davis torna a soffiare pacatamente nella sua tromba, ancora una volta resa tremolante dal wah-wah, mentre la musica torna anch’essa a placarsi. A 30′ esatti, Henderson e Foster suggeriscono una ritmica più jazzata e dinamica, per quanto molto delicata, mentre Miles procede nel suo assolo di grande suggestione. La chitarra di Cosey rientra timidamente a 35’59”, mentre Davis passa all’organo per svariate coloriture di superficie. Questa piacevolmente swingata atmosfera jazz si prolunga – con altri interventi più o meno di coloritura – fino alla conclusione del brano, che termina fra distorsioni e dissonanze a 46’50”.
Come per “Agharta”, anche qui il pubblico giapponese è stato così composto (o forse sconvolto…) che per parte nostra si ha la gradevole sensazione di ascoltare un disco registrato in studio. Tuttavia, il fatto che questa musica straordinaria sia il frutto di una lunga improvvisazione più o meno calcolata sul palco fa sì che “Pangaea” – assieme ad “Agharta” – si traduca in uno dei capitoli dal vivo più eccitanti della sterminata discografia di Miles Davis.
Nel corso del 2015, in occasione del quarantennale di questi due dischi, mi sarei aspettato dalla Sony una riedizione deluxe che potesse comprendere in un unico cofanetto la registrazione integrale di quanto Miles e la sua band fecero sentire il quel di Osaka il 1° febbraio di quattro decenni precedenti. Sono infatti certo che il produttore Teo Macero, per quanto abilissimo come sempre, abbia fatto gli opportuni tagli con tanto di editing creativo per far entrare il tutto in otto facciate di vinile dell’epoca. Tuttavia, a parte la piccola soddisfazione di leggere che anche uno storico davisiano come Paul Tingen si augurava quello che mi auguravo anch’io, la Sony ha disatteso le nostre aspettative. Ha sì continuato a distribuire dell’interessante materiale per la collana “The Bootleg Series” ma ha proseguito in modo non sempre logico e soprattutto non cronologico. Resto comunque in fiduciosa attesa per il futuro e, nel caso, sapremo tornare sull’argomento. – Matteo Aceto [dicembre 2008 / gennaio 2017]