Ringo Starr, “Ringo”, 1973

ringo-starr-ringo-album-1973-reunion-beatlesForte della collaborazione dei Beatles al gran completo, “Ringo” è semplicemente l’album più bello & fortunato del grande Ringo Starr. Si tratta del suo terzo album da solista, seguito di una pregevole raccolta di cover di canzoni anteguerra chiamata “Sentimental Journey” e di un disco country apprezzabile ma poco ispirato intitolato “Beaucoups Of Blues”, editi entrambi nel 1970. Dopo un paio d’anni spesi ad inventarsi una carriera cinematografica, con “Ringo” il batterista dei Beatles dimostrò al grande pubblico e ai critici che anche lui era in grado di fare un album tanto consistente quanto di successo, pur se con un piccolo aiuto da parte dei suoi amici.

L’iniziale I’m The Greatest, infatti, è brano scritto su misura per il nostro da John Lennon, il quale partecipa anche ai cori e suona il piano in una canzone che ricorda molto le atmosfere peppersiane (vedi anche la copertina stessa dell’album in questione, volutamente simile a quella di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band“). Anche George Harrison partecipa a I’m The Greatest, suonandovi tutte le parti di chitarra, per cui abbiamo tre Beatles su quattro nella stessa canzone a tre anni di distanza dallo scioglimento ufficiale del gruppo.

Harrison che poi ha firmato ed eseguito con Starr anche la famosa Photograph, una canzone melodica e corale che, manco a dirlo, è talmente beatlesiana che non avrebbe sfigurato affatto in un album dei Fab Four del periodo 1967-69. Ma in “Ringo” il buon George ha messo la firma anche sulla country Sunshine Life For Me (Sail Away Raymond), che si avvale inoltre di alcuni componenti di The Band: è un brano magnifico che si piazza fra le migliori prove d’un Beatle solista, cullandoci col suo ritmo morbidamente pulsante ed una melodia canticchiabilissima.

E Paul McCartney? Tranquilli, c’è anche lui. Con Six O’Clock, infatti, non soltanto firma una canzone davvero bella, ma vi partecipa ai cori assieme alla moglie Linda e vi suona il piano e il sintetizzatore. Per quanto suoni spudoratamente maccartiana, Six O’Clock è eseguita più che egregiamente da Ringo, facendone una delle sue migliori canzoni in veste solista. Ritroviamo Paul anche nell’altro fortunato singolo tratto da “Ringo”, quella scanzonata ma impeccabile cover di You’re Sixteen che, come Photograph, volò al 1° posto della classifica americana. Oltre a McCartney, nel brano figura pure Harry Nilsson (assiduo collaboratore in quel periodo sia di Ringo che di John, oltre che loro compagno di baldorie), mentre l’inconfondibile chitarra ritmica di Marc Bolan figura invece in Have You Seen My Baby, un rockeggiante brano dalle evidenti influenze country.

L’album “Ringo” è inoltre completato dall’esuberante e corale Oh My My, un altro singolo, dalla tambureggiante e baldanzosa Devil Woman e dalla ben più distesa Step Lightly, canzone che figura il chitarrista Steve Cropper, futuro membro dei Blues Brothers. A You And Me (Babe) – altro brano firmato da George Harrison (con Mal Evans, storico assistente dei Beatles) – spetta invece la chiusura dell’album. Sul finale di questo rilassato ma ben ritmato brano, mentre George si prodiga in un placido assolo, Ringo ringrazia i collaboratori di questo disco che giustamente avverte essere il suo “masterpiece”, nominandoli uno ad uno, fra cui anche Klaus Voormann, Billy Preston (entrambi vecchie conoscenze del giro dei Beatles), Nicky Hopkins e il produttore del disco, Richard Perry.

“Ringo”, e qui ribadisco quanto scrissi dieci anni fa, è un album che mi sento di consigliare a chiunque volesse (… o a chiunque voglia… come si dice?) ascoltare un disco solista di Starr senza sapere da che parte cominciare. Ma anche a chi vuole arricchire la propria collezione di dischi con uno degli album più divertenti e riusciti degli anni Settanta. – Matteo Aceto [originariamente pubblicato sul blog Parliamo di Musica il 15 giugno 2007]

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George Harrison, “Living In The Material World”, 1973

george harrison living in the material world immagine pubblicaDopo il monumentale “All Things Must Pass” (1970), il più sentimentale “Living In The Material World” è il mio album preferito fra quelli del compianto George Harrison. Registrato dopo lo storico concerto per il Bangladesh, organizzato dallo stesso Harrison nell’estate ’71, “Living In The Material World” è il secondo album post-Beatles per George ed è quello che lo consacrò una volta per tutte come solista di successo. Vediamo uno ad uno gli undici brani che formano il disco originale.

Si comincia con la dolce ed indimenticabile Give Me Love (Give Me Peace On Earth), semplicemente una delle canzoni più belle di George; pubblicata come singolo apripista, Give Me Love volò meritatamente al 1° posto della classifica americana. Segue la dolente ma sarcastica Sue Me Sue You Blues, una stoccata sulle cause legali in corso a quel tempo fra i Beatles, in particolare fra Paul McCartney (forse il principale bersaglio della canzone) ed il resto del gruppo; caratteristica saliente di questo blues è l’uso della chitarra slide, suonata dallo stesso George.

L’amarezza lascia però di nuovo posto alla dolcezza e al sentimentalismo (caratteristiche salienti di questo lavoro), con la successiva The Light That Has Lighted The World, una delle canzoni più tenere del nostro; davvero magnifica, nient’altro da aggiungere. Segue la più ritmata Don’t Make Me Wait Too Long, forse il brano più beatlesiano del disco, che non avrebbe sfigurato affatto in un album come “Abbey Road” (1969). La canzone successiva, Who Can See It, è invece una delle più commoventi mai incise da George, romantica e appassionata, con un morbido & avvolgente suono di chitarra.

Con l’omonima Living In The Material World ritroviamo un ritmo più movimentato (e somigliante a Lucy In The Sky With Diamonds, sebbene accelerata): il brano è assai interessante per i suoi cambiamenti di tempo (più disteso nel ritornello, dove ricorda pure Within You Without You grazie al medesimo impiego di strumenti indiani), per l’arrangiamento (bello lo scambio di frasi tra sax e chitarra solista) e per la citazione nel testo della frase ‘John and Paul in the material world’, altra frecciata verso i suoi ex colleghi.

La successiva The Lord Loves The One (That Loves The Lord) è la canzone (un pop-blues piuttosto monotono) che amo meno di questo disco, seguìta però da una di quelle che amo di più, la meditabonda Be Here Now. Brano perlopiù acustico, Be Here Now è una delle cose più toccanti mai proposte da un Beatle, una gemma preziosa che forse da sola vale l’acquisto di tutto il disco. Try Some Buy Some è invece una collaborazione di George Harrison con Phil Spector, il più blasonato dei produttori, iniziata nel 1971: se l’ingombrante arrangiamento orchestrale ci riporta alle atmosfere del beatlesiano “Let It Be” (album prodotto dallo stesso Spector, così come “All Things Must Pass”), il brano in sé è un’altra dolce ed indimenticabile melodia offerta dal nostro.

La delicata The Day The World Gets ‘Round è un altro pezzo che ricalca alcune sonorità tipiche dei Beatles: l’orchestrazione, in particolare, ricorda Across The Universe, ma non manca un pizzico di The Long And Winding Road. Appropriatamente conclude il tutto la lieve e malinconica That Is All, un’altra grande canzone, splendida per sentimento, per un grande album.

Da segnalare, infine, alcuni musicisti che hanno contribuito ad arricchire questo lavoro autoprodotto dallo stesso George: il mitico Ringo Starr, il pianista/tastierista Nicky Hopkins, il batterista Jim Keltner e il bassista Klaus Voormann, amico dei Beatles fin dai tempi di Amburgo e frequente collaboratore anche di John Lennon.