Michael Jackson: storia e discografia

(FILES) US pop star and entertainer MichNon l’ho mai negato e non devo certo vergognarmene: a me Michael Jackson è sempre piaciuto. Voglio dire, la sua musica e il suo innegabile talento visionario. Per me, Michael rimane un personaggio legato all’infanzia, agli anni Ottanta, quando rimanevo incantato davanti alla tivù nel vedere i suoi celebri videoclip: Thriller, Beat It, Billie Jean, Dirty Diana, Bad, Smooth Criminal e altri. Però è stato nei Novanta che ho iniziato a comprare i suoi dischi, anche se in quel periodo m’è un po’ crollato il mito per via dei tanti scandali – veri o presunti – che hanno accompagnato il nostro fino alla fine.

Personaggio fra i più eccentrici, carismatici e controversi che la dorata industria del pop-rock abbia mai proposto al grande pubblico, Michael Jackson s’è conquistato nello spazio di pochi anni, e con una manciata di album, un posto di diritto nella storia della musica ma anche del costume e della cultura, influenzando e stregando più d’una generazione. Insomma, piaccia o meno, la presenza di Michael Jackson fa parte del nostro vissuto quotidiano, al pari di altri personaggi leggendari come Elvis Presley, John Lennon o Frank Sinatra.

La storia artistica di Michael Joseph Jackson, nato in Indiana (USA) nel 1958, parte veramente da lontano, quasi quanto la sua stessa vita biologica: infatti a cinque anni già canta nei Jackson 5, un gruppo perlopiù vocale composto da altri quattro fratelli, che entro pochi anni inizierà ad incidere per una major discografica, la celeberrima e prestigiosa Motown. Il nostro è un autentico bambino prodigio, canta, balla e dà spettacolo che è una meraviglia, e in breve tempo cresce anche la sua consapevolezza d’artista: sarà proprio lui, a metà anni Settanta, a volersi slegare dalla Motown perché sentiva il bisogno di svincolarsi dalle imposizioni di manager e produttori. E così, a parte il fratello Jermaine Jackson (sentimentalmente legato alla figlia di Berry Gordy, boss della Motown), i Jackson passano alla Columbia (in seguito acquistata dalla potente Sony), aggiungono un altro fratello, Randy, e l’avventura riparte sotto il nome di The Jacksons.

La vicenda discografica dei Jacksons proseguirà fra enormi successi fino al 1984, quando i sei figli maschi di casa Jackson (ve ne sono altri tre di figli, tre femmine, fra cui la famosa Janet) pubblicheranno l’album “Victory” e ne celebreranno i fasti con un imponente tour mondiale. Nel frattempo Michael ha avuto modo d’oscurare non solo i suoi fratelli ma anche ogni altra star musicale del tempo, grazie allo straordinario successo di “Thriller” (1982), tuttora l’album più venduto di sempre. Ma, a ben vedere, già nel 1979, con l’uscita del suo album solista “Off The Wall”, il nostro ottiene uno strepitoso successo di critica e pubblico (l’album vende dieci milioni di copie in tutto il mondo, mica noccioline…), imponendosi con due grandiosi singoli danzerecci, Rock With You e Don’t Stop ‘Til You Get Enough, e una toccante ballata, She’s Out Of My Life.

Nel corso degli Ottanta, dopo il successo planetario di “Thriller”, Michael Jackson diventa quel re del pop che tuttora molti ricordano come tale, pubblicando l’album “Bad” (1987) e singoli famosi come The Way You Make Me Feel, Man In The Mirror, Bad, Dirty Diana e Smooth Criminal. Inoltre, scrive con Lionel Richie la famosissima We Are The World per un imponente progetto benefico al quale prendono parte le maggior stelle del pop-rock americano del periodo.
Diversi videoclip di Michael figurano celebrità hollywoodiane quali John Landis, Martin Scorsese, Dan Aykroyd e Eddie Murphy, e lui stesso avrà modo di cimentarsi occasionalmente col cinema, in particolare col film musicale di “Moonwalker” (1988).
Impressionante anche la lista di chi, nel corso degli anni, ha suonato e cantato al suo fianco: Stevie Wonder, Paul McCartney, Freddie Mercury, Diana Ross, Barry Gibb, Mick Jagger, i Toto, Quincy Jones, Slash, Eddie Van Halen, Steve Stevens e altri ancora.

Arrivano gli anni Novanta e per Michael Jackson arrivano anche altri successi, come testimoniato dall’album “Dangerous” (1991) e dai suoi singoli estratti: Black Or White, Heal The World, Remember The Time, Jam e In The Closet sono tutti scalatori di classifiche internazionali. Tuttavia sarà proprio a cavallo degli Ottanta e dei Novanta che il grande pubblico prende più a chiacchierare della vita privata di Michael che della sua carriera artistica: il cantante, infatti, si è sottoposto a svariati interventi chirurgici ed estetici, che, di fatto, l’hanno trasformato in un altro. Il suo nome figurerà così più sui tabloid scandalistici che sulle riviste musicali, grazie ad una serie di manie, fobie e stranezze che Michael manifesterebbe in privato e talvolta anche in pubblico.

Nel 1993, infine, la botta finale: Jackson viene accusato e processato per molestie a minori. Processi che si ripeteranno altre volte, per almeno altri dieci anni, con grande attenzione mediatica in tutto il mondo. Qualcosa di vero deve pur esserci ma una colpevolezza effettivamente provata non s’è mai prodotta… per quanto mi riguarda, mi rifiuto di credere che uno come Michael Jackson – la stella della musica che più ha donato in beneficenza – abbia mai violentato un solo bambino.

Nel frattempo la sua musica va avanti, anche se la sua immagine, e quindi la sua credibilità, sono notevolmente compromesse: nel 1995, dopo un chiacchieratissimo matrimonio (durato poco più di un anno) con Lisa Marie Presley, la figlia del celeberrimo Elvis, Michael pubblica il doppio “HIStory“, metà raccolta antologica e metà nuovo album, che riscuote dappertutto un enorme successo. Non così potrà dirsi di “Invincible” (2001) che, dopo l’ottimo singolo You Rock My World, non farà più parlare di sé, divenendo quindi il primo vero flop di Jackson. Un flop da dieci milioni di copie, ovviamente. Seguirà quindi una marea imbarazzante di raccolte e ristampe curate dalla Sony che dura tuttora.

Eccoci infine al 2009: l’anno che avrebbe dovuto segnare il ritorno in grande stile di Michael Jackson – con una residency di concerti a Londra che aveva già fatto segnare il tutto esaurito mesi e mesi prima – che viene ricordato per sempre come quello della fine, il sogno di vedere nuovamente il re del pop senza più macchie né aloni che si traduce nell’incubo di una morte improvvisa che ha letteralmente commosso il mondo intero. Una morte che, se non altro, ci ha fatto capire una volta per tutte quanto è stato importante Michael Jackson per tutti noi. La storia della musica senza un personaggio così, noi non ce la possiamo proprio immaginare [ultimo aggiornamento: 18 settembre 2018].

DISCOGRAFIA SOLISTA 1971-2001: “Got To Be There” (1972), “Ben” (1972), “Music & Me” (1973), “Forever, Michael” (1975), “Off The Wall” (1979), “Thriller” (1982), “Bad” (1987), “Dangerous” (1991), “HIStory” (1995), “Blood On The Dancefloor” (1997), “Invincible” (2001).

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Roger Waters, “Amused To Death”, 1992

roger-waters-amused-to-death-immagine-pubblica-blogTutte le recensioni che nel corso degli anni ho letto di “Amused To Death” concordano almeno su un punto: si tratta del miglior lavoro solista di Roger Waters. Anch’io la penso così, per quanto abbia un debole per il primo album in solitaria del bassista dei Pink Floyd, “The Pros And Cons Of Hitch Hiking” (1984).

“Amused To Death”, terzo album solo per Waters, è in realtà uno dei migliori dischi rock che siano mai stati distribuiti, un lavoro costato cinque anni tra concepimento e realizzazione che, nella sua critica sociale all’uso degenerato dei mass media e alla spettacolarizzazione della guerra resta tuttora attualissimo. Un album di grande lirismo, sorretto da una musica eccezionale e immerso – come tipico nei dischi floydiani – da tutta una serie di grandiosi effetti sonori, anche di raccordo fra un brano e l’altro. Per non parlare poi dei musicisti coinvolti, fra cui i chitarristi Jeff Beck, Tim Pierce, Steve Lukather e B.J. Cole, il bassista Randy Jackson, i batteristi Jeff Porcaro e Graham Broad, il percussionista Luis Conte, il tastierista Patrick Leonard (produttore con lo stesso Waters di questo disco) e la National Philarmonic Orchestra condotta da Michael Kamen.

Le prime canzoni di “Amused To Death” nacquero nelle pause del tour che Roger intraprese per promuovere l’album “Radio K.A.O.S.” (1987), poi fra il 1988 e l’89 pare che il nuovo album – già intitolato “Amused To Death” – fosse finalmente pronto per la pubblicazione. La copertina originale mostrava tre yuppie – dai tratti molto somiglianti a David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright – che annegavano in un cocktail. Poi il progetto fu rimandato a causa d’un cambio d’etichetta discografica e poi ancora Waters fu impegnato con la riproposizione dal vivo dello spettacolo di “The Wall” a Berlino, per festeggiare la caduta del famigerato muro che aveva diviso la città per quasi 30 anni.

Finalmente nel ’91 Waters tornò ad occuparsi di “Amused To Death”: la prima guerra del Golfo che scoppiò fra l’Iraq e il Kuwait (supportato dagli USA) fornì ulteriore ispirazione creativa a Roger, tanto che l’album arrivò alla durata di oltre settanta minuti (un doppio elleppì, quindi, come non si vedeva proprio dai tempi di “The Wall”…). L’album, pubblicato infine nell’estate del 1992, si piazzò nella Top Ten inglese e fu salutato come un capolavoro dalla critica.
In definitiva, concordo con quel discografico della Sony che disse che se avessero potuto scrivere ‘pink floyd’ su quest’album, esso avrebbe venduto venti milioni di copie. Vediamolo un po’ più da vicino…

1) Un album magnifico, “Amused To Death”, che inizia in modo magnifico, con la grande atmosfera di The Ballad Of Bill Hubbard, vagamente reminiscente (nella parte iniziale) di Shine On You Crazy Diamond e superbamente arricchita dalla chitarra di Jeff Beck. Sostanzialmente si tratta d’un brano strumentale ma viene scandito dalla voce d’un reduce della Prima guerra mondiale, Alf Razzell, che parla d’un soldato morto in quel conflitto, Bill Hubbard, al quale questa canzone e tutto l’album sono dedicati.

2) Edita come primo singolo estratto dall’album, What God Wants, Part I è uno dei pezzi forti di “Amused To Death”, grazie al suo accattivante rock-blues. E’ in realtà una delle canzoni più coinvolgenti del Waters solista e parla di come tutte le cose che ci sono in questo mondo, buone o cattive che siano, sono sempre dovute al volere di Dio.

3-4) La musica e l’atmosfera complessiva di Perfect Sense, Part I sono assolutamente grandiose: un morbido tappeto percussivo, un sognante giro di piano, effetti d’ogni sorta e soprattutto un’emozionante staffetta vocale fra Roger Waters e P.P. Arnold, a lungo corista del nostro nei suoi tour. Segue la Part II della stessa canzone, un’epica ballata rock che si discosta molto dalla Part I ma che continua lo scambio vocale fra Waters e la Arnold.

5) The Bravery Of Being Out Of Range è un disteso ma a suo modo epico brano rock, fra le migliori canzoni mai proposte dal Waters solista; il testo è l’ennesima condanna del nostro alla stupidità della guerra.

6-7) Assolutamente magnifica la sequenza fra la Part I e la Part II di Late Home Tonight, un capolavoro dentro il capolavoro. Se la prima è un pezzo vivace che parte su toni country e conclude con un rocambolesco sound afro, la seconda è una dolente composizione dove la mesta voce di Roger si staglia sul solenne canto di una tromba.

8) Altro pezzo memorabile, Too Much Rope è in realtà uno dei brani più spettacolari che io abbia mai sentito! Pieno d’effetti sonori di grande atmosfera – i colpi di un taglialegna, una diligenza trainata tra gli scampanellii, l’ululato d’un lupo in lontananza, il rombo d’una Ferrari e altro ancora – Too Much Rope è una condanna all’umana avidità, con il tono che diventa più rabbioso mentre la canzone volge al termine.

9-10) Eccoci finalmente alla Part II di What God Wants, stilisticamente simile alla Part I ma meno rock e più meditabonda. Segue la Part III della stessa canzone, una stupenda ballata rock che musicalmente ha ben poco a che vedere le altre due parti: il canto di Waters alterna rabbia, cinismo, dolore e commozione, mentre a 1 minuto e 48 secondi dall’inizio parte un superbo assolo di Jeff Beck che contribuisce a rendere questa What God Wants, Part III una delle vette artistiche di Roger Waters, con o senza i Pink Floyd.

11) Cantata in duetto con Don Henley degli Eagles, Watching T.V. è una curiosa fusione fra il country e la musica orientale: l’impiego di strumenti tradizionali della musica cinese è più che appropriato in quanto il testo di questa canzone cita i tragici fatti di Tien An Men del 1989, tuttavia preferisco il country della parte iniziale, dove è un vero piacere sentire Don e Roger cantare nello stesso microfono.

12) Il cavernoso blues psichedelico di Three Wishes sembra rifarsi ad alcune sonorità di “Wish You Were Here” (1975) e “Animals” (1977). E’ un brano intenso, con un ritornello abbastanza orecchiabile, forse però tirato troppo per le lunghe… è stato comunque editato per la pubblicazione su singolo.

13) Anche la successiva It’s A Miracle pecca un po’ di prolissità ma la sua tetra atmosfera – a metà fra una processione e un epico brano ambient – la rende una delle canzoni più impressionanti di Roger Waters, anche grazie a Jeff Porcaro e Jeff Beck che sul finale scuotono i loro strumenti musicali con grande intensità.

14) La conclusiva Amused To Death è invece composta da due temi principali: dopo una prima parte più dolce – cantata in duetto fra Roger Waters e Rita Coolidge – segue a quasi 4 minuti e mezzo dall’inizio una sezione decisamente più rock. Il finale torna quindi alla placida atmosfera iniziale, con tanto di effetti sonori che concludono il disco su toni di malinconia e, forse, di rassegnazione. – Matteo Aceto