Riascoltavo con gran piacere il doppio vinile di “Urban Hymns”, capolavoro dei Verve datato 1997, e ripensavo a quella scena musicale nota come Britpop, una definizione peraltro che non ho mai veramente capito. Cosa c’è di più brit(ish) e di più pop dei Beatles, la cui parabola artistica si è svolta tra il 1962 e il 1970? Il cosiddetto Britpop, infatti, ha caratterizzato la musica per una buona parte degli anni Novanta, diciamo pressappoco la seconda metà di quel decennio, per cui quella definizione mi sembrava già allora vecchia di almeno venticinque anni.
Ad ogni modo, per chi come me c’era e comprava non soltanto musica con regolarità ma che leggeva anche le riviste “di settore”, gruppi come Blur e Oasis erano tanto chiacchierati quanto osannati, un po’ come era successo fino a pochi anni prima con le band “alternative” emerse negli Stati Uniti in seguito a quell’autentico tsunami musicale chiamato Nirvana. Insomma, che mi piacessero o meno, che acquistassi i loro dischi oppure no (e la risposta è no), sapevo praticamente tutto di questa scena Britpop: i nomi dei gruppi, i nomi dei loro stessi componenti, i nomi dei loro album e singoli inevitabilmente in testa alle classifiche, e perfino le immagini delle copertine dei loro dischi. Dischi che, tuttavia, non entravano a casa mia.
Ciò che proprio non mi piaceva del fenomeno Britpop (e del grunge dei primi anni Novanta) erano sostanzialmente due aspetti, strettamente correlati: che – nonostante gli entusiasmi dei critici e degli espertoni di turno – in quei dischi non si ascoltava in realtà niente di nuovo, e che nell’introdurre queste nuove band degli anni Novanta si procedesse in maniera pressoché sistematica a deridere quelle che le avevano precedute negli anni Ottanta. Faccio un esempio: ricordo la recensione d’un festival inglese (del ’95 o del ’96, il periodo era quello) in cui erano presenti, tra i tanti nomi in cartellone, i Simple Minds e gli Oasis; ebbene, l’autore dell’articolo evidentemente godeva nel riportare che, durante l’esibizione dei Simple Minds, i fan degli Oasis avessero esposto uno striscione con la scritta “why don’t you fuck off” (ironizzando, oltre che a mandarli a quel paese, su quella che probabilmente resta il brano più popolare dei Simple Minds, Don’t You Forget About Me).
Ora, nonostante io debba ammettere che non ascolto praticamente più i miei dischi dei Simple Minds, quei dischi li avevo effettivamente comprati, mentre non ho mai sentito la necessità d’andarmi a comprare un album degli Oasis. Inoltre, e mi fa piacere sottolinearlo, i Simple Minds sono attivi tuttora, mentre gli Oasis si sono sciolti già da un bel po’ di annetti. Ecco, in definitiva, che cosa ha rappresentato per me un fenomeno come quello del Britpop: qualcosa si effimero, di poco esaltante, che si è esaurito da solo senza lasciare né grandi rimpianti e – soprattutto – né eredi davvero degni di nota. Perché il punto centrale di questo post è proprio questo, in fondo: che ci sia piaciuto o meno, il fenomeno del Britpop è stato l’ultimo fenomeno pop davvero riconoscibile al quale abbiamo assistito, l’ultimo che abbia potuto vantare ancora vendite milionarie (anche se, c’è da dire, la musica liquida era ancora agli albori) e nomi dalla risonanza internazionale.
Se dovessi definire la musica del decennio successivo, quella compresa tra gli anni 2000 e 2009, davvero non saprei che parole utilizzare. Stiamo per entrare in un altro decennio ma io, musicalmente parlando, il decennio scorso non l’ho ancora messo a fuoco, non riesco ancora a storicizzarlo, ecco. Insomma, il Britpop – con la sola eccezione dei Verve e di una manciata di canzoni dei Blur – non mi è affatto piaciuto, eppure devo riconoscere che a suo modo, in quegli anni, ha avuto un senso. Mi piacerebbe leggere anche oltre opinioni al riguardo, del tipo “io c’ero”, ovviamente. – Matteo Aceto