Prince & The Revolution, “Purple Rain”, 1984

Prince, The Revolution, Purple Rain, immagine pubblica blogRitenuto a torto o a ragione il suo capolavoro, “Purple Rain” è senza dubbio l’album che ha fatto di Prince una grande star internazionale, la più splendente stella della musica degli anni Ottanta dopo Michael Jackson.

Prince, all’epoca ventiseienne, con “Purple Rain” divenne pure un divo del cinema: quando si parla oggi d’un disco come questo, infatti, quasi ci si dimentica che tale fortunato album del 1984 è la colonna sonora d’un altrettanto fortunato film. Film che ha avuto un notevole e duraturo impatto nel presentare la figura di Prince al pubblico mondiale. Insomma, piaccia o meno, “Purple Rain” è stato un autentico fenomeno culturale di quegli anni, e forse un post su questo modesto blog non è sufficiente a contenere tutto il discorso. Limitiamoci perciò al disco in quanto tale.

Un disco che, vi dirò subito, mi piace fino a un certo punto; per me il periodo più interessante di Prince è il decennio 1986-96, quello compreso tra gli album “Parade” ed “Emancipation“, per intenderci. Certo, il disco oggetto di questo post contiene Purple Rain, semplicemente una delle canzoni più belle di tutti i tempi, oltre a When Doves Cry, uno dei pezzi più formidabili di quel decennio. Altra gemma presente in “Purple Rain” è The Beautiful Ones, forte di quella che resta la prova vocale più impressionante nella discografia di Prince. Ma l’album contiene anche pezzi come Computer Blue e Darling Nikki che non mi hanno mai detto granché, così come Take Me With U, Baby I’m A Star e I Would Die 4 U, canzoni che per quanto pregevoli mi sembrano assai meno rilevanti che in passato. Resta ancora degna di nota Let’s Go Crazy, col suo sermone iniziale, con tutta la sua grinta rock, con la sua performance di gruppo (“Purple Rain” è accreditato infatti a Prince & The Revolution, il suo gruppo di supporto in quegli anni), sebbene la sua batteria elettronica mi suona oggi alquanto fastidiosa.

In definitiva, per quanto mi riguarda, accanto a momenti grandiosi che tutto sommato bastano a giustificare la presenza d’un disco come “Purple Rain” nella mia collezione, ne trovo altri di dubbio interesse (nonché gusto). Queste mie riserve non hanno tuttavia impedito a “Purple Rain” di vendere copie a milioni, e non hanno impedito al sottoscritto di andarsi a comprare la riedizione deluxe (tre ciddì e un divuddì) di “Purple Rain” pubblicata nel 2017, mentre già da qualche decennio possiede un bel vinile dell’epoca. Dopo tutto, io resto sempre un grande ammiratore del compianto Prince. – Matteo Aceto

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Michael Jackson, 60 anni dopo

michael jackson 60 anni dopo“Il ritorno dell’iperbarico”, titolava nel 2001 una delle peggiori riviste musicali che io abbia mai avuto il dispiacere di leggere, ovvero “Musica”, un orrido inserto settimanale in abbinamento al quotidiano La Repubblica di quegli anni. Il titolo di quell’infelice articolo, edito in occasione dell’uscita dell’album “Invincible” di Michael Jackson, era riferito a una delle tante leggende metropolitane che attorniavano il celebre cantante, ovvero che dormisse in una camera iperbarica per mantenersi sempre giovane. Mi fa davvero piacere constatare come oggi “Musica” non ci sia più, e anche da un bel po’ di anni, mentre per quanto riguarda Michael Jackson siamo ancora qui a parlarne. Certo, anche lui non c’è più, ma soltanto dal punto di vista fisico, perché la sua musica, i suoi dischi, i suoi videoclip, le sue canzoni sono davvero ovunque. Michael Jackson è perfino in “nuovi” brani d’alta classifica, come in Low di Lenny Kravitz e ancora con più evidenza in Don’t Matter To Me di Drake. Senza poi contare tutta la musica pop che – nel bene o nel male – ascoltiamo alla radio e (soprattutto) guardiamo in televisione: i riferimenti allo stile di Michael, voluti o meno, sono molteplici ed evidentissimi.

Ebbene, proprio oggi Michael Jackson avrebbe compiuto sessant’anni. Come sappiamo tutti, però, è prematuramente venuto a mancare in un maledetto giorno di fine giugno di nove anni fa, proprio alla vigilia d’un tour concertistico che ne avrebbe rivitalizzato la carriera. Carriera che, paradossalmente, è invece stata rivitalizzata da quella morte così inaspettata che ha letteralmente scioccato il mondo intero. Non riesco a immaginarmi un Michael Jackson sessantenne, non so proprio che cosa ne sarebbe stata della sua vita privata e della sua vicenda artistica se fosse sopravvissuto a quel fatidico arresto cardiaco. Questo perché la morte di Michael è stata qualcosa di così scioccante per il sottoscritto da rappresentare inesorabilmente un qualcosa di definitivo. Non c’è scampo, non si torna indietro.

La musica di Michael Jackson è però ovunque, e non solo nei dischi che ho a casa mia, e non solo nei già citati pezzi di Kravitz e di Drake; basta accendere la radio, sintonizzarsi in una stazione qualsiasi, in un orario qualsiasi, in un giorno a caso, e prima o poi un pezzo di Michael spunta fuori. Proprio qualche giorno fa, su R101, ho riascoltato Billie Jean ma posso ben testimoniare di essermi imbattuto, soltanto in queste ultime settimane, in brani come The Way You Make Me Feel, Man In The Mirror e Love Never Felt So Good (altro pezzo riemerso per la posterità, grazie a Justin Timberlake) mentre viaggiavo in macchina o facevo la spesa al supermercato.

E se ne continua a parlare. E non più come di un mostro, come faceva “Musica” e chissà quanti altri in quegli anni, ma – come è sacrosanto che sia – come di un grande. Un grande artista, un grande personaggio, un imprescindibile uomo di spettacolo che ha lasciato una traccia profonda nel nostro immaginario collettivo, che la cosa ci piaccia o meno. Uno che sta a buon diritto sullo stesso piano dei Beatles, di Elvis Presley, di Frank Sinatra e di pochi, pochissimi altri. Buon compleanno, Michael. – Matteo Aceto

George Benson, Al Jarreau, “Givin’ It Up”, 2006

George Benson, Al Jarreau, Givin' it up immagine pubblica blogQuanti dischi degli anni Duemila, una volta annunciati, abbiamo atteso con ansia, precipitandoci al più vicino negozio di dischi nel giorno stesso dell’uscita? E quanti di questi dischi ascoltiamo ancora oggi, quasi vent’anni dopo? Nel mio caso pochini. Gira & rigira, la musica che più ascolto è quella pubblicata tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso. Insomma, quante volte, negli ultimi anni, avrò sentito la necessità di ascoltare i vari “Invincible” (Michael Jackson, 2001), “Up” (Peter Gabriel, 2002), “Heathen” (David Bowie, 2002), “Morph The Cat” (Donald Fagen, 2003), “Playing The Angel” (Depeche Mode, 2005), “X&Y” (Coldplay, 2005), “Again” (John Legend, 2006), “Planet Earth” (Prince, 2007), “Chinese Democracy” (Guns N’ Roses, 2008) o “If On A Winter’s Night” (Sting, 2009)? Sono tutti album che all’epoca o qualche anno dopo sono andato effettivamente ad acquistare ma che adesso non sento praticamente più.

Eppure, come sempre, non mancano le eccezioni. E una di queste è un piacevole disco del 2006 che acquistai quasi distrattamente, una volta capitatomi tra le mani al prezzo ribassato di otto euro & novanta centesimi. Si tratta di “Givin’ It Up”, una collaborazione tra George Benson e Al Jarreau, ovvero due cantanti americani che ho sempre apprezzato. Si tratta d’un album atipico che inizia con Breezin’ (grande successo di Benson del 1976) e che prosegue con Mornin’ (grande successo di Jarreau del 1982). Ecco, a questo punto si potrebbe pensare che i due abbiano semplicemente riproposto alcuni tra i loro più celebri hit in forma di duetto, attualizzandone la veste musicale. E invece le cose cambiano già al terzo brano in programma, quando ci imbattiamo in una notevole cover di Tutu, forse il brano più popolare del Miles Davis anni Ottanta. Con la successiva God Bless The Child (altra cover di classe, di Billie Holiday in questo caso) troviamo al canto una terza voce, ovvero quella di Jill Scott, così come nella splendida Let It Rain troviamo quella di Patti Austin. E nella conclusiva Bring It On Home To Me (un classico di Sam Cooke) ci imbattiamo addirittura in un certo Paul McCartney, che canta così forte & chiaro da far sembrare lui il protagonista, piuttosto che l’ospite di lusso all’interno d’un duetto Benson-Jarreau.

Ma le sorprese non finiscono qui perché “Givin’ It Up” ci presenta una All I Am eseguita dal solo George Benson (che, non dimentichiamolo, resta sempre quel gran chitarrista di classe che è, e si sente anche qui) e una Ordinary People nel quale a duettare sono la chitarra di Benson e i vocalizzi di Jarreau, senza quindi l’esecuzione del testo originale della canzone di John Legend. Un album di reinterpretazioni e di rivisitazioni, insomma, questo “Givin’ It Up”, nel quale trovano anche spazio le famose Everytime You Go Away (anche se la versione che ne fece Paul Young nel 1985 resta forse la migliore di tutte) e Summer Breeze (forse questa è addirittura la più bella tra le tante altre cover). Su tutte metto comunque una versione di Four, altro classico di Miles Davis, reinterpretata da Benson & Jarreau con un’eleganza sopraffina che da sola mi ha ripagato dei soldi spesi per acquistare tutto l’album.

Un lavoro eclettico questo “Givin’ It Up”, gioioso e amabile, eseguito con una schiera di musicisti di prim’ordine quali i bassisti Marcus Miller e Stanley Clarke, il trombettista Chris Botti, il pianista Herbie Hancock, il batterista Vinnie Colaiuta, il chitarrista Dean Parks e altri ancora. Non so se possa definirsi un capolavoro, “Givin’ It Up”, ma rispetto a tanti altri strombazzatissimi dischi di quel decennio è uno dei pochi che ancora mi invoglia all’ascolto, sia con lo stereo quando sono a casa che con l’autoradio quando solo alla guida. E questo è, per quanto mi riguarda ormai, il miglior metro di paragone possibile per stabilire se un disco sia grande o meno. – Matteo Aceto

Seal, “Standars”, 2017

Seal Standards immagine pubblica blogAndare al negozio di dischi per comprare un certo titolo e invece sceglierne un altro, fresco fresco d’uscita, del quale non sapevo niente. E’ quel che mi è successo al principio del mese, quando mi sono inaspettatamente imbattuto in “Standards”, il nuovo album di Seal. Dato che mi sto appassionando sempre più alle canzoni del cosiddetto Great American Songbook (o Grande Canzoniere Americano, se non amate troppo gli inglesismi) e dato che lo stile di Seal m’è sempre piaciuto – sopratutto quando è alle prese con album di cover, vedi “Soul” (2008) e “Soul 2” (2011) – non ho proprio saputo resistere e così mi sono portato a casa la mia bella copia di “Standards”.

Come si evince dal titolo stesso, il nuovo album di Seal contiene una selezione di brani – undici per la precisione – che ormai sono considerati dei veri e propri standard della canzone, per l’appunto, brani che hanno fatto la gloria di artisti del calibro di Miles Davis, Ella Fitzgerald e Frank Sinatra, tanto per dirne alcuni, ed è proprio Sinatra l’interprete che in qualche modo è più rappresentato in “Standards”. L’album, fra l’altro, si apre e si chiude con due canzoni che The Voice aveva interpretato a suo tempo, ovvero Luck Be A Lady e It Was A Very Good Year: tanto spumeggiante & esuberante è la prima quanto malinconica & intimista è la seconda. In mezzo troviamo quindi la struggente Autumn Leaves, un’autentica poesia in musica (che in effetti è basata su Les Feuilles Mortes di Jacques Prevert); quel grande classico di Screamin’ Jay Hawkins chiamato I Put A Spell On You e interpretato anche, tra gli altri, da Nina Simone e Bryan Ferry; e ancora They Can’t Take That Away From Me, classicone tra i classici di George Gershwin; la Anyone Who Knows What Love Is resa celebre da Irma Thomas (un brano che, a pensarci bene, avrebbe impreziosito anche uno dei due album di Seal della serie “Soul”); quella Love For Sale di Cole Porter della quale non si contano più le cover, qui interpretata come una lussureggiante bossa nova; quell’altra My Funny Valentine di Rodgers & Hart, rifatta anch’essa da chissà quanti altri artisti (ne ricordo una cover di Sting ma anche una magnifica versione di Miles Davis del ’63); quell’altra gemma porteriana chiamata I’ve Got You Under My Skin (anch’essa ben presente nel repertorio di Sinatra); un originale di Duke Ellington chiamato I’m Beginning To See The Light e infine una versione di Smile, un brano la cui musica è opera niente meno che di Charlie Chaplin e che in passato è stato reinterpretato niente meno che da Michael Jackson.

E così tra swing, jazz, pop e nostalgia, “Standards”, decimo album da studio per Seal, si mostra subito come uno dei lavori meglio riusciti da parte del cantante inglese. Certo, così come nel caso di “Soul” e “Soul 2”, si potrebbe obiettare che molte delle canzoni contenute in “Standards” siano fin troppo fedeli alle versioni originali o quanto meno alle versioni più popolari interpretate in passato, tuttavia questa fedeltà mi sembra più che altro un punto a favore di Seal: il nostro non mostra soltanto di essere più che degno di questo repertorio, ma anche di averci saputo dare uno dei più belli e piacevoli dischi di cover mai realizzati.

Prodotto da Nick Patrick (un nome che sinceramente non conoscevo) e grandiosamente orchestrato e condotto da Chris Walden (qui alle prese con un ensemble di ben sessantacinque elementi), “Standards” mi è capitato tra le mani per puro caso, eppure è già diventato un ascolto frequente in casa mia e, di fatto, uno dei dischi più godibili che io abbia acquistato negli ultimi anni. Bravo Seal, sono sicuro che anche a quest’album, così come all’altrettanto godibile “Soul” del 2008, darai il suo bel seguito da qui a qualche anno. – Matteo Aceto

L’aspetto visuale della musica pop

michael-jackson-moonwalker-film-1988Sono decenni che sento parlare della visionarietà di gruppi e cantanti come Pink Floyd, Queen, Michael Jackson e Peter Gabriel, tanto per dirne qualcuno, eppure nessuna delle opere filmiche associate ai miei beniamini musicali mi ha mai veramente esaltato. Escludendo infatti una manciata di videoclip, magari girati pure da illustri registi cinematografici, solitamente l’aspetto visuale della musica pop non mi ha mai convinto del tutto. Quando ad esempio esce un nuovo album, e l’edizione deluxe include semplicemente un divuddì, state pur certi che io vado a comprarmi l’edizione standard dell’album in questione, lasciando il divuddì al tempo che trova.

Certo, oltre a uno strabiliante quantitativo di pezzi strafamosi in tutto il mondo, uno come Michael Jackson ci ha lasciato anche tutta una serie di videoclip che hanno a dir poco lasciato il segno: pensiamo soltanto a Thriller e Black Or White, girati entrambi da John Landis, rispettivamente nel 1983 e nel 1991. Eppure, quella volta che si è cimentato con il cinema vero e proprio, col film “Moonwalker”, non ci ha lasciato niente di veramente memorabile, per non dire di fondamentale per la comprensione dell’artista. Così come Prince, il quale si è cimentato per ben tre volte con l’opera filmica in quanto tale: i suoi “Purple Rain” (1984), “Under The Cherry Moon” (1986) e “Graffiti Bridge” (1990) sono tutto fuorché memorabili pellicole da guardare e riguardare per la gioia degli occhi.

E che dire dei miei amati Queen? C’è chi sostiene che quello girato per Bohemian Rhapsody nel 1975 sia il primo videoclip della storia (anche se, secondo me, i Beatles hanno preceduto tutti con Strawberry Fields Forever e Penny Lane, se non già con Paperback Writer e Rain dell’anno prima, il 1966), ma ad ogni modo non fa che animare la copertina di “Queen II”, un album uscito l’anno prima. Insomma, per quanto possa essere considerato innovativo per l’epoca, un video come Bohemian Rhapsody sembrava più guardare al passato che annunciare il futuro. E in effetti, i videoclip dei Queen che gli sono susseguiti negli anni non sono particolarmente memorabili o quantomeno espressivamente rilevanti.

Ci sono stati casi di commistione disco/film più interessanti nel caso di Who e Pink Floyd: entrambi questi storici gruppi inglesi hanno prodotto delle opere che possiamo definire multimediali, come nel caso di “Tommy” (1975, diretto da Ken Russell) e “Quadrophenia” (1979, diretto da Franc Roddam) per i primi e “The Wall” (1982) per i secondi. Vi dirò la mia: pur avendo ascoltato (e in un caso comprato) i due classici degli Who, non ho mai sentito l’esigenza d’andarmi a vedere i loro film (li considero dei tipici film generazionali, buoni cioè per quella generazione che li ha visti al cinema, all’epoca), mentre “The Wall” di Alan Parker è tutto fuorché una visione piacevole. Musica a parte, è uno di quei film che puoi vedere una volta, anche due o tre, ma poi basta così, grazie.

Nel corso degli anni Ottanta, quando il videoclip iniziò a farsi inevitabilmente più spettacolare (anche e soprattutto per il fenomeno Jackson), molti musicisti provarono a dare uno sfogo più compiuto alla loro visionarietà. Ne ricordo alcuni tra quelli che ho visto o meno, da Matt Johnson, alias The The, che mise assieme i videoclip girati per ognuno dei brani dell’album “Infected” (1986), presentando il tutto come un mini film da un’ora di durata, a David Byrne che con “True Stories” (1986) realizzò un vero e proprio film, passando per “Hell W10” (1983) dei Clash e “JerUSAlem” (1987) degli Style Council, tanto sconosciuti al grande pubblico quanto ambìti dai cacciatori di rarità.

Sorvolando sui trascorsi cinematografici di MadonnaDavid Bowie e Sting (i quali hanno però preso parte a pellicole cinematografiche “pure”, per così dire, film realizzati a prescindere dai loro dischi e non necessariamente di tipo musicale), passo infine a Beyoncé, che dal 2013 ha iniziato a distribuire i suoi album sotto forma di veri e propri dischi audio/video, dove all’immagine è riservata la stessa importanza data alla musica. Tuttavia, per quanto io trovi mooooolto fisicamente attraente la bella Beyoncé, non ho finora sentito l’esigenza di procurarmi queste che, tutto sommato, dovrebbero essere pure delle prove creative degne di nota. Insomma, mi accontento di ammirare la sua avvenenza in quelle rare occasioni in cui sintonizzo la mia tivù su quale canale musicale.

E questo, per quanto mi riguarda, vale un po’ per tutti i nomi che ho citato e per quelli che, pur avendo visto, ho al momento dimenticato. Il mondo del pop, in definitiva, quando ha lasciato lo studio d’incisione per entrare in un set cinematografico non mi ha mai veramente colpito. Non so se resta soltanto una mia impressione. – Matteo Aceto

Gusti musicali geograficamente parlando

ivan-graziani-rock-e-ballate-per-quattro-stagioniPer molti anni, diciamo pure tra il 1988 e il 2008, ho comprato e quindi ascoltato prevalentemente musica inglese. Gruppi da me amatissimi come Beatles, Queen, Police, Pink Floyd, Genesis, Bee Gees, Clash, Depeche Mode e Cure in primis (con tutti i relativi solisti del caso, come ad esempio Paul McCartney, Sting, Phil Collins, eccetera), ma anche Bauhaus, Japan, Cult, New Order (e quindi Joy Division), Tears For Fears, Pet Shop Boys, Smiths, Verve e tutti o quasi i relativi solisti (Peter Murphy, David Sylvian, Richard Achcroft e via dicendo). Per noi parlare poi di David Bowie. Discorsetto bello lungo, insomma.

Tra il 2007 e il 2008, invece, sono stato colto dalla febbre per Miles Davis, statunitense. E quindi via con tutti i suoi dischi (o meglio, con tutti i suoi cofanetti deluxe della Sony), ai quali, di lì a poco, si sono aggiungi nella mia collezione tutti i dischi di John Coltrane, altro illustre statunitense. Allargando un po’ i miei confini, ho iniziato a comprare dischi jazz di musicisti e band d’America, come ad esempio i Weather Report, Wayne Shorter, Herbie Hancock, Chick Corea, tutti nomi che sono andati ad aggiungersi ai vari Michael Jackson, Prince e Stevie Wonder che già avevo in vinili, ciddì e cassette.

E se la black music afroamericana in fondo in fondo m’è sempre piaciuta, in anni più recenti ho avuto modo di apprezzare sempre di più i dischi di Isaac Hayes e soprattutto di Marvin Gaye. Tutta roba americana, ovviamente. Ai quali si sono aggiunti presto i dischi di Simon & Garfunkel (li ho comprati tutti!), del solo Paul Simon (ne ho comprati quattro o cinque), di Bruce Springsteen e soprattutto di Bob Dylan.

Insomma, se la Gran Bretagna la faceva da padrona per quanto riguarda la provenienza artistica dei dischi presenti in casa mia, credo proprio che ormai la fetta sia equamente divisa tra Stati Uniti e Gran Bretagna, e forse i primi sono anche in leggero vantaggio. In questa sorta di duopolio ho però registrato un curioso fatto privato: non so perché e non so per come, ma una mattina mi sono svegliato con la voglia di ascoltarmi i dischi di Lucio Battisti! Dopo qualche acquisto casuale, tanto per scoprire l’artista, ho deciso di fare il grande passo: acquistare l’opera omnia contenente TUTTI  i suoi dischi. L’anno scorso, spinto dalla curiosità, sono invece andato a comprarmi a scatola chiusa un cofanetto da tre ciddì + divuddì di Lucio Dalla, chiamato per l’appunto “Trilogia”. Io che ascolto e che soprattutto compro Lucio Dalla?! Un paio d’anni prima non l’avrei mai detto ed ora eccomi qui, a canticchiare Come è profondo il mare o L’anno che verrà oppure ancora Come sarà con tanto di Francesco De Gregori a dividere il microfono.

De Gregori che pure ha iniziato a incuriosirmi, nonostante un’antipatia per il personaggio che nutro da sempre. Ieri pomeriggio, e qui sto svelando un aspetto davvero inquietante della mia vita privata, avevo preso una copia di “Rimmel” e mi stavo già dirigendo alla cassa. Ho quindi adocchiato una raccolta tripla, fresca d’uscita, di Ivan Graziani e chiamata “Rock e Ballate per Quattro Stagioni“, edita dalla Sony in occasione del ventennale della morte del compianto cantante e chitarrista (nella foto sopra). Ebbene, ho preso una copia di quest’ultima con buona pace del classico di De Gregori.

E così, in conclusione, se una volta i miei ascolti erano concentrati quasi unicamente sulla Gran Bretagna, da un po’ di tempo sono felicemente passato all’America. E ciò nonostante rivolgo più d’un pensiero all’Italia, chissà perché. Ho iniziato anche ad apprezzare e comprare Vasco Rossi. Si attendono ora clamorosi sviluppi. – Matteo Aceto

Freddie Mercury, 25 anni dopo: un personale ricordo

freddie-mercury-25-anni-dopo-immagine-pubblicaSono passati 25 anni esatti da quel triste giorno di novembre che ci ha portato via Freddie Mercuy e stiamo ancora qui a parlarne, a rimpiangerlo, a rabbrividire per la sua voce che esce potente dalle casse dello stereo. In effetti è proprio andata così: dopo un quarto di secolo dalla morte dell’artista, la sua musica è più rilevante che mai, la sua figura nell’immaginario collettivo è sullo stesso piano dei Beatles, di Michael Jackson, di Elvis Presley e di pochi altri – veri – miti della cosiddetta musica popolare.

Ci sarebbero molti modi, almeno per me, di ricordare quello che da 25 anni a questa parte è uno dei miei beniamini preferiti; nelle varie incarnazioni di questo modesto blog ho infatti scritto spesso & volentieri di Freddie Mercury, non solo recensioni sui suoi dischi da solo o con i Queen (parte delle quali ho riproposto negli ultimi mesi, spesso riscritta e aggiornata, vedi QUI e QUI, per esempio), ma anche post di tipo biografico. Ieri, ad esempio, in vista dell’anniversario di oggi, ho “ritrovato” un mio post pubblicato sul blog Parliamo di Musica il 5 settembre 2006, quando cadeva l’anniversario dei 60 anni della nascita di Farouk Bulsara, al secolo Freddie Mercury.

Ecco, avrei potuto ripubblicare oggi quella biografia con i dovuti aggiornamenti e considerazioni del caso, tuttavia ho pensato che fosse solo un esercizio fine a se stesso. Una biografia di Freddie Mercury, infatti, oggi potete trovarla un po’ dappertutto, oggi chiunque abbia la possibilità di scrivere di spettacolo e/o di cultura non mancherà di scrivere anche due sole righe sul venticinquennale della tragica morte del nostro. Anche la sua biografia su Wikipedia, alla quale credo di aver collaborato io stesso, tanti anni fa, è ben fatta e assolutamente degna di nota per chiunque voglia saperne di più su questo autentico mito contemporaneo che è diventato “il cantante dei Queen”. Se fate un salto in libreria, per dire, troverete tanti altri libri (più o meno interessanti, se volete ve ne consiglio io qualcuno) sulla vicenda artistica e umana di Freddie, forse più di quanti ne troverete dedicati ai Fab Four e a Michael.

E allora perché un altro post, perché anche Immagine Pubblica dovrebbe aggiungere qualcosa? Da un lato, infatti, non dovrei scrivere proprio niente, perché niente avrei da aggiungere a quanto ho scritto e/o detto su Freddie Mercury da 25 anni a questa parte, dall’altro tuttavia sento che non posso proprio far finta di niente. Scriverò allora qualche aneddoto personale, qualcosa che finora non ho mai scritto e che appartiene solo a me, perché sono le mie memorie su quegli ormai lontani eventi del 1991. Non dovrete necessariamente seguirmi (e comunque ringrazio chi lo farà), il mio è solo un piccolo omaggio a un grande personaggio. Ecco, fa pure rima.

Primavera 1991: una coppia di miei zii, di ritorno dal Brasile, ha riportato, tra i vari ciddì che aveva acquistato lì, una copia di “Innuendo”, l’album dei Queen fresco d’uscita. Io, che all’epoca avevo appena tredici anni, conoscevo già il nome del gruppo inglese: in quegli anni, la loro We Are The Champions faceva da trionfante sottofondo alla pubblicità della Lancia che celebrava i trionfali titoli mondiali rally vinti con la mitica (anch’essa…) HF Integrale. Un album dei Queen, però, non lo avevo mai avuto fra le mani, e quella copia di “Innuendo” era la prima che vidi in casa di qualcuno della mia famiglia (dove invece giravano spesso & volentieri copie dei dischi dei Pink Floyd, sia in vinile che in ciddì e cassetta). Sentendolo a casa dei miei zii, capii che “Innuendo” era un gran disco, pieno di canzoni belle & potenti, che a me mettevano la pelle d’oca.

Autunno 1991: sono davanti alla televisione, dopo aver finito i compiti per il giorno dopo, e la pubblicità trasmette con una certa frequenza lo spot di una nuova uscita discografica (sì, oggi sembra strano, ma all’epoca e almeno fino al 1996-97, le nuove uscite discografiche erano massicciamente pubblicizzate in tivù). Si trattava di “Greatest Hits II”, una raccolta che racchiudeva tutti i più grandi successi dei Queen degli ultimi dieci anni, e lo spot dai canonici trenta secondi di durata mi aveva fatto sentire frammenti di canzoni che conoscevo ma che non sapevo a chi attribuire, brani come Radio Ga-Ga e Under Pressure, la cui “pressure!” finale scandiva il termine esatto dello spot, con Freddie che faceva l’occhiolino alla telecamera. Ecco quello che voglio, mi sono detto, una bella cassetta di “Greatest Hits II” di questi Queen, che finalmente voglio sentire come si deve! A quel tempo avevo già un greatest hits in cassetta, quello dei Beatles, che avevo praticamente consumato; ebbene, quello dei Queen sarebbe stato il prossimo. Qualche settimana dopo, tornando da scuola e guardando il telegiornale mentre pranzavo, il Tg1 (o il Tg2, non ricordo bene, era comunque un tigì della Rai) dà una notizia: è morto Freddie Mercury, il trasgressivo cantante dei Queen, omosessuale, morto di AIDS a soli 45 anni dopo una vita piena di eccessi. Tra le immagini che scorrono alla tele, vedo un cantante sul palco con baffi neri, parrucca e tette finte. Il tutto, insomma, veniva rappresentato come una sorta di mostro. A tredici anni d’età ormai compiuti, una rappresentazione del genere mediata da mamma Rai aveva raffreddato abbastanza i miei entusiasmi verso la musica dei Queen. Insomma, non avevo più alcuna necessità di fare quello che stavo facendo, mettere da parte i soldi per comprarmi quella musicassetta.

Primavera 1992: gita scolastica, l’ultima che faccio con i compagni delle medie, prima di affrontare a settembre un primo anno di superiori, a Chieti, che francamente non vedevo l’ora di cominciare. Non ricordo molto di quella gita scolastica, ricordo solo che in sottofondo, sull’autobus, girava insistentemente la cassetta di “Greatest Hits II” dei Queen. Vabbene, quel tale, quel Freddie Mercury avrà anche condotto una vita spericolata, ma a me le sue canzoni piacciono da impazzire. Poco tempo dopo faccio la cresima, il mio regalo è – finalmente! – il mio primo stero. Il primo ciddì della mia vita che vado ad acquistare – accompagnato da mia madre, in un negozio di Chieti Scalo chiamato Happy Music – è “Greatest Hits II” dei Queen, per la non modicissima cifra di trentaduemila lire. In più prendiamo anche una copia in vinile di “Benvenuti In Paradiso”, l’album più recente di Antonello Venditti. Ma questa è già un’altra storia. – Matteo Aceto

Prince, “4ever”, 2016

prince-4everChe Prince non sia più di questo mondo mi fa ancora impressione. Che nella compilation postuma che la Warner Bros si appresta a pubblicare, chiamata “4ever” con tipico stile princiano, ci sia scritto “Prince Rogers Nelson 1958-2016” è un qualcosa che trovo ancora un tantino sconvolgente.

Mi ci sono voluti anni per metabolizzare il lutto di Michael Jackson, figuriamoci per quanto ne avrò con David Bowie, Glenn Frey e lo stesso Prince, tutti venuti a mancare in questo a dir poco inquietante 2016. Ma tant’è… è la vita, bellezza, e ne facciamo tutti parte.

In quaranta brani, dal disco-funk di Soft And Wet (1978) al rock di Peach (1993), la nuova antologia “4ever” dedicata a Prince presenta una cavalcata trionfale di successi e momenti memorabili di quello che – ormai pacificamente – possiamo definire l’epoca d’oro di Prince come artista di fama internazionale. Gli anni della Warner Bros, per l’appunto, che proprio nel 1993 volsero polemicamente al termine con Prince che preferì addirittura cambiare nome pur di svincolarsi da quello che riteneva un contratto capestro, stipulato quando aveva a mala pena vent’anni d’età.

Dopo la Warner, Prince non ha certamente smesso di far pubblicare i suoi dischi, appoggiandosi per la distribuzione a un po’ tutte le altre etichette controllate dalle major del disco, dalla EMI alla Sony, passando per la Arista e addirittura la Motown (entrambe sotto l’egida Universal), con risultati artistici quasi mai all’altezza delle aspettative ma pur sempre degni d’attenzione, finché non ha trovato un nuovo accordo con mamma Warner, ridefinito nel corso del 2014.

Ed è proprio per effetto di tale accordo che oggi stiamo qui a parlare di questa nuova raccolta, “4ever” (che comunque un pezzo inedito lo contiene, Moonbeam Levels, inciso nel 1982 a quanto pare), e dei classici album di Prince di nuovo in LP. Insomma, si potrebbe facilmente accusare la Warner di sciacallaggio, come in effetti alcuni non hanno mancato di fare, ma tutto ciò che sta uscendo in questo 2016 e che uscirà almeno fino a tutto il 2017 è frutto del trattato di pace Prince-WB stipulato due anni fa.

Non credo che andrò a comprarmi “4ever” – a parte il brano inedito, del quale confesso di non saperne un bel nulla, gli altri diciannove brani li ho già nelle precedenti antologie e negli album di quel periodo – a meno che non si presenti con una grafica particolare o sotto forma di “lussuoso” cofanetto. Sono tuttavia interessato all’annunciata riedizione di “Purple Rain” del 2017, finalmente ufficializzata, anche se non se ne conosce ancora il contenuto, né il mese esatto di pubblicazione. Avremo certamente modo di tornare sull’argomento. Anche perché il sospetto ormai è fondato: Prince acquisirà sempre più importanza col passare degli anni. Non sarà facile dimenticalo, anzi… ci mancherà enormemente. – Matteo Aceto

Michael Jackson & Freddie Mercury: una storia

michael-jackson-con-freddie-mercuryC’è un capitolo molto affascinante della storia dei Queen che riguarda l’amicizia tra la band inglese e Michael Jackson, nata al principio degli anni Ottanta da una reciproca stima.

Ho letto/ascoltato almeno due interviste – una di Freddie Mercury e una, ben più recente, di Brian May – nelle quali i due componenti dei Queen rievocavano quel periodo, anche se non ho mai letto/ascoltato un’omologa intervista a Michael Jackson. Ad ogni modo, in quella prima metà degli anni Ottanta, Freddie ebbe modo di parlare della sua frequentazione del Re del Pop, una frequentazione che si interruppe qualche anno dopo la pubblicazione del celeberrimo “Thriller” (1982), quando cioè Michael Jackson prese definitivamente il volo grazie a quel fenomeno planetario che tuttora resta l’album più venduto di sempre.

A quanto pare, Michael Jackson si interessò alla musica dei Queen e alla potenza dei loro concerti proprio nel 1980, l’anno in cui un album dei Queen – “The Game” – raggiungeva per la prima volta la vetta della classifica statunitense. Fu lui a consigliare alla band di far pubblicare su singolo quel pezzo-bomba che effettivamente si è rivelato Another One Bites The Dust. Michael, in sostanza, si stava interessando alle sonorità rock (vedi Beat It su “Thriller”) mentre i Queen si stavano interessando a quelle funk (vedi la già citata Another One Bites The Dust, ovviamente). E data la reciproca ammirazione, le due strade non potevano che confluire.

Il seguito di “The Game”, quel disco che i Queen hanno intitolato “Hot Space” (1982), sembra in effetti anticipare certe sonorità di “Thriller” (uscito sul finire di quello stesso 1982), sebbene all’epoca sia stato considerato un flop, mentre tutt’altra gloria (e più che meritata) è toccata a “Thriller”. A quello stesso “Thriller”, addirittura, avrebbe dovuto partecipare pure Freddie Mercury, il quale se ne rammaricò in seguito scherzando sul fatto di aver perso così un sacco di soldi.

Sfumata la collaborazione su “Thriller”, almeno un incontro di lavoro tra Michael Jackson e Freddie Mercury avvenne già nell’estate del 1983. E’ un resoconto abbastanza dettagliato che ci ha fornito Peter Freestone, assistente di lunga data di Freddie, narrato nel suo libro di memorie relativo proprio a quella sua esperienza più che decennale al fianco del cantante dei Queen. Siamo a Los Angeles, quando tutti e quattro i membri della band inglese si erano temporaneamente trasferiti nella metropoli californiana per iniziare le sedute dell’album “The Works” (1984). Freestone accompagna il solo Mercury fino ad Encino, la tenuta dove Jackson viveva allora, con tanto di studio di registrazione annesso. Qui sono presenti i soli Michael e Freddie, più un tecnico dello studio e quindi lo stesso Peter: è proprio quest’ultimo a sbattere la porta del bagno adiacente allo studio in un brano chiamato Victory, giacché Michael non è soddisfatto degli effetti prodotti dalla drum-machine.

I due cantanti lavorano anche a State Of Shock e a There Must Be More To Life Than This, per un intero pomeriggio di registrazioni durato quasi sei ore. I due, stando sempre a quanto riferito dall’assistente di Mercury, sembrano anche prendersi le misure artisticamente, cercando evidentemente di imparare il più possibile l’uno dall’altro. Purtroppo, a causa degli impegni di Freddie coi Queen (c’era un nuovo album da fare, al quale sarebbe seguito l’inevitabile tour mondiale), i nostri due protagonisti non ebbero più l’occasione di tornare su quei tre brani incisi a casa Jackson in quel pomeriggio d’estate. Tre preziosi brani inediti che offrono a loro volta tre interessanti storie parallele. Vediamole una alla volta.

Victory: il più misterioso dei pezzi nati dalla collaborazione Jackson-Mercury, dato che finora non è mai stato ascoltato, nemmeno attraverso i canali piratati. Secondo Peter Freestone, il brano è dovuto all’ispirazione di Michael, sebbene alcune fonti sostengono che sia stato inizialmente concepito come un pezzo dei Queen. E’ pur vero che, nel 1984, Michael e i suoi cinque fratelli hanno fatto uscire sotto il nome collettivo di The Jacksons un album chiamato “Victory”, ma è altrettanto vero che in quel disco non c’è traccia d’un brano chiamato così.

State Of Shock: nell’album “Victory” c’è però quest’altra collaborazione Jackson-Mercury, sebbene la parte vocale di Freddie venga sostituita da quella di Mick Jagger. Scritta da Michael Jackson col chitarrista Randy Hansen, State Of Shock è stata quindi provinata con Freddie Mercury in quel fatidico giorno d’estate 1983, ri-registrata con Mick Jagger, inclusa in un album intitolato ai Jacksons come gruppo, e infine eseguita dal vivo allo storico Live Aid del 1985 da Mick Jagger con… Tina Turner! Insomma, ma di chi è questa State Of Shock?!

There Must Be More To Life Than This: come abbiamo già detto QUI, questo brano scritto da Freddie Mercury è nato durante le sedute di registrazione dei Queen per l’album “Hot Space”; scartato dall’album, è stato evidentemente offerto dal suo autore a Michael Jackson in quell’ormai famoso incontro ad Encino, dove per l’appunto Freddie accompagna al piano Michael che canta da solo. Arenatasi così la collaborazione, Freddie ha infine recuperato il brano per il suo primo album da solista, “Mr. Bad Guy” (1985).

Nel 2014, all’interno della compilation intitolata “Queen Forever”, è finalmente stata ufficializzata una prima (e finora unica) collaborazione Mercury-Jackson: si tratta dell’ormai ben nota There Must Be More To Life Than This, sebbene si tratti d’un montaggio eseguito dall’ottimo William Orbit. La voce di Freddie datata 1985 duetta infatti con la voce di Michael datata 1983 (in una performance comunque informale, si tratta di un demo o provino che dir si voglia), mentre in “sottofondo” i Queen al gran completo suonano l’iniziale versione del 1981-82 opportunamente rimaneggiata per l’occasione. Insomma, quel brano registrato a casa Jackson nell’83 così com’era (Michael alla voce e Freddie al piano) resta tuttora ufficialmente inedito, così come quel primo duetto su State Of Shock e la fantomatica Victory (l’unica delle tre che, tanto per dirne una, non sia mai apparsa su Youtube o altrove tra i canali del file-sharing).

Questi i fatti. Ora vi dico la mia. Il brano Victory potrebbe non esistere, forse perché è poi diventato qualcos’altro, magari un pezzo di Jackson o dei Queen che conosciamo molto bene; altre fonti hanno inoltre parlato di due (2 di numero) canzoni incise da Michael Jackson con Freddie Mercury, e lo stesso Brian May ha più volte parlato di “a couple of tracks”. E a distanza di tanto tempo, e nonostante l’interesse commerciale che un pezzo Jackson-Mercury potrebbe suscitare a prescindere dal suo reale valore artistico, abbiamo effettivamente avuto la possibilità di ascoltare soltanto State Of Shock e There Must Be More To Life Than This. Di quest’ultima le versioni ormai si sprecano, spesso fatte dagli stessi fan montando con software audio le tracce vocali di Freddie e Michael che – ricordiamolo – sono state messe su nastro in due momenti diversi. L’originale, per così per dire, figura il solo Jackson alla voce, accompagnato quindi da Mercury al piano. O almeno questo è ciò che si sente da quel nastro che contiene anche State Of Shock, la quale è già molto vicina alla versione che poi comparirà sull’album “Victory” in compagnia di Mick Jagger. Si ha la sensazione, ascoltando State Of Shock, che all’inizio Michael resti un po’ sopraffatto dall’esuberanza di Freddie, e soprattutto dalla sua voce, ma che nel finale torni ad assumere il controllo, tanto che Freddie si unisce a lui all’esortazione di “everybody sing with me!”.

Impegni di Mercury con i Queen o meno, necessità dei fratelli Jackson di far uscire “Victory” in quel preciso momento piuttosto che in un altro, la mia impressione resta che Michael Jackson abbia ritenuto Freddie Mercury un partner fin troppo sopra le righe, tanto che un tipo come Mick Jagger deve essergli apparso più docile. Si è anche detto che l’amicizia tra Michael e Freddie sia stata compromessa dal fatto che il primo disapprovava l’uso di cocaina da parte del secondo. E poi, infine, come non pochi hanno speculato con malizia, i due potrebbero aver avuto una relazione sentimentale, oltre che professionale, finita la quale è anche finita la possibilità di cantare insieme. Da quel che mi risulta, nei primissimi anni Novanta, né Freddie e né Michael hanno mai rievocato pubblicamente la loro amicizia, né si conoscono i reali sentimenti provati da Michael all’annuncio della morte di Freddie, in quello straziante 24 novembre 1991.

Purtroppo, come tutti sappiamo, anche Michael Jackson non è più di questo mondo, perciò se c’è stato qualche segreto che avrebbe potuto rivelarci su Freddie Mercury, beh quel segreto è morto con lui in quel maledetto 25 giugno 2009. A noi fan, orfani di questi due autentici giganti della canzone del Novecento, non resta che affidarci al gossip, alle rivelazioni che verranno (se verranno) e soprattutto a quelle registrazioni effettuate tra i due negli anni Ottanta. Una volta che le rispettive eredità avranno trovato accordi commercialmente soddisfacenti per tutte le parti in causa. – Matteo Aceto

Le (poche) canzoni inedite dei Queen

queen-canzoni-inediteDiversamente dalle canzoni (ancora) inedite dei Beatles, quelle relative ai Queen sono per lo più delle versioni inedite – a volte anche radicalmente diverse – di brani già noti. Maniaci del perfezionismo in studio, spesso i Queen lavoravano con grande intensità ad uno stesso pezzo per parecchi mesi, se non addirittura per anni, producendo quindi una serie di canzoni che, seppur accomunate dallo stesso titolo, presentavano in pratica delle notevoli differenze, frutto di ripensamenti e migliorie successivi.

Faccio un primo esempio, tanto per capirci: sull’album “Mr. Bad Guy” di Freddie Mercury, pubblicato nel 1985, compare per la prima volta una canzone intitolata There Must Be More To Life Than This. Ebbene una prima versione era stata incisa dai Queen al gran completo durante le sedute per l’album “Hot Space” (1982), mentre successivamente Mercury la provò in studio niente meno che con Michael Jackson. Ora, è vero che una There Must Be More To Life Than This tra i Queen e Jackson è stata finalmente pubblicata nel 2014 sulla raccolta “Queen Forever” ma sta di fatto che quella collaborazione è un montaggio recente tra le varie registrazioni esistenti, frutto della collaborazione tra William Orbit, Brian May, Roger Taylor e gli eredi di Michael Jackson. Restano tuttora inedite la There Must Be More To Life Than This incisa dai soli Queen nel 1982 e la There Must Be More To Life Than This incisa in duetto tra Freddie e Michael qualche tempo dopo.

Stiamo quindi parlando di una stessa canzone ma conosciuta come minimo in tre versioni alquanto diverse fra di loro; come si sarà notato, inoltre, diventa piuttosto labile il confine tra cosa può essere definita “canzone dei Queen” e cosa può invece intendersi come “canzone solista” (di Freddie Mercury, in questo caso). Esistono numerosi altri esempi in merito. Vediamo di fare un po’ di chiarezza in un territorio alquanto difficile ma davvero molto affascinante.

Il 1981 è l’anno della famosa collaborazione dei Queen con David Bowie per Under Pressure. A quanto pare, tuttavia, quel celeberrimo hit d’alta classifica non è il solo frutto della collaborazione: a parte infatti una versione di Cool Cat contenente una specie di rap da parte di Bowie (brano tuttora inedito ma piuttosto noto – e già da molti anni – nel circuito delle registrazioni clandestine), esistono almeno altri tre brani – chiamati rispettivamente Ali, It’s Alright e Knowledge – eseguiti dai cinque o da configurazioni diverse tra i cinque. Senza poi contare, infine, che la stessa Under Pressure prese avvio da un pezzo inciso dai soli Queen, un pezzo chiamato Feel Like e tuttora inedito. Ecco quindi che abbiamo già due Cool Cat (quella inserita sull’album “Hot Space” e quella inedita con David Bowie) e due Under Pressure (quella, popolarissima, pubblicata su singolo nel novembre ’81 e una precedente versione a quattro chiamata Feel Like).

Non si creda, tuttavia, che questa pratica sia stata applicata dai Queen soltanto in quei primi anni Ottanta: non solo è continuata almeno finché Freddie era in vita (come sappiamo, il celeberrimo cantante morì prematuramente il 24 novembre 1991) ma risale addirittura agli albori della storia dei Queen, quando ancora la band si chiamava Smile ed era un trio composto dai già citati May e Taylor col cantante/bassista Tim Staffel. Esistono infatti alcuni pezzi, più o meno inediti, come Doing All Right e Polar Bear registrati da entrambe le incarnazioni del gruppo, senza poi contare l’inedita Silver Salmon che, seppur sia stata scritta a quanto pare dal solo Tim Staffel, è stata registrata dai Queen con già nei ranghi il bassista John Deacon.

Anche un brano del 1974, accreditato tanto nell’esecuzione quanto nella scrittura ai quattro Queen, pare che in realtà sia stato concepito (ma non si sa se sia stato anche effettivamente registrato) ai tempi dei Wreckage, la formazione pre-Queen di Freddie Mercury. Stiamo parlando di Stone Cold Crazy, sorta di proto speed-metal inserito nell’album “Sheer Heart Attack” e ripreso negli anni Ottanta anche dai Metallica.

A quegli albori dell’epopea dei Queen, tra le nebbie degli Smile e dei Wreckage, può anche essere fatta risalire la fantomatica Hangman, suonata occasionalmente dal vivo fino a una buona prima metà degli anni Settanta ma mai apparsa in una effettiva versione da studio.

Torniamo così agli anni Ottanta: nel 1984 esce su singolo la famosa Love Kills, un brano disco accreditato al solo Freddie Mercury ma scritto e prodotto con il “nostro” Giorgio Moroder. Ebbene, non soltanto in Love Kills sono presenti gli altri membri dei Queen (è in forse Deacon a dire la verità, ma May e Taylor ci sono di sicuro) ma in anni recenti abbiamo saputo che esiste una versione ballad-rock di Love Kills eseguita dai Queen in quanto tali, e senza la partecipazione del buon Moroder. Anche questa versione è stata inclusa in “Queen Forever” ma anch’essa è un montaggio a posteriori, tra la versione strumentale della band, la voce di Mercury sul pezzo con Moroder e nuove parti sovraincise per l’occasione. Insomma, se esiste davvero una Love Kills messa su nastro dai soli Queen tra il 1983 e il 1984, essa è tuttora inedita.

Così come restato inedite quelle registrazioni di Let Me Live, Made In Heaven e Man Made Paradise effettuate circa nello stesso periodo: la prima, una collaborazione con Rod Stewart, compare notevolmente rimaneggiata sull’album “Made In Heaven” (il primo disco dei Queen post-Mercury, edito nel 1995), così come la stessa Made In Heaven, mentre una Man Made Paradise è apparsa per la prima volta nel 1985, sul già citato album solista “Mr. Bad Guy”. Un po’ di caos, vero? Beh, l’ho detto, qui il confine tra opera solistica e opera di gruppo è davvero labile. Facciamo un altro po’ di confusione?

Eccola servita: nel corso del 1984, Freddie incide come solista un brano – Love Makin’ Love – che non figurerà su “Mr. Bad Guy” ma che venne ripreso dai Queen per l’album “A Kind Of Magic“, le cui sedute d’incisione iniziarono l’anno seguente. Ora, se la Love Makin’ Love solistica fece la sua prima comparsa sul monumentale cofanetto monografico dedicato a Freddie Mercury del 2000, la versione dei Queen resta tuttora inedita. Stesso discorso potrebbe farsi per Heaven For Everyone, un pezzo di Roger Taylor provinato dai Queen durante le sedute del già citato “A Kind Of Magic” ma quindi inciso per un progetto solistico di Taylor del 1987… con tanto di voce originale di Mercury! Il tutto, infine, è stato rimaneggiato abilmente e pubblicato con grande successo nel 1995 su “Made In Heaven”. Restano inedite quelle registrazioni originali, pure, per così dire, di Heaven For Everyone di metà anni Ottanta.

Potremmo continuare così con molti altri esempi, virtualmente per ogni canzone dei Queen a noi conosciuta. Concludiamo però il discorso con quelle che effettivamente SONO delle canzoni inedite dei QueenDog With A Bone (un pezzo funky cantato in duetto tra Roger e Freddie), My Secret Fantasy (altro ibrido rock-funk, col testo appena accennato), Face It Alone (una dolente ballata rock, anch’essa più accennata che effettivamente eseguita) e Self Made Man (un pezzo piuttosto grintoso, cantato da Freddie con Brian). Sono tutte relative agli anni 1988-90, quando la band incise senza apparente soluzione di continuità le canzoni per gli album “The Miracle” (1989) e “Innuendo” (1991).

Diverse altre canzoni d’archivio erano già state pubblicate nel 2011, in occasione del quarantennale dei Queen, quando ogni album del gruppo è stato riproposto in edizione limitata con tanto di ciddì bonus contenente appunto materiale raro o effettivamente inedito. Per il resto, non dovrebbero essercene rimaste così tante nei “dossier segreti” dei Queen di canzoni realmente inedite, come hanno anche avuto modo di raccontare alcuni tra i loro più stretti collaboratori. Tuttavia, il 23 marzo 2017, la pagina facebook ufficiale dei Queen ha rivelato il titolo di una canzone risalente alle sedute di “Hot Space”: All This Is Love. Versione alternativa di una canzone altrimenti già nota o vero e proprio inedito? Speriamo di poterne sapere presto qualcosa in più [ultimo aggiornamento 31 marzo 2017]. – Matteo Aceto