The Good, The Bad & The Queen: esce il secondo album per Damon Albarn con Paul Simonon

The Good, The Bad And The Queen, Damon Albarn, Paul SimononE’ notizia di oggi, dopo forse un paio d’anni che si parlava della sua fantomatica registrazione: uscirà il 16 novembre il secondo album di The Good, The Bad & The Queen, la band capitanata da Damon Albarn (voce di Blur e Gorillaz) e formata con il bassista Paul Simonon (The Clash), il chitarrista Simon Tong (The Verve) e il batterista Tony Allen. Album al quale è stato dato il nome di “Merrie Land” e che verrà distribuito in svariati formati, ovvero in ciddì, in doppio vinile e in un “Super Boxset” contenente più che altro qualche gadget curato direttamente da Simonon.

E così, undici anni dopo quello che sembrava un exploit da una botta e via, con peraltro un notevole album eponimo che all’epoca avevo tentato di recensire QUI, questo redivivo quartetto torna sulle scene con un nuovo disco prodotto niente meno che da Tony Visconti, celebre per aver prodotto spesso e volentieri le opere di un certo David Bowie. Formato da undici brani, “Merrie Land” è stato anticipato dal singolo omonimo, Merrie Land, per il quale è stato girato anche il video (vedi QUI).

Singolo che, ad essere sinceri, non mi ha entusiasmato granché, sebbene riesco a sentire la “mano” di Visconti, che resta sempre un bel sentire (e il brano somiglia un po’ ad Ashes To Ashes, fra l’altro). Anche la copertina dell’album – tratta pari pari dal film horror “Incubi Notturni” del 1945 – è tutto fuorché invitante. Memore però del bel disco del 2007, che ancora ho nella mia collezione, tenendo conto del mio amore per i Clash e giudicando con stima il cammino artistico fatto fin qui da Albarn, credo proprio che anche “Merrie Land” farà prima o poi ingresso in casa mia. – Matteo Aceto

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The Clash, “London Calling”, 1979

The Clash London CallingIn blog precedenti avevo già recensito tutti gli album dei Clash ma, bisognoso di nuovi argomenti per ampliare questa riedizione di Immagine Pubblica, mi sono messo a riscrivere un vecchio post (originariamente datato 23 marzo 2009) su quello che viene comunemente inteso come il manifesto artistico della band inglese, ovvero “London Calling”, il suo terzo terzo album, che ha una genesi peculiare che merita d’essere raccontata.

Londra, aprile ’79, i nostri trovano un nuovo quartier generale, un’autorimessa della quale affittano il piano superiore per farne una sala prove ma anche un ritrovo; il locale viene denominato Vanilla per via del colore delle pareti. La nuova atmosfera si rivela salutare per i Clash: liberi da un manager/mentore tanto geniale quanto ingombrante, Bernie Rhodes, licenziato poco prima, i quattro – Joe Strummer, Mick Jones, Paul Simonon e Topper Headon – hanno l’opportunità d’affiatarsi sempre più, non solo come musicisti ma soprattutto come amici. Al Vanilla prendono così a sperimentare generi diversi dal punk, quali funk, reggae, soul, disco e jazz, tanto che tra maggio e giugno i Clash si ritrovano con un bel quantitativo di nuove composizioni (parte di questo materiale, le cosiddette “Vanilla Tapes”, verrà incluso nella riedizione deluxe di “London Calling” del 2004). Dopodiché, una volta rinnovato il contratto con la CBS, i Clash chiamano il produttore Guy Stevens, un loro idolo, già produttore ma anche mentore della band preferita di Mick, i Mott The Hoople.

Stevens aveva già prodotto i nostri, nel novembre ’76, quando, dopo un interessamento da parte della Polydor, il gruppo aveva effettuato con lui il suo primo demo professionale. Allora le cose non andarono come i Clash avevano sperato ma, a distanza di quasi tre anni, erano fermamenti convinti che Guy fosse l’unico in grado di produrre il loro nuovo disco. Le sessioni si svolsero così ai Wessex Studios, con Stevens e il tecnico Bill Price alla consolle: tutto l’entourage dei Clash ricorda il comportamento folle di Stevens, il quale, alcolizzato cronico, incitava la band in studio con urla, salti e distruzione del mobilio. L’atmosfera in studio era quindi sempre carica, rovente, e il nuovo materiale dei Clash riuscì a giovarne, a dispetto di quel che si potrebbe pensare vedendo le immagini amatoriali di Stevens che fa il pazzo in studio, contenute nel divuddì della riedizione deluxe di “London Calling” (sono riprese molto divertenti ma anche un tantino inquietanti)! Le sessioni, durate fino alla fine d’agosto, hanno prodotto quello che secondo molti critici e molti fan è l’album migliore per Strummer & compagni.

Un album che parte col botto, l’omonima London Calling, che non è solo la canzone più rappresentativa dei nostri ma è oggi considerata un autentico classico del rock. E’ un brano potente & visionario, dove tutta la strumentazione e le parti vocali sono esaltate, e lo si capisce già dagli iniziali, incalzanti secondi. London Calling è una delle prove più belle dei Clash, qui al meglio di quello stile epico applicato al punk rock nel quale sono maestri.

Brand New Cadillac è invece l’irresistibile cover d’un rock ‘n’ roll di Vince Taylor & His Playboys, datato 1959: il pezzo, tirato e coinvolgente, serviva ai Clash per riscaldarsi prima di passare alle canzoni di propria composizione ma Stevens lo registrò comunque e convinse la band ad includerlo nell’album. Jimmy Jazz inizia con una sonnacchiosa chitarra unita al fischiettare d’un amico dei Clash, dopodiché la musica diventa saltellante e gioviale, quanto di più distante i nostri avessero mai inciso fino ad allora. I ritmi tornano a farsi comunque più serrati con la trascinante Hateful, dove la voce roca di Joe è magnificamente supportata da quella più sbarazzina di Mick.

Voce di Mick che torna protagonista in Rudie Can’t Fail, convincente ibrido tra sonorità punk e latinoamericane, dove gli interventi ai fiati degli Irish Horns – che partecipano ad altri momenti del disco – sono particolarmente efficaci. Spanish Bombs sembra invece un classico brano da autoradio: melodioso, caldo, dal ritmo sostenuto, col testo – cantato quasi all’unisono da Joe & Mick – a richiamare numerose immagini di quegli anni di piombo.

La saltellante The Right Profile è un’altra grandiosa commistione di stili: rock ‘n’ roll, punk, ritmi latini e un pizzico d’immaginario hollywoodiano; Strummer ne scrisse infatti il testo dopo aver letto una biografia del tormentato attore Montgomery Clift. E se Lost In The Supermarket – brano pulsante ma disteso, con Mick alla voce solista – è una delle canzoni migliori di “London Calling”, la successiva Clampdown è una delle più incalzanti, grazie all’inesorabile batteria di Topper che resta in primo piano per tutto il tempo. Poi è la volta di The Guns Of Brixton, la prima composizione firmata (e cantata) da Paul Simonon, dove il ritmo è decisamente reggae, con una linea di basso irresistibile & una voce impassibile a narrare gangster stories.

Stagger Lee/Wrong ‘Em Boyo è un altro esempio di fusione tra generi nella quale i Clash si dimostravano sempre più a loro agio: un medley fra un traditional e una cover dei Rulers che ci porta ad anni luce dal punk, dato che sembra piuttosto d’ascoltare un appassionato gruppo rock che esegue dei ritmi da swing band anni Cinquanta. Death Or Glory e Four Horsemen mi sembrano gli unici momenti deboli di “London Calling”: sono canzoni delle quali avrei anche fatto a meno, sebbene non siano cattive e suonino inconfondibilmente Clash nell’approccio e nello stile. Ben più interessante mi sembra The Card Cheat, cantata da Mick, dove tutta la strumentazione – col piano come strumento portante – è raddoppiata e fornita d’eco. E’ un’ulteriore testimonianza della versatilità raggiunta dal gruppo in studio, anticipatrice di alcuni episodi di “Sandinista!” (1980), così come il breve ma divertente rock di Koka Kola, cantato da Joe.

E se in Lover’s Rock i nostri si divertono a confondere stili e sonorità, con Joe e Mick a cantare all’unisono, I’m Not Down è semplicemente un’altra bella canzone cantata da Mick, piacevolmente energica. Memorabile resta anche la cover di Revolution Rock di Danny Ray, dove i Clash non solo si cimentano alla grande con sonorità dub-ska (anch’esse riprese con grande efficacia in “Sandinista!“) ma si dilettano pure a riproporre la sezione fiati di Sea Cruise, un pezzo di Frankie Ford.

A chiudere questo disco superlativo che è “London Calling” ci pensa una coinvolgente canzone cantata da Mick che doveva essere abbinata come flexi-disc al magazine NME; la cosa non si concretizzò e la melodica Train In Vain trovò posto in fondo all’album, nemmeno nominata nelle prime stampe del disco.

Due righe merita anche la copertina, giudicata una delle più evocative della discografia mondiale. Scattata da Pennie Smith, la foto ritrae Simonon che spacca il suo basso durante un concerto americano, mentre la grafica riprende quella del primo album di Elvis Presley. – Matteo Aceto

Gorillaz, “Plastic Beach”, 2010

gorillaz-plastic-beach-immagine-pubblica-blogNon ho proprio resistito: ho sborsato quattordici euro & novanta centesimi e ho comprato “Plastic Beach” dei Gorillaz! Il fatto è che il terzo album della cartoon band capitanata da Damon Albarn è uno di quei dannati dischi che migliorano un po’ di più ad ogni ascolto.

E così, dopo un po’ che mi trastullavo con insoddisfazione crescente con gli mp3 scaricati dalla rete, ho infine deciso di recarmi al vicino negozio di dischi per portarmi a casa una copia originale.

C’è da dire, inoltre, che l’inglese Damon Albarn, classe 1968, già nei Blur ma anche artefice dell’eccellente “The Good, The Bad And The Queen”, è un musicista molto eclettico che sembra diventare via via più bravo col passare degli anni. Di fatto, la sua contaminatissima musica pubblicata a nome Gorillaz mi sembra una delle cose più eccitanti uscite da dieci anni a questa parte.

E così, dopo due album interessanti come l’eponimo “Gorillaz” del 2001 e “Demon Days” del 2005, eccoci al terzo capitolo della saga, “Plastic Beach” per l’appunto. Sono stato conquistato dal recupero delle sonorità technopop anni Ottanta, miste a rap da strada, elettronica e sonorità orientaleggianti. E dai molti ospiti presenti: si va da Lou Reed a due ex componenti dei Clash, ovvero Mick Jones e Paul Simonon, passando – fra i tanti – per Bobby Womack, Mos Def, De La Soul, Snoop Dogg e Little Dragon.

“Plastic Beach” offre sedici brani in tutto, per un totale di quasi un’ora di musica. Per quanto mi riguarda, le canzoni migliori sono proprio quelle che si rifanno alle sonorità anni Ottanta, come il baldanzoso elettropop di Rhinestone Eyes, la dinamica On Melancholy Hill (che se non fosse per l’inconfondibile voce di Albarn, dolce e malinconica, si potrebbe spacciarla per un pop d’annata degli Human League o degli Yazoo), la notevole Empire Ants (divisa in due parti, la prima più meditabonda cantata da Damon e la seconda ben più movimentata affidata alla voce suadente di Yukimi Nagano, la cantante dei Little Dragon) e soprattutto Stylo, edita come singolo apripista. Senza dubbio il pezzo forte dell’album, Stylo vede intrecciarsi le voci di Mos Def, Damon Albarn e Bobby Bomack su un tappeto propulsivo meravigliosamente ‘eighties’.

Ma “Plastic Beach” offre anche molto rap, fin dalle battute iniziali, affidate a Welcome To The World Of The Plastic Beach. Nel brano, preceduto dal breve Orchestral Intro, è il noto rapper Snoop Dogg a fare la parte da protagonista, mentre l’esotica White Flag ci offre un duetto fra Bashy e Kano. Sweepstakes, altra collaborazione fra i Gorillaz e Mos Def, è invece un rap piuttosto nevrotico e ossessivo.

Accanto ad episodi più marcatamente pop (per quanto sempre molto contaminati) come Superfast Jellyfish, Some Kind Of Nature, To Binge, Plastic Beach e Pirate Jet, troviamo anche sperimentazioni elettroniche con Glitter Freeze (uno strumentale scritto ed eseguito dai Gorillaz con Mark E. Smith dei Fall) e brani più contemplativi come Broken e Cloud Of Unknowing (affidata alla voce di Womack).

In definitiva, “Plastic Beach” è un album divertente e coinvolgente, buono da ascoltare sia a casa che in macchina. Come detto, è uno di quei dischi che si fanno svelare e apprezzare di più ad ogni ascolto, per cui ogni eventuale aggiunta dei lettori fra i commenti sarà gradita. – Matteo Aceto

Julien Temple, “Joe Strummer – The Future Is Unwritten”, 2007

joe-strummer-film-clash-immagine-pubblicaMiracolosamente, il docufilm di Julien Temple su Joe Strummer, “The Future Is Unwritten”, è arrivato anche in una sala cinematografica abruzzese, precisamente al Massimo di Pescara. La proiezione si è tenuta ieri sera e… non me la sono fatta scappare!

Antonella & io arriviamo per tempo, alle ventiettrenta, di fronte ad un botteghino già molto affollato: un quantitativo di gente che non mi aspettavo di trovare ma che mi ha fatto molto piacere di vedere. Quando entriamo in sala riusciamo per fortuna a trovare due comodi posti nelle file centrali ma entro le ventuno, ora d’inizio della proiezione, la sala è già piena.

Il docufilm di Temple parte già alla grande, con la storica ripresa (in bianco & nero) di Joe che registra la sua voce solista sulla base strumentale – che in quel momento ascolta solo lui, in cuffia – di White Riot, il primo singolo dei Clash. Poi entra prepotentemente & selvaggiamente il resto della musica, con le immagini che stavolta passano al cortile di casa Mellor (il vero cognome del nostro) dove troviamo il piccolo Joe a giocare col fratellino maggiore David. Queste immagini iniziali sono fra le poche che mi hanno veramente emozionato: non avevo mai visto quelle sequenze amatoriali (a colori) del giovane Strummer, così come le foto e le immagini dei suoi genitori. Tutto il film scorre cronologicamente, dall’origine nella middle-class inglese alla resurrezione artistica del nostro con la sua ultima band, The Mescaleros, passando per gli anni in collegio, il periodo da squatter a Londra, l’esplosione del fenomeno punk, il suo passaggio dagli 101ers ai Clash, l’epopea di questi ultimi, gli anni di smarrimento nella seconda metà degli Ottanta.

Una storia complessa & affascinante, narrata oltre che dalle stesse parole di Joe (prese dalle sue interviste radio e/o televisive) anche da quelle persone – musicisti o tizi comuni – che più sono state in contatto con lui, fra cui: i tre ex Clash Mick Jones (in ottima forma & a suo agio), Topper Headon e Keith Levene (ma non clamorosamente Paul Simonon, chissà perché…), Tymon Dogg, Steve Jones dei Sex Pistols, Don Letts, Courtney Love, amici d’infanzia e compagni hippy e/o squatter, le sue due mogli – Gaby e Luce – più una serie d’interventi di gente che a mio avviso c’entra ben poco, come quel ruffianone onnipresente di Bono Vox. Che cavolo c’entra Bono con Joe Strummer?! Altri interventi ci mostrano invece gli attori Matt Dillon, Steve Buscemi e Johnny Depp e il regista Martin Scorsese.

E’ molto bello che la maggior parte di questi interventi si svolga attorno ad un falò sulla spiaggia, come piaceva fare a Joe per ritrovarsi e confrontarsi con gli amici più cari. Uno dei pochi che non appare di fronte al caldo scoppiettare delle fiamme è Mick Jones, che parla del suo rapporto artistico e umano con Strummer dal grattacielo in cui viveva da solo con la nonna, nella seconda metà degli anni Settanta. Grande Mick, da sempre il mio Clash preferito! Anche il manager-mentore dei Clash, il controverso Bernie Rhodes, dice la sua, col suo classico taglio polemico & aggressivo, anche se i suoi interventi sono soltanto vocali (credo telefonici), su alcune immagini di repertorio.

“The Future Is Unwritten” è quindi un ottimo documento per conoscere la vita privata & artistica di Joe Strummer, non manca nessun aspetto: il dolore per la perdita del fratello David, gli anni giovanili errabondi, la storia dei Clash ovviamente, le colonne sonore realizzate per il cinema (come “Walker”), le parti che Joe ha recitato per lo stesso cinema (come “Mystery Train” di Jim Jarmusch, che anch’egli contribuisce coi suoi ricordi attorno al falò), i suoi programmi radiofonici condotti per la BBC a cavallo fra gli anni Novanta e Duemila (spesso come colonna sonora abbiamo proprio i pezzi che Joe sceglieva, introducendoli con la sua inconfondibile voce), fino alla sua esibizione coi Mescaleros nell’autunno del 2002, per supportare la causa dei pompieri in sciopero, un’esibizione che vide anche la partecipazione (a sorpresa) di Mick Jones per un paio di pezzi dei Clash. Altre sequenze davvero emozionanti!

A parte clamorose assenze – una su tutte, come detto, Paul Simonon, ma anche i produttori Mikey Dread (peraltro morto pochi giorni fa…) e Bill Price, nonché Martin Slattery dei Mescaleros – l’unico grande punto debole che ho trovato in “The Future Is Unwritten” è la sua verbosità. Una valanga di parole, da quelle dei già numerosi ospiti attorno al falò a quelle dello stesso Joe, con la musica che quasi sempre resta un mero sottofondo. Una valanga di informazioni che danno sì un profilo abbastanza completo di Joe Strummer ma che risultano eccessivamente compresse in due ore di visione. Insomma, va pure bene la prima volta che vediamo il film, ma le altre volte? Dov’è la musica? C’è da dire che, almeno nei titoli, essa è abbastanza rappresentativa dei vari periodi artistici di Joe: ascoltiamo quindi (anche se per pochi secondi ognuna) Keys To Your Heart dei 101ers, White Riot, London Calling, Magnificent Seven, Rock The Casbah e altri classici dei Clash, estratti dalle colonne sonore di “Walker”, “Permanent Record” e “When Pigs Had Flies” (non sono sicuro che quest’ultimo titolo sia esatto, la musica resta tuttora inedita), Tony Adams , Johnny Appleseed e Willesden To Cricklewood dei Mescaleros. Insomma, i titoli non mancano ma li si ascolta veramente per pochi secondi, quasi sempre come sottofondo alle parole.

Altri aspetti che ho gradito poco – e dei quali francamente non ho visto l’utilità – sono stati gli inserti di sequenze tratte dal bel cartone animato de “La fattoria degli animali” e del film “1984”, entrambi presi dalle notevoli opere letterarie omonime di George Orwell. Potrebbero anche fare scena ma per me sono inutili.

In definitiva, penso che “The Future Is Unwritten” sia un ottimo racconto per chi vuole conoscere Joe Strummer sapendone veramente poco, o per chi volesse avere una guida visuale della sua carriera. Ma per chi conosce già la storia di Joe e consuma da anni album quali “London Calling” e “Sandinista!” questo film rappresenta solo un simpatico & gradito diversivo. A tratti pure un po’ noioso. – Matteo Aceto

The Clash, “The Clash”, 1977

the-clash-primo-album-omonimoQuesto 2007 ha segnato importanti anniversari discografici, celebrati chi più chi meno dalla stampa specializzata (e con molta più umiltà & meno pretese dal sottoscritto): “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967) dei Beatles, “Velvet Underground & Nico” (1967) dei Velvet Underground, “The Doors” (1967) dei Doors, “The Piper At The Gates Of Dawn” (1967) dei Pink Floyd, ma anche “Exodus” (1977) di Bob Marley & The Wailers, “Never Mind The Bollocks” (1977) dei Sex Pistols, la colonna sonora di “Saturday Night Fever” (1977, quella coi pezzi dei Bee Gees per intenderci), ma pure “Appetite For Destruction” (1987) dei Guns N’ Roses.

Io a questa lista aggiungerei anche “Low” e “Heroes” di David Bowie, “The Idiot” di Iggy Pop, “News Of The World” (1977) dei Queen (è quel disco che contiene We Are The Champions e We Will Rock You, avete presente?), “The Clash” (1977) dei Clash, “…Nothing Like The Sun” (1987) di Sting, “Sign ‘O’ The Times” (1987) di Prince, e “Bad” (1987) di Michael Jackson: alcuni di essi li ho già recensiti alla bellemmeglio su questo blog, di altri mi piacerebbe parlare in post futuri, mentre di “The Clash” parlerò subito, riciclando idee già scritte in un mio vecchio post.

“The Clash”, album di debutto dei Clash, fu il secondo grande album punk a vedere la luce in Gran Bretagna, nel corso del 1977, l’anno che sancì l’affermarsi nelle classifiche riservate al pop-rock di una nuova & ruvida sonorità, il punk per l’appunto. Iniziarono a febbraio i Damned di Brian James e Captain Sensible con l’album “Damned Damned Damned”, ad aprile seguirono i nostri con “The Clash” e completarono la trilogia di classici punk i Sex Pistols, col fondamentale “Never Mind The Bollocks”, pubblicato a novembre, anche se era pronto già da diversi mesi prima.

A partire dal 12 febbraio 1977, nel corso di tre lunghi weekend giovedì-domenica, i Clash e il produttore Mickey Foote (lo stesso tecnico del suono che accompagnava la band nei concerti) sono impegnati per l’incisione del loro album d’esordio agli studi londinesi della CBS . L’atteggiamento assunto dai Clash nei confronti del personale in studio è di aperta sfida: all’epoca la CBS era la casa discografica più grande al mondo e i Clash la vedevano come una sorta di multinazionale alla quale opporsi per non farsi fagocitare. Joe Strummer preferisce incidere le sue parti vocali quando il resto del gruppo non c’è: canta rivolto contro il muro e al contempo suona la sua chitarra ritmica. Evidentemente, secondo lui, ciò era il solo modo possibile per ricreare in studio una sua performance dal vivo; tuttavia la sua voce non è nelle condizioni ottimali, dato che Joe accusava dei noduli alla gola.

Pare, inoltre, che molto del suo contributo strumentale sia stato sostituito a sua insaputa dalla chitarra di Mick Jones, che è il componente dei Clash che, in fin dei conti, più si adatta all’ottica lavorativa in studio: utilizza tre diverse chitarre e collabora col fonico per la resa ottimale dei suoni. Mick dirige anche le operazioni dei compagni: in particolare, insegna a Paul Simonon quali parti di basso deve eseguire… Paul, infatti, aveva le note disegnate sulla tastiera del suo strumento! Contrariamente ad alcune dicerie, però, Simonon eseguì effettivamente le sue parti di basso. C’è da dire, comunque, che il suono di basso che si ascolta per tutto il disco è piuttosto pronunciato e contribuisce enormemente alla definizione del sound complessivo in “The Clash”.

Terry Chimes, già ufficialmente fuori dai Clash, è stato il membro della band meno collaborativo: s’è limitato ad eseguire le istruzioni impartite dagli altri & a suonare le sue parti di batteria correttamente. Si discute, invece, sull’effettivo ruolo del produttore Mickey Foote: anche se Mick Jones abbia potuto svolgere un ruolo di produttore di fatto, a Foote si deve riconoscere quantomeno l’importante ruolo da lui assunto di cuscinetto tra l’aggressività dei Clash in studio e i tecnici della casa discografica, per la prima volta alle prese con la musica punk e i suoi stilemi (ricordiamoci che a quei tempi la CBS andava forte con gente come gli ABBA…).

Per quanto riguarda le singole canzoni, invece…

1) L’iniziale Janie Jones è dedicata ad una nota ‘signora’ londinese: è un brano carico di ruvida urgenza, cantato perlopiù coralmente, mentre negli ultimi ventitré secondi esplode la sola voce di Mick.

2) Remote Control, un duetto tra Mick e Joe, è il brano più convenzionalmente rock dell’album: perciò è stato scelto come secondo singolo dalla CBS (ad insaputa dei Clash che s’incazzarono parecchio).

3) I’m So Bored With The U.S.A. parla dell’americanizzazione della Gran Bretagna e dei suoi costumi; originariamente la canzone era intitolata I’m So Bored With You ed in effetti è questa la frase che cantano Mick e Paul nei cori.

4) La versione di White Riot contenuta nel disco risulta più grezza all’ascolto rispetto a quella pubblicata su singolo qualche tempo prima: è diversa sia nella strumentazione e sia nel cantato, inoltre non prevede gli effetti (sirena, vetro infranto, allarme antincendio, ecc.) usati per il singolo.

5) Hate & War è un brano cantato perlopiù da Mick e cita l’opposto dell’ideale hippy di ‘peace & love’: la situazione non è certamente vista come positiva, bensì viene criticata come segno dei tempi che rende più difficile la vita dei ragazzi.

6) Tranne Police & Thieves (che vedremo fra poco), tutte le canzoni di questo disco sono accreditate alla coppia Strummer/Jones, mentre la breve & coinvolgente What’s My Name? reca un credito di composizione anche per Keith Levene, chitarrista nei Clash fino al settembre ’76. Intervistato in anni recenti, Levene ha affermato che, pur non piacendogli l’album, avrebbe dovuto spettargli lo status di coautore con Strummer & Jones in tutte le canzoni contenute in “The Clash”. Chissà…

7) Deny presenta una struttura più complessa: il tempo cambia più volte dopo il ritornello, mentre a poco più di un minuto dalla fine la voce di Mick s’intreccia al canto rabbioso di Joe.

8) London’s Burning è uno dei pezzi più rappresentativi dell’album: la dichiarazione iniziale di Strummer che sembra asserire un dato di fatto (e il rullare dei tamburi rafforza il tutto), mentre il ritornello corale ad opera di Mick e Paul, l’assolo di chitarra supportato dalle frasi gridate di Joe, e il pestare della batteria di Terry rendono il finale di questa canzone davvero esplosivo.

9) Career Opportunities presenta una complessità atipica per gli standard punk: questo come altri brani dell’album fanno intendere chiaramente che i Clash hanno (e avranno) molto più da dire rispetto ai loro colleghi e rivali musicali.

10) Cheat, a mio parere, è il brano meno riuscito del disco: le idee ci sono (come l’effetto di phaser sul finale) ma evidentemente i tempi ristretti di lavoro e la difficoltà dei Clash ad ambientarsi in un ambiente non familiare come quello dei CBS Studios hanno fatto la loro parte.

11) Protex Blue è un puro brano punk, una canzone ricca di vitalità dove Mick canta uno dei primi testi che ha scritto.

12) Eccoci quindi alla cover di Police & Thieves, un pezzo reggae di Junior Marvin: seppur aggiunta per dare più corpo all’album (dura la bellezza di sei minuti), tutti i Clash si dimostrarono entusiasti del risultato finale, in particolare colpisce l’efficace arrangiamento per due chitarre che Mick s’è inventato.

13-14) 48 Hours presenta un grande coro a tre voci e un assolo di chitarra piuttosto rock ‘n’ roll, mentre Garageland è il malinconico brano di chiusura con tanto di armonica a bocca; il testo è una risposta al famigerato articolo di chi voleva rispedire i Clash al garage lasciando il motore acceso.
“The Clash” raggiunse piuttosto in fretta il 12° posto della classifica britannica: trattandosi d’un nuovo sound proposto da una nuova band, il risultato è sbalorditivo e la dice lunga sulla voglia di cambiamento che i giovani inglesi del tempo cercavano nel panorama musicale.

E per finire, alcune curiosità…
La strategia promozionale per “The Clash” era congiunta al magazine New Musical Express: le prime 10mila copie del disco contenevano un adesivo rosso da applicare a un tagliando pubblicato sul numero di aprile di NME, così da ottenere gratuitamente il singolo Capital Radio.
“The Clash” è stato pubblicato negli USA dalla Epic il 23 luglio 1979 con una scaletta differente: alle prime copie era anche allegato il singolo Gates Of The West / Groovy Times. Poche altre band sono state generose quanto i Clash.

– Matteo Aceto

The Good, The Bad & The Queen, 2007

the-good-the-bad-and-the-queen-damon-albarn-clash-blurIn questi giorni sto ascoltando quasi a ripetizione l’album omonimo di The Good, The Bad & The Queen, ovvero un supergruppo costituito nel 2005 da Damon Albarn dei Blur (o dei Gorillaz, se preferite), da Paul Simonon dei Clash, da Simon Tong (ex chitarrista dei Verve) e da quel monumento di batterista chiamato Tony Allen, collaboratore di Albarn già da un po’ ma celebre per i suoi trascorsi con Fela Kuti.

“The Good, The Bad & The Queen” è un disco uscito al principio di quest’anno ma che non ho comprato immediatamente, nonostante l’allettante presenza di Paul, che suona il basso in tutti i pezzi e contribuisce ai cori. Diversi mesi prima, Antonio mi aveva già anticipato la bellezza di quest’album, avvertendomi che l’avrei apprezzato via via sempre di più. Ebbene devo dargli ragione (oltre che ringraziarlo): ho comprato il ciddì di “The Good, The Bad & The Queen” un mesetto fa ma in questi giorni è finalmente esploso il mio amore per questa musica. Sarò banale & scontato se mi azzardo a dire che questo è un sound di non facile catalogazione? A me suona come una sorta di disincantato ma cullante dub/reggae, spruzzato con la tipica eccentricità di tanti arrangiamenti pop-rock che la musica inglese ci ha splendidamente proposto dall’era Beatles ad oggi.

Qui non mi prodigherò in una delle mie solite (e forse noiose, chissà…) recensioni. Mi limiterò a dire che il motivo per cui ho comprato questo disco, cioè il basso di Paul Simonon, c’è & si sente, che lo stile di Damon Albarn (che conoscevo appena da qualche pezzo dei Blur e dei Gorillaz) è molto interessante & personale (lui è la mente del gruppo, il cantante & l’autore dei pezzi, e mi pare decisamente bravo), che Simon Tong è un menestrello tanto discreto & puntuale quanto abile, che il tocco di Tony Allen è proprio sorprendente.

Ovviamente, i pezzi che preferisco sono… tutti! Sul serio, non ce n’è uno che non s’incastri perfettamente nei quasi cinquanta minuti di durata dell’album. Comunque, se proprio devo citare qualche canzone, dico che trovo bellissima 80’s Life, con reminiscenze dell’era “Pet Sounds” dei Beach Boys, memorabili la saltellante Northern Whale e l’iniziale History Song. Ma anche A Soldier’s Tale … ma anche The Bunting Song… ma anche il primo singolo, Herculean …insomma, tutte!

Per farla corta, per farla breve, “The Good, The Bad & The Queen” è un album che non dovrebbe scontentare nessun vero fan dei Clash, specie se ammiratore come me dell’era “Sandinista!“. A me è piaciuto. E tanto. – Matteo Aceto

Mick Jones

mick-jones-the-clash-big-audio-dynamiteMichael Geoffrey Jones (Londra, 26 giugno 1955), musicalmente noto come Mick Jones, è stato il vero motore dei Clash, il principale architetto del sound del gruppo. A lui si deve l’evoluzione musicale della storica band inglese, dal furioso punk degli esordi con “The Clash” (1977) alle sonorità dance e funky di “Combat Rock” (1982), passando per i generi più disparati quali reggae, ska, soul, hip-hop, rap, rhythm ‘n’ blues e rockabilly. Nella sua immaginazione, non c’erano barriere che la musica dei Clash non avrebbe potuto sfondare; eppure il buon Mick ha dovuto vedersela con gli altri due leader della band, ovvero Joe Strummer e Paul Simonon, che nel 1983 hanno preferito buttarlo fuori dal gruppo e tornare ad un punk rock tanto anacronistico quanto banale negli intenti.

Figlio d’un tassista londinese e d’una madre d’origine ebrea fuggita dalle persecuzioni nella sua terra d’origine, la Russia, il piccolo Mick è stato allevato dalla nonna materna, Stella, dopo che il matrimonio dei Jones è andato in frantumi nel 1963. Abbandonato dalle persone che più avrebbero dovuto stargli vicino, Mick ha trovato conforto nella musica: una passione sconfinata per artisti quali Beatles, Rolling Stones, Cream, Jimi Hendrix, The Who, Mott The Hoople, David Bowie e più tardi New York Dolls lo ha convinto ben presto a comprarsi una chitarra e a fondare varie band con gli amici. Il suo cammino artistico giunge ad una svolta nel 1975, quando conosce Tony James, bassista col quale fonda i London S.S., e Bernie Rhodes, consociato in affari di Malcom McLaren, proprietario del Sex, la nota boutique alla moda londinese e manager dei New York Dolls.

Bernie, in una sorta di competizione artistica ma anche ideologica col suo partner McLaren, in procinto di lanciare il fenomeno Sex Pistols, decide di diventare il manager dei London S.S., divenendone in breve tempo anche il direttore d’immagine, l’ideologo e il talent scout per i nuovi membri del gruppo. Iniziano così una serie di audizioni che faranno dei London S.S. una band leggendaria per le origini della musica punk: nelle sue fila passeranno i prossimi membri dei Clash (Terry Chimes, Keith Levene, Topper Headon) ma anche future star come Brian James e Rat Scabies (che di lì a poco formeranno i Damned). Mick sarà costretto a separarsi da Tony James (mai abbastanza gradito da Bernie), anche se i due resteranno sempre amici, tanto che nei primissimi anni del successo coi Clash, Mick e Tony vanno a vivere sotto lo stesso tetto.

Con James fuori, il nome del gruppo cambia in The Young Colts, composto da Mick, dal chitarrista Keith Levene e dall’aspirante bassista Paul Simonon (Mick lo conobbe nel corso di un’audizione dei London S.S., rimanendo colpito dal suo look da rude-boy londinese… dovrà comunque insegnargli a suonare il basso). Il biennio 1976-77 è un periodo carico di novità che si susseguono rapidamente: i Young Colts propongono a Joe Strummer, il carismatico leader d’una pub-band chiamata The 101ers, di unirsi al gruppo come cantante. Joe, pressato da Bernie, finirà con l’accettare e la band, costituita a questo punto da Mick Jones, Keith Levene, Paul Simonon, il batterista Terry Chimes e quindi Strummer, assume il nome The Clash e vola verso la leggenda.

Gli anni che discograficamente hanno visto attivo Mick Jones nei Clash (1977-82) disegnano un paesaggio sonoro in continua evoluzione artistica che ha dato vita a tre capolavori indiscussi del rock, ovvero gli album “London Calling” (1979), “Sandinista!” (1980) e “Combat Rock” (1982). Tutti quelli che hanno conosciuto da vicino il mondo dei Clash ricordano Mick come il componente del gruppo più professionale, quello più interessato alle tecniche di produzione in studio, nonché quello che musicalmente era sempre al passo coi tempi. Aveva anche un carattere difficile che nei momenti di tensione tendeva a chiudersi in se stesso e a farne un divo capriccioso & intrattabile. I Clash si sono sempre considerati come una gang e come tale si comportavano ma, col tempo, Joe e Paul hanno iniziato ad accusare il comportamento da star che tendeva ad assumere Mick: questa frizione diventa sempre più insanabile e così i due (su pressioni di Bernie) forzano l’uscita di Mick dai Clash nella tarda estate del 1983.

Jones non resta con le mani in mano e di lì a poco progetta già una nuova band: per un breve periodo si unisce ai General Public, dopodiché crea i TRAC che debuttano nel 1984 a nome di Big Audio Dynamite. La storia dei B.A.D. è bella & affascinante e testimonia sulla lunga distanza che, musicalmente parlando, Mick aveva ragione su Joe e Paul. Terminato il progetto B.A.D. (dopo varie incarnazioni chiamate Big Audio Dynamite II e Big Audio), sul finire degli anni Novanta, Mick ha ripreso a scrivere canzoni con Joe Strummer e si è distinto nella produzione di altri artisti (recentemente per i Libertines e i progetti solistici di Pete Doherty, ma in passato anche per il suo idolo Ian Hunter, la cantante americana Ellen Foley, con la quale Mick ha vissuto una storia sentimentale, i Theatre Of Hate e altri).

Dal 2002, Mick Jones è tornato in prima linea coi Carbon/Silicon, una nuova band creata col suo amico di sempre, Tony James. Inizialmente il gruppo ha iniziato a distribuire la propria nuova musica in download gratuito, anticipando band più acclamate come i Radiohead, dopodiché, nel corso del 2007 ha debuttato nel tradizionale mercato discografico con un primo album, “The Last Post”, che si avvale anche di Leo Williams, al fianco di Mick nella prima e più esaltante fase dei Big Audio Dynamite. Infine, proprio questi ultimi, saranno oggetto di una clamorosa reunion all’inizio del 2011, nella formazione originale. [ultimo aggiornamento: 2 aprile 2011] – Matteo Aceto

The Clash: storia e discografia

the-clash-immagine-pubblicaDopo tanto parlare dei singoli componenti del gruppo e dei dischi pubblicati, ecco una breve storia di una delle più grandi ed influenti band della storia, The Clash.

La formazione ‘classica’ era composta dal seguente quartetto: Mick Jones (chitarra e voce), Joe Strummer (voce e chitarra), Paul Simonon (basso e voce) e Nicky ‘Topper’ Headon (batteria). Come vedremo tra poco, tuttavia, non fu sempre questa la formazione dei Clash, giacché essa nacque e si sciolse definitivamente come quintetto. Infatti, quando la band venne formata, nel giugno 1976, era composta dai seguenti: Jones, Strummer e Simonon come sopra, più Keith Levene (chitarra) e Terry Chimes (batteria).

Il 4 luglio, poi, i Clash debuttarono dal vivo, al Black Swan di Sheffield (Gran Bretagna) come supporter degli emergenti Sex Pistols, ma già a settembre si verificò un importante cambiamento: Levene venne allontanato e così i Clash diventarono un quartetto. E’ con questa formazione (Jones, Strummer, Simonon e Chimes) che i Clash debuttano discograficamente, il 18 marzo 1977, col singolo White Riot, mentre il primo album, l’omonimo “The Clash“, vede la luce di lì a poco, l’8 aprile. In realtà, Chimes era già fuori dal gruppo e accettò di suonare nei dischi solo per un favore personale; è per questo che non compare in copertina, mentre il suo nome viene accreditato malignamente come ‘Tory Crimes (crimini dei membri del partito conservatore, i Tories).

E’ a questo punto che fa la sua comparsa il bravissimo Topper Headon, senza dubbio uno dei batteristi più abili e versatili che il rock abbia mai contemplato. I Clash se ne accorgono subito e con lui possono decollare: il loro secondo album, “Give ‘Em Enough Rope” (novembre ’78), vola al 2° posto della classifica britannica, mentre dal 1979 al 1982 la band realizza tre dei più grandi dischi di tutti i tempi, ovvero “London Calling” (1979), “Sandinista!” (1980) e “Combat Rock” (1982). Questi tre album segnano indubbiamente il periodo d’oro dei Clash, dopodiché inizierà un lento declino.

Declino che prende corpo già nel corso del 1982, con l’allontanamento di Topper: debilitato da una gravissima tossicodipendenza, Headon cedette così il posto a Terry Chimes, che per la seconda volta rientra nella band (nel frattempo Terry aveva suonato con diversi gruppi della scena punk inglese, tra cui i Generation X di Billy Idol). Con Terry, i Clash completano il tour internazionale conseguente all’uscita del fortunato “Combat Rock“, ma nel 1983 la band giunge ad un punto morto. Le sessioni per un nuovo album procedono lentamente e in mezzo a tensioni crescenti: Chimes decide di buttare la spugna (sarà sostituito dal giovane Pete Howard) mentre, nel corso dell’estate, Strummer e Simonon estromettono Mick Jones.

La perdita di Jones è gravissima perché il buon Mick era il principale autore delle musica della band e, di fatto, il responsabile del ‘Clash sound’. Joe e Paul decisero coraggiosamente di andare avanti, reclutando altri due giovani componenti, i chitarristi Vince White e Nick Sheppard. Questa formazione dei Clash (Strummer, Simonon, White, Sheppard e Howard), nuovamente un quintetto, segnerà quindi l’ultimo atto della storia della band, culminato nel 1985 con la pubblicazione del controverso “Cut The Crap“, sesto ed ultimo album da studio dei Clash. Nel 1986 la band già non esiste più, consegnandosi definitivamente alla storia della musica contemporanea. – Matteo Aceto

 

The Clash, “Cut The Crap”, 1985

the-clash-cut-the-crap-immagine-pubblicaScrissi questo post – a metà fra una scheda tecnica & una recensione – sul blog parallelo a Parliamo di Musica, ovvero Parliamo dei Clash… durò poco, tuttavia, e così trasferii il tutto su Pdm… e ora qui!

CUT THE CRAP
CBS, 8 novembre 1985

NOTE
Sesto e ultimo album da studio dei Clash, dura 38′ e 21” (la riedizione in CD del 1999 include un brano in più che porta la durata a 41′ e 32”).

FORMAZIONE
Joe Strummer (voce, cori, chitarra?), Paul Simonon (basso, cori), Nick Sheppard (chitarra, cori), Vince White (chitarra, cori), Pete Howard (batteria, cori?).

ALTRI MUSICISTI
Bernie Rhodes (sintetizzatori, drum machine programming, cori?), Norman Watt-Roy (basso, cori?), Michael Fayne (percussioni).

PRODUZIONE
Bernie Rhodes e Joe Strummer (accreditati come “José Unidos”).

STUDIO
Non specificato, Monaco Di Baviera (Germania).

BRANI
1. Dictator (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 2. Dirty Punk (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 3. We Are The Clash (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 4. Are You Red..Y (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 5. Cool Under Heat (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 6. Movers And Shakers (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 7. This Is England (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 8. Three Card Trick (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 9. Play To Win (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 10. Fingerpoppin’ (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 11. North And South (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 12. Life Is Wild (Joe Strummer, Bernie Rhodes) 13. Do It Now (Joe Strummer, Bernie Rhodes) [solo nella riedizione]

STORIA/RECENSIONE
Nel corso del 1984 debutta dal vivo una nuova formazione dei Clash, composta da Joe Strummer, Paul Simonon (i soli due membri originali della band) e da tre giovani nuovi componenti, ovvero Pete Howard (nei Clash già dal 1983), Nick Sheppard e Vince White. In questi concerti i ‘nuovi’ Clash presentano delle nuove canzoni come This Is England, Dictator, Are You Red..Y e We Are The Clash (quest’ultima sembra un proclama contro Mick Jones) ma già i ‘vecchi’ ammiratori del gruppo cominciano a sentire puzza di bruciato, cosa che non passa inosservata a Joe Strummer. Tuttavia la casa discografica fa pressioni affinché si dia un seguito al fortunato “Combat Rock” del 1982. E così, al principio del 1985, i Clash sono a Monaco di Baviera per incidere quello che sarà ricordato come il loro ultimo album da studio, nonché come il disco più controverso della loro carriera. Senza Mick Jones, stavolta è Bernie Rhodes a condurre il progetto: quello che una volta era il manager-mentore dei Clash (tranne che nel biennio 1979-80), dopo aver fatto pressioni su Joe e Paul per eliminare Mick, si reinventa come musicista e, praticamente, come nuovo membro della band. Sua intenzione è di infondere al seguito di “Combat Rock” un sound decisamente contemporaneo: così s’inventa una tessitura di tastiere, sintetizzatori e suoni campionati sulla quale riversare chitarre taglienti (e piuttosto distorte) e cori da stadio. Aggrega alle sessioni diversi turnisti non menzionati nelle note di copertina, tra cui il bassista dei Blockheads, Norman Watt-Roy (che aveva già partecipato a “Sandinista!”), a discapito di Paul Simonon e Pete Howard (il loro contributo strumentale a “Cut The Crap” è probabilmente simbolico). Strummer contribuisce con la cosa che più gli riesce, ovvero i testi delle canzoni e, sotto questo aspetto, forse “Cut The Crap” non è così malvagio negli intenti. Tuttavia, una volta terminato il disco, l’uso dei sintetizzatori, delle batterie programmate ma soprattutto il pessimo mixing complessivo spaventò e deluse i fan storici dei Clash. C’è da dire che nelle fasi finali di lavorazione di “Cut The Crap” Joe si era chiamato fuori dal gruppo: e così Bernie Rhodes ne ha scelto la grafica, il titolo, e per giunta (o per merito, questo è da discutere) si è accreditato come coautore insieme a Strummer di tutti i brani. Personalmente non trovo così scabroso questo “Cut The Crap”… certo, è il disco più bastardo che i Clash abbiano mai realizzato e chiamarlo ‘disco dei Clash’ risulta una forzatura, ma sinceramente, preso per quello che è, lo trovo più divertente di “Give ‘Em Enough Rope”. Il mixing è in effetti terribile ma non mancano le belle canzoni: This Is England (unico singolo tratto da “Cut The Crap”) è grandiosa e memorabile, la lenta North And South ha una melodia che cattura all’istante (qui Strummer duetta con un altro del gruppo che non ho mai capito chi è…) e Fingerpoppin’ suona come un deciso brano anni Ottanta. Altri pezzi sono (ripeto) divertenti, come We Are The Clash, Dictator e Dirty Punk, altri ancora sono decisamente trascurabili, in particolare Play To Win che è un classico riempitivo.

CURIOSITA’ VARIE
Fingerpoppin’ doveva essere il secondo singolo estratto dall’album ma ormai i Clash erano allo sbando, con Strummer fuori ed i giovani Howard, Sheppard e White praticamente liberi di andarsene.
Bernie Rhodes ha difeso le sonorità del disco, in particolare le sue moderne tecniche di registrazione, asserendo che Madonna stava facendo (negli anni Ottanta) un disco che utilizzava le basi di “Cut The Crap”. – Matteo Aceto

The Clash, “Combat Rock”, 1982

the-clash-combat-rock-immagine-pubblicaScrissi questo post – a metà fra una scheda tecnica & una recensione – sul blog parallelo a Parliamo di Musica, ovvero Parliamo dei Clash… durò poco, tuttavia, e così trasferii il tutto su Pdm… e ora qui!

COMBAT ROCK

CBS, 14 maggio 1982

NOTE
Quinto album da studio dei Clash, dura 46′ e 25”.

FORMAZIONE
Mick Jones (chitarra, percussioni, cori, voce), Joe Strummer (voce, cori, chitarra), Paul Simonon (basso, cori, voce), Topper Headon (batteria, percussioni, piano, basso).

ALTRI MUSICISTI
Ellen Foley (cori), Allen Ginsberg (voce, cori), Futura 2000 (rap, cori), Joe Ely (cori), Gary Barnacle (sax), Tymon Dogg (piano), Poly Mandell (tastiere), Robert De Niro (voce campionata dal film ‘Taxy Driver’).

PRODUZIONE
The Clash.

STUDIO
Electric Lady Studios, New York.

BRANI
1. Know Your Rights (The Clash) 2. Car Jamming (The Clash) 3. Should I Stay Or Should I Go? (The Clash) 4. Rock The Casbah (The Clash) 5. Red Angel Dragnet (The Clash) 6. Straight To Hell (The Clash) 7. Overpowered By Funk (The Clash) 8. Atom Tan (The Clash) 9. Sean Flynn (The Clash) 10. Ghetto Defendant (The Clash) 11. Inoculated City (The Clash) 12. Death Is A Star (The Clash)

STORIA/RECENSIONE
Nella tarda estate del 1981, dopo aver conquistato l’America con una serie di memorabili concerti al Bonds International Casino di New York, i Clash sono nuovamente in studio per dare un seguito a “Sandinista!”. La band inizia a scrivere/provare nuove canzoni in un nuovo quartier generale, gli Ear Studios, siti nella zona ovest di Londra, nei pressi di Notting Hill. Pare che comunque l’atmosfera non fosse delle migliori… Bernie Rhodes, su insistenza di Joe, aveva ripreso il suo posto di manager-ideologo nella band, cosa che irritava profondamente Mick, mentre Topper era sempre più estraniato per via della sua tossicodipendenza. E così, a metà novembre, i Clash e il loro entourage preferiscono trasferirsi nuovamente a New York, ai celebri Electric Lady Studios (li fece costruire Jimi Hendrix, poco prima di morire nel ’71). Qui la band prosegue sulla strada tracciata da “Sandinista!” ma stavolta dando più compattezza al suono complessivo: non più un calderone di stili ma delle canzoni dove potessero fondersi diverse influenze musicali. Nascono così interessanti contaminazioni, uniche nel loro genere, come Overpowered By Funk (attitudine punk applicata alla dance, all’elettronica e al rap), Car Jamming, Straight To Hell, Red Angel Dragnet, Sean Flynn e Ghetto Defendant… non mancano dei brani più diretti che sembrano riportare i Clash alle loro radici, come Know Your Rights e Should I Stay Or Should I Go?, pubblicate rispettivamente come primo e terzo singolo estratti da “Combat Rock”. Per quanto riguarda i testi, il tema dominante del disco è la disillusione e la disfatta dell’America dopo la catastrofe del Vietnam: i reduci ormai straniati ed emarginati dalla società, i ragazzi mandati a morire, la terra vietnamita martoriata dalle bombe, l’imperialismo che corrompe ogni ideale. Le registrazioni newyorkesi dei nostri proseguono fino al giorno di Capodanno, dopodiché la band torna in Inghilterra e successivamente appronta un tour che, per la prima volta, porta i Clash ad esibirsi in Estremo Oriente (in Thailandia, Pennie Smith fotografò la band per le foto di copertina e del materiale promozionale legato a “Combat Rock”). Tra febbraio e marzo 1982, nuovamente a Londra, i Clash tornano ad occuparsi del nuovo album che aveva il titolo provvisorio di “Rat Patrol From Fort Bragg”: materiale sufficiente a riempire due LP buoni che suscitò varie discussioni, piuttosto accese, tra Mick, Joe, Bernie e la casa discografica. Mick, che propendeva per un album doppio con mixaggi che privilegiassero gli aspetti danzerecci delle canzoni, viene infine messo in minoranza dagli altri. Il lavoro di editing e di remixaggio del materiale viene quindi affidato a Glyn Johns (noto produttore/tecnico del suono che annoverava lavori per Beatles, Rolling Stones e Who). Johns, sotto la supervisione di Joe, Bernie e un contrariato Mick, elimina quindi le varie introduzioni e code strumentali delle canzoni, esclude dalla scaletta ben cinque brani (la lunga Walk Evil Talk, The Beautiful People Are Ugly Too, Kill Time, Cool Confusion e First Night Back In London, anche se queste ultime due trovarono posto nei lati B dei singoli), portando la durata del disco dagli oltre settanta minuti originali a poco meno di quarantasette.

A questo punto cambia pure il titolo del lavoro: non più “Rat Patrol From Fort Bragg”, bensì “Combat Rock”, un album che adesso studieremo traccia dopo traccia.

1-2) ‘Questo è un annuncio di pubblico servizio… con la chitarra!’, urla Joe nel pezzo che apre il disco, Know Your Rights, un tirato e scanzonato rock dalle cadenze orientaleggianti. Segue Car Jamming, la storia d’un reduce del Vietnam che tornato in patria diventa un assassino (in sottofondo un ritmo tribal-percussivo irresitibile, con un grande coro a rafforzare il canto di Joe).

3-4) Should I Stay Or Should I Go? è uno dei brani più famosi dei Clash, cantato da Mick mentre Joe si diletta con lo spagnolo nei cori (il ritmo di questa canzone è un azzeccato mix fra sonorità rockabilly e punk). Pure la successiva Rock The Casbah è un altro brano molto famoso: un’atmosfera marcatamente funky-dance che però non lascia adito a dubbi… stiamo sentendo i Clash, e che Clash, gente! Il testo di questa canzone (ah, dimenticavo, la musica è quasi interamente frutto dell’inventiva di Topper) prende in giro il divieto di importare/ascoltare musica rock in alcuni Paesi arabi.

5-6) La compulsiva Red Angel Dragnet è invece cantata da Paul (con delle frasi campionate che Robert De Niro recita in “Taxy Driver”, il noto film di Martin Scorsese del 1976), alle prese con un fatto di cronaca nera. Quella che viene dopo è semplicemente una delle canzoni più belle dei Clash, Straight To Hell: Joe canta delle conseguenze disastrose della guerra nel Sudest asiatico, mentre il resto della band risponde con una grandissima base percussiva e degli effetti musicali da antologia.

7) Overpowered By Funk è invece un bel brano tirato con tanto di rap finale ad opera di Futura 2000 (un artista americano amico dei nostri, per il quale Mick produsse anche un singolo).

8-10) Atom Tan, così come la seguente Sean Flynn e poi ancora Inoculated City sono tre brani molto meno immediati: le sonorità sono più pastose, quasi confuse, come se ci si trovasse in quella giungla così ben rappresentata da un film culto come “Apocalypse Now” (che influenzò molto i Clash, vedi pure Charlie Don’t Surf in “Sandinista!”). Sinceramente sono canzoni che non amo particolarmente e per questo, complessivamente, giudico “Combat Rock” un lavoro inferiore a “London Calling” e a “Sandinista!” (anche se Straight To Hell, Rock The Casbah e Should I Stay bastano da sole a giustificare l’acquisto di questo album).

11-12) Ghetto Defendant è un piacevole brano dalla ritmica quasi reggae, nel quale Joe duetta nientedimeno che con Allen Ginsberg, uno dei massimi esponenti della Beat Generation. La conclusiva Death Is A Star è invece un brano lento, piuttosto disteso, dove Joe e Mick cantano all’unisono su una squisita base pianistica: l’atmosfera complessiva ricorda una canzone da saloon westerniano, anche se l’atmosfera è decisamente notturna.

Concludendo, c’è da dire che “Combat Rock” rappresentò infine il più grande successo di critica e di pubblico in patria: l’album volò al 2° posto della classifica, preceduto solo dal grande ritorno di Paul McCartney con “Tug Of War” (il suo primo disco dall’omicidio di John Lennon). Inoltre, grazie ad un hit trascinante come Rock The Casbah (anche il video era forte), “Combat Rock” portò per la prima volta i Clash nella Top Ten americana.

CURIOSITA’ VARIE
Il brano Sean Flynn è un omaggio al figlio di Errol Flynn (il noto attore hollywoodiano) che, recatosi in Vietnam come fotografo di guerra, risultò disperso e quindi dichiarato morto.
Durante le sessioni di “Combat Rock”, i Clash scrissero ed incisero anche il brano Midnight To Stevens, dedicato a Guy Stevens, il produttore di “London Calling”, morto nell’agosto ’81: è forse la canzone più triste e commovente dei Clash che purtroppo rimase inedita fino al 1991. – Matteo Aceto