David Bowie, “Lodger”, 1979

DAVID BOWIE LODGER immagine pubblicaEro convinto d’aver già dedicato, in passato, un post a “Lodger”, l’album di David Bowie del 1979. Rimettendo ordine fra i miei vecchi scritti (nel corso del mese sono riuscito finalmente a recuperare quanto pubblicato tra il 2006 e il 2011, o almeno i post più decenti, ecco) ho invece constatato una stridente assenza. Forse ne avevo tentato più volte la bozza, nel corso degli anni, resta il fatto che su Immagine Pubblica non ho mai speso pubblicamente due parole – per quello che possono valere – a proposito di “Lodger”.

Considerato il capitolo conclusivo della celeberrima “trilogia berlinese” di David Bowie, “Lodger” non c’entra un bel nulla con Berlino. E’ stato principalmente registrato nello studio svizzero dei Queen, gli ormai famosi Mountain Studios di Montreux, più una serie d’incisioni finali (soprattutto per quanto riguarda le parti vocali) effettuata a New York. Anche la concezione di base di “Lodger” si discosta parecchio dai due album che l’hanno preceduto, ovvero “Low” e “Heroes“: se questi ultimi presentavano grosso modo i brani cantati e più convenzionalmente pop sulla facciata A, lasciando così quelli strumentali e più sperimentali sulla facciata B dei vinili originali, in “Lodger” non soltanto questa distinzione non viene applicata ma sono del tutto assenti i pezzi strumentali.

Ad ogni modo, similitudini stilistiche e sonore tra i tre dischi in questione sono però evidenti, anche perché sostanzialmente sono il frutto della creatività delle stesse tre menti: il musicista e compositore Brian Eno, il produttore Tony Visconti e ovviamente lo stesso David Bowie. Mettendo per un momento da parte il buon Visconti, che ha prodotto dischi per Bowie sia prima che dopo quelli della “trilogia berlinese”, ecco che la vera e propria trilogia – se proprio di trilogia vogliamo parlare – è quella realizzata dal duo Bowie-Eno nella seconda metà degli anni Settanta, tre magnifici album appunto chiamati “Low”, “Heroes” e “Lodger”. Sgombrato il campo dagli equivoci (mi sembra d’aver scritto per uno di quegli orrendi trattati sociologici che mi toccava studiare all’università…), passiamo ora a vedere “Lodger” un po’ più da vicino.

Trilogico o meno, “Lodger” è un gran disco, uno dei migliori che si possano trovare nella discografia di David Bowie. In perfetto equilibrio tra commercialità pop e sperimentazione d’artista, quest’album originariamente edito dalla RCA quasi quarant’anni fa è uno di quei rari casi in cui ogni ascolto sembra rivelarci qualcosa di nuovo, come se avessimo il disco fra le mani solo da qualche giorno e non, come nel mio caso, da decenni. Ogni volta che l’ascolto, voglio dire, mi sembra di sentirlo differente da come me lo ricordavo: dieci brani per trentacinque minuti di musica che spaziano dalla ballad pianistica di Fantastic Voyage, il sublime pezzo d’apertura di “Lodger”, al funk-rock robo(ipno)tico di Red Money (posto a chiusura dell’album, proprio esso che apriva le danze in “The Idiot” di Iggy Pop con il titolo di Sister Midnight e tutt’altro testo), passando per veri e propri antesignani della world music che verrà negli anni Ottanta (African Night Flight, Move On e Yassassin) e delizie pop-rock che restano tra i brani più riusciti e apprezzati di Bowie (Look Back In Anger, Boys Keep Swinging e D.J.).

Su “Lodger” ci sarebbe molto altro da dire (anche dell’inquietante veste grafica), ma in attesa di sviluppi futuri per ora mi fermo qui. Sviluppi futuri perché quest’anno dovrebbe vedere la luce il terzo d’una serie di lussuosi cofanetti comprendente l’intera produzione di David Bowie: dopo aver pubblicato “Five Years (1969-1973)” nel 2015 (dodici ciddì o tredici vinili) e “Who Can I Be Now? (1974–1976)” l’anno dopo (sempre dodici ciddì o tredici vinili), la Warner Bros (la casa madre che attualmente detiene i diritti di edizione sui dischi bowiani) dovrebbe infatti distribuire un altro cofanetto con presumibilmente una decina buona di dischi del periodo 1977-1980, tra i quali figura quindi anche “Lodger”. Ecco, spero proprio che il box contenga qualche succosa versione alternativa dell’album, qualcosa che ci faccia ulteriormente appassionare a un lavoro sempre un po’ ingiustamente sottovalutato e che magari ci racconti la sua storia da angolazioni sonore inedite. Avremo modo di riparlarne. — Matteo Aceto

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David Bowie, “Low”, 1977

david-bowie-low-immagine-pubblica-blogPrimo album della celeberrima trilogia berlinese assieme a “Heroes” (1977) e “Lodger” (1979), “Low” (1977) è semplicemente uno dei dischi di David Bowie che più amo, ed è inoltre quello che ritengo il migliore dei tre. E’ un lavoro che in questo 2017 ha già compiuto quarant’anni ma che resta ancora moderno, concettualmente interessante e, cosa ancora più importante, musicalmente godibile.

In realtà inciso più in Francia che in Germania, la genesi di “Low” può partire tuttavia dagli Stati Uniti, dove un Bowie decadente di ventotto anni, tra eccessi e follie, è comunque impegnato su due fronti col film “L’uomo che cadde sulla terra”: ne è infatti sia l’attore protagonista che l’autore della colonna sonora. Nonostante le buone intenzioni, tuttavia, quest’ultima non verrà portata a termine, con i nastri originali che verranno “riciclati” per il successivo progetto discografico di David, per l’appunto “Low”.

Supportato dagli ottimi Dennis Davis (batteria, percussioni), Carlos Alomar (chitarra) e George Murray (basso), Bowie si affida inoltre ad altri due preziosissimi collaboratori, ancora una volta al geniale produttore Tony Visconti e per la prima volta a quel mago delle ambientazioni sonore che è Brian Eno. Completato già nel corso del ’76, “Low” vide la luce soltanto l’anno dopo, giacché la casa discografica, la RCA, lo riteneva troppo d’avanguardia e quindi poco appetibile commercialmente.

David mette subito le cose in chiaro fin dal primo brano: Speed Of Life è uno strumentale funk-rock pesantemente contaminato dai suoni elettronici, una sorta d’introduzione che fa già capire fin dove si è spinta la ricerca musicale di Bowie rispetto al suo celebrato glam rock dei primi anni Settanta. La secca & percussiva Breaking Glass è invece cantata, ma gli innesti elettronici non mancano, così come i cambiamenti di tempo, col tutto che si traduce in una forma canzone che travalica i confini standard del pop-rock.

Se la briosa e avvolgente What In The World è in pratica un piacevolissimo duetto tra David Bowie e Iggy Pop, la successiva Sound And Vision (uno dei singoli estratti dall’album e, per la cronaca, una delle mie canzoni bowiane preferite) presenta un ritmo delizioso, arricchito da campionamenti, atmosfere elettroniche & una grande prestazione vocale del nostro; alla voce troviamo la moglie di Visconti, quella Mary Hopkin nota soprattutto per Those Were The Days. Più distesa è invece Always Crashing In The Same Car, anch’essa caratterizzata da ritmica pesante ed effetti tecnologici in primo piano. Segue quindi una gran bella canzone, Be My Wife, forse la più convenzionale del disco (infatti è stata pubblicata pure su singolo), forte d’un ritornello in stile disco & da viscerali assoli di chitarra.

A New Career In A New Town, un saltellante strumentale contraddistinto dall’uso trattato dell’armonica a bocca (suonata dallo stesso Bowie), funge da introduzione al lato più sperimentale di “Low” (sull’elleppì originale è l’intero lato B), che parte con quella che secondo me è la traccia migliore dell’album, ovvero Warszawa: questo stupendo requiem composto dal duo Bowie-Eno (e credo interamente eseguito da esso) in onore della capitale polacca – effettivamente visitata in treno dal nostro – è semplicemente una delle canzoni più belle & suggestive del catalogo bowiano. Senza voler sminuire il resto del lavoro, forse la sola presenza di Warszawa giustifica l’acquisto di “Low”.

Completamente strumentale, Art Decade ci regala un’ambientazione alquanto notturna & meditabonda, sembra proprio una colonna sonora, seguìta a sua volta da Weeping Wall, ancora più interessante: l’uso simultaneo di percussioni e tastiere sembra ricordare un effetto di pioggia che cade a catinelle sul muro di Berlino, mentre uno straziante & lontano assolo di chitarra sottolinea la tetraggine del paesaggio circostante. Seppur strumentale, in Weeping Wall la voce di Bowie è chiaramente udibile, e anche in questo caso – come in Warszawa – usata come se fosse uno strumento essa stessa.

Un disco straordinario come “Low” non poteva che concludersi con un brano straordinario, ovvero Subterraneans, un’altra sorta di requiem. E’ un brano dolente, malinconico ma anche imponente, col sax e la voce di Bowie che eseguono delle parti evocative e struggenti. E i testi? Tutte le liriche di “Low” sono più o meno attraversate dal male di vivere, dal disagio e da una certa depressione; non manca tuttavia la voglia di riscattarsi e di trovare una vita d’uscita, magari proprio attraverso la musica e l’arte [novembre 2006, aggiornato nel febbraio 2017]. – Matteo Aceto

Lou Reed, “Berlin”, 1973

lou-reed-berlin-immagine-pubblica-blogQuesto è uno di quei dischi che sentirò sì & no due volte l’anno, seppur non ho alcuna intenzione di separarmene. Sì, perché deprimente è deprimente. E’ stato più volte votato come uno degli album più tristi mai pubblicati, e concordo con l’opinione generale. Sto parlando di “Berlin”, uno dei grandi capolavori solistici di Lou Reed, e uno dei dischi di più difficile catalogazione e valutazione.

All’epoca, quando uscì sul mercato discografico nel lontano 1973, “Berlin” fu un flop clamoroso, ancor di più se paragonato al successo ottenuto dall’album precedente, “Transformer“. C’è da dire che “Berlin” – che commerciale non lo è per niente – ebbe una gestazione travagliata: il progetto originale prevedeva un doppio elleppì, per una durata complessiva del lavoro prossima alle due ore. La casa discografica, la RCA, intuendo lo scarso appeal commerciale del disco, intimò a Lou Reed e al produttore Bob Ezrin di accorciare notevolmente l’album. Ed ecco quindi il triste concept album di Lou Reed – sulla coppia tossica Jim & Caroline nella Berlino all’ombra del muro – ridotto a cinquanta minuti scarsi, con tutto ciò che ne conseguì.

Come altre opere legate a Lou Reed, però – in primis penso al debutto discografico dei Velvet Underground, quello dalla celebre copertina con la banana – anche “Berlin” suonava un po’ troppo avanti per i suoi tempi e così, col passare degli anni, l’album ha finalmente ottenuto quello status di grande opera rock che oggi tutti (critici e semplici appassionati) gli riconoscono. In particolare, nel 2007, Reed è andato in giro per il mondo con la riproposizione dal vivo del suo “Berlin”, suonandolo nella versione lunga originariamente concepita.

Ma che cos’ha “Berlin” che non va? Niente, solo che è sostanzialmente lento, triste, cupo, parla di droga, di suicidio, di prostituzione, di disperazione e di allontanamento dei bambini dalla custodia dei propri genitori, il tutto condito da una certa dose di cinismo, tipica dell’autore. Dal punto di vista musicale suona quasi come una lunga suite nella quale sono abilmente fusi elementi blues, rock, progressive e cabarettistici. Gli arrangiamenti sono curatissimi – Boz Ezrin in questo è un mago – e i musicisti che vi prendono parte sono bravissimi (fra cui Jack Bruce dei Cream, Steve Winwood, i fratelli Michael e Randy Brecker, e Tony Levin) e l’ascolto dell’album è tutto fuorché indifferente.

Il problema principale è che un disco come “Berlin” non lo si mette come sciocco sottofondo mentre, che so, pittiamo una parete, così come non lo ascoltiamo mentre siamo alla guida o, peggio ancora, diamo una festicciola in casa. “Berlin” è un album che richiede attenzione, interesse e voglia d’immergersi nei bassifondi dell’umana coscienza. Prendetevi cinquanta minuti di tempo, spegnete il cellulare, abbassate le tapparelle e mettetevi comodi, queste sono le dieci canzoni che compongono l’album…

  1. Berlin
  2. Lady Day
  3. Men Of Good Fortune
  4. Caroline Says I
  5. How Do You Think It Feels
  6. Oh, Jim
  7. Caroline Says II
  8. The Kids
  9. The Bed
  10. Sad Song

… e buon ascolto! – Matteo Aceto

Iggy Pop, “The Idiot”, 1977

iggy-pop-the-idiot-immagine-pubblica-blogAvendo avuto l’oscuro piacere d’ascoltarlo ieri notte, oggi pomeriggio mi sembra proprio l’occasione buona per parlare di uno dei miei album preferiti, “The Idiot”. Il disco in questione, pubblicato dalla RCA nel 1977, è accreditato a Iggy Pop, anzi è il suo primo vero album solista dopo lo scioglimento degli Stooges.

In realtà “The Idiot” è un’opera nata dalla collaborazione tra due enormi talenti che apprezzo moltissimo: Iggy Pop, ovviamente, e l’immenso David Bowie, che produce l’album. Bowie, inoltre è coautore di tutte le canzoni, suona il piano, le tastiere & il sax, contribuisce ai cori e mixa il tutto. Altra aspetto interessante: si parla spesso del periodo berlinese di Bowie, che ha fruttato la splendida trilogia di “Low” (1977), “Heroes” (1977) e “Lodger” (1979), ma bisogna considerare che anche “The Idiot” è stato inciso a Berlino, nel corso del 1976, mentre Bowie incideva il suo “Low”. A questo punto si tratta d’un poker fantastico di album berlinesi… certo, aggiungendovi “Lust For Life” (il seguito di “The Idiot”) ed escludendo “Lodger” che in realtà non è stato registrato a Berlino… ma la cosa si complica, per cui passiamo per ora ad una breve recensione del solo “The Idiot”.

Si parte con un brano piuttosto notturno, chiamato inequivocabilmente Sister Midnight: con le parti di chitarra di Carlos Alomar in bell’evidenza, la canzone è una lenta danza ipnotica che fa subito capire con quale tipo di sonorità abbiamo a che fare in questo lavoro. Segue il rock strisciante ma irresistibilmente funky di Nightclubbing, una delle canzoni più coinvolgenti di Pop, che forse molti ricordano nella colonna sonora del film “Trainspotting”. Poi è la volta di Funtime, un trascinante brano funk-punk dove si sente chiaro & forte il coro di Bowie; anche questa canzone verrà inclusa in una colonna sonora, per il film “Miriam Si Sveglia A Mezzanotte”, interpretato dallo stesso Bowie con una bellissima Catherine Deneuve.

Il quarto brano è Baby, sintetico & tenebroso ma assolutamente irresistibile e molto melodico, seguìto da una delle canzoni che più amo, China Girl: invito calorosamente tutti quelli che vogliono conoscere Iggy Pop ad ascoltare questo brano di rock decadente ad alto volume. China Girl resta una delle migliori creazioni del duo Pop-Bowie, forte d’un testo interpretato con la tipica sfrontatezza di Iggy ma adagiato su una musica potente ed innovativa al tempo stesso, tipica del Bowie di quegli anni. Poi è la volta della pesante Dum Dum Boys, la canzone più convenzionalmente rock del disco, anche qui col coro di Bowie ben evidente (sul canale destro degli speaker) e poi ancora c’è Tiny Girls, una breve & struggente ballata dall’andamento circolare, con il sax di David come principale protagonista. Gli oltre sette minuti della ben più elettronica Mass Production chiudono l’album su note dissonanti che ci regalano un testo colmo di sarcasmo, in quella che è un’epica espressione fifty-fifty fra Bowie e Pop.

L’atmosfera complessiva di “The Idiot” è notturna, cupa & opprimente, coi testi sempre in bilico tra disperazione & sarcasmo. Il tutto suona incredibilmente avanti per i suoi tempi: come per gli album “Low” e “Heroes” di Bowie, “The Idiot” sembra un disco inciso negli anni Ottanta (prestare attenzione al suono della batteria, in particolare), un lavoro davvero straordinario, forse un po’ sottovalutato ma fra i migliori che io possegga nella mia collezione di dischi.

Per finire, alcuni aneddoti… Sister Midnight è stata ripresa da Bowie per il suo album “Lodger”, dopo averne riscritto il testo e presentandola quindi col nome di Red Money. Bowie ha anche riproposto China Girl: la sua è una cover magnifica che s’avvale di musicisti d’eccezione (si trova sull’album “Let’s Dance” del 1983), mentre il buon David sfoggia una delle sue migliori prove vocali. Peter Murphy dei Bauhaus chiude il suo album del 1988, “Love Hysteria”, con una bella cover di Funtime, mentre Martin Gore dei Depeche Mode ripropone una suggestiva versione di Tiny Girls nel suo album “Counterfeit2” (2003). Ultimo aneddoto, piuttosto macabro… prima di togliersi la vita, Ian Curtis, il cantante dei Joy Division, ascolta “The Idiot” e mentre questo compie trentatrè giri lui decide di farla finita. – Matteo Aceto