Negli ultimi anni ho tentato diverse volte di scrivere un post decente su uno dei progetti discografici che più mi hanno entusiasmato e colpito, ovvero “Smile” dei Beach Boys, senza tuttavia giungere a qualcosa che io potessi giudicare meritevole di essere pubblicato su questo pur modesto blog dagli esigui lettori.
Il mio caso, iniziato con QUESTO post originariamente scritto nel 2007 e poi con QUESTO, si è aggravato nel giugno 2012, quando in occasione del mio compleanno mi sono auto-regalato il monumentale cofanetto da nove dischi dedicato appunto a “The Smile Sessions” dei Beach Boys, dopo che nel novembre precedente, praticamente il giorno dell’uscita, era andato a comprarmi il relativo doppio ciddì. Quest’ultimo, per intenderci, è la versione ridotta del cofanettone da nove dischi: dopo appena sette mesi, insomma, ne volevo decisamente di più.
Soltanto che, ai fini della scrittura d’un post decente come lamentavo sopra, mi sono perso tra tutto il materiale che Brian Wilson, i Beach Boys e la Capitol mi hanno messo a disposizione così corposamente. Un intero ciddì del cofanettone, per capirci, è dedicato alla creazione d’una sola canzone, la celebre Good Vibrations, forse il più grande hit dei Beach Boys: quella che apparentemente è un’innocua canzonetta, infatti, è stata incisa nel corso di diversi mesi, dopo ore e ore di registrazioni. In quel ciddì da quasi ottanta minuti possiamo infatti ascoltare un’incredibile sintesi dell’evoluzione di Good Vibrations, brano che peraltro era stato originariamente concepito durante le sedute di “Pet Sounds“, sedute che in parte mi ritrovo in un altro magnifico cofanetto dei Beach Boys, “The Pet Sound Sessions” per l’appunto. Mi sono perso, ecco.
Ma del resto ci si perse lo stesso Brian Wilson. Infatti, concettualizzando un album dei Beach Boys le cui canzoni potessero essere registrate in maniera modulare, aggiungendo pezzettini su pezzettini con un taglia & incolla dei nastri necessariamente fatto a mano per quei tempi, il geniale leader della band americana uscì letteralmente di senno, in quel lontano 1967, mentre l’album in questione – ottimisticamente chiamato “Smile” – non vide mai la luce, restando per anni uno dei più famosi progetti discografici irrealizzati di sempre. Il tutto fino al 2011, quindi, quando un Brian Wilson ritornato trionfalmente sulle scene già dalla fine degli anni Ottanta, ha finalmente autorizzato la pubblicazione ufficiale del materiale inciso in quegli anni, 1966-67, per lui tanto fecondi creativamente quanto confusi strategicamente. Tensioni interne alla band, pressioni dei discografici e consumo delle inevitabili droghe hanno poi fatto il resto.
Tutto il mondo di “Smile” racchiuso in nove dischi (tra vinili e compact disc) in un bel box uscito come “The Smile Sessions” nel novembre del 2011 è un oggetto d’arte contemporanea che io ho comprato ormai da molti anni, apprezzato fin da subito e ascoltato sempre con grande intesse, senza tuttavia essere capace di tradurre l’esperienza in un post leggibile. Mi piace pensare che, forse forse, non ci riuscirebbe nemmeno Mike Love. – Matteo Aceto