Johnny Cash, “Unearthed”, 2003

johnny cash, unearthed, 2003, immagine pubblica blogDegli innumerevoli cofanetti multiciddì pubblicati dal 2000 ad oggi, e dei parecchi che in tutti questi anni ho avuto il piacere di collezionare, uno dei più godibili resta per me “Unearthed” di Johnny Cash, un quintuplo ciddì originariamente pubblicato dalla American Recordings di Rick Rubin pochi mesi dopo la morte del celebre artista americano, avvenuta il 12 settembre 2003.

“Unearthed”, a ben vedere, rappresenta quindi un vero e proprio testamento artistico: si tratta d’un cofanetto formato da quattro splendidi dischi di materiale inedito (nel 2003) registrato da Johnny Cash nel corso degli ultimi dieci anni di carriera (e quindi negli ultimi dieci anni di vita), quando appunto sotto l’egida di Rick Rubin il nostro visse una autentica rinascita artistica. C’è però, come detto sopra, un ulteriore quinto disco in “Unearthed”: si tratta d’un best of tratto dai quattro album che Cash aveva inciso per l’American, condensato in quindici magnifici brani che da Delia’s Gone giungono fino a quel capolavoro di commozione chiamato Hurt, cover dei Nine Inch Nails che meriterebbe un post a sé, passando per Bird On The Wire di Leonard Cohen, Rusty Cage di Chris Cornell, One degli U2 e The Man Comes Around dello stesso Cash.

Trattandosi sostanzialmente d’una raccolta di brani già editi e comunque di facile reperibilità, questo quinto disco di “Unearthed” – per quanto sensazionale all’ascolto – resta però il meno interessante dal punto di vista storico. Il vero tesoro che è stato dissotterrato (questo il significato letterale del titolo) dagli archivi American è infatti tutto nei primi quattro dischi del box: brani inediti, versioni alternative di altri già precedentemente editi, duetti (alcuni davvero d’antologia), esecuzioni per sole voce & chitarra (il solo Johnny Cash che canta imbracciando la sua chitarra basta già a fare spettacolo), esecuzioni con band di supporto (e in alcuni casi con tanto di orchestra), nuove versioni di brani che il nostro aveva registrato decenni prima, cover da brividi di canzoni altrui che in non pochi casi sono forse superiori alle versioni originali (come Pocahontas e Heart Of Gold di Neil Young, tanto per dirne qualcuna).

Ad ogni modo, il materiale di “Unearthed” è suddiviso in ordine tematico, con tanto di titolo per ogni disco; e così, se il primo si chiama “Who’s Gonna Cry” e contiene cinquanta minuti buoni d’un Cash in solitaria alle prese con canzoni come la tenebrosa Long Black Veil e la rivisitazione d’un originale d’annata chiamato No Earthly Good, il secondo si chiama “Trouble In Mind” e vede il nostro accompagnato da una schiera di musicisti davvero d’eccezione – Carl Perkins, i Red Hot Chili Peppers, Tom Petty e i suoi Heartbreakers, Willie Nelson e Waylon Jennings, amico di una vita, oltre a June Carter, ovvero l’amata signora Cash – e alle prese con pezzi come I’m A Drifter, I’m Moving On, Everybody’s Trying To Be My Baby e la stessa Trouble In Mind.

E se il terzo ciddì, chiamato “Redemption Songs”, offre – tra le altre – cover preziose come Father And Son, Wichita Lineman, Redemption Song e Gentle On My Mind e si avvale d’un altro gran cast di collaboratori (tra cui Joe Strummer, Nick Cave e Glen Campbell), il quarto ciddì, chiamato “My Mother’s Hymn Book” è un vero e proprio “nuovo” album di Johnny Cash, inedito in questo cofanetto al momento della sua prima pubblicazione, ovvero in quel 2003. Con brani molto corti, per un disco che comunque non arriva ai quaranta minuti, “My Mother’s Hymn Book” è un lavoro acustico formato da spiritual, inni e canti religiosi della tradizione americana, tutti reinterpretati dall’inconfondibile stile country di Johnny Cash.

Di recente, considerando il vigoroso revival del vinile, l’American ha ristampato tutto il box “Unearthed” in tale intramontabile formato discografico. Ci avevo fatto anche un pensierino, lo ammetto, ma il prezzo era abbastanza esagerato per portarmi a casa ciò che nel mio caso sarebbe un costoso doppione. Ve lo consiglio, tuttavia, se non avete nessuna edizione d’un box come questo “Unearthed” che, a mio modesto avviso, resta non solo un acquisto necessario per ogni appassionato di Johnny Cash ma anche un cofanetto facilmente apprezzabile da qualsiasi amante di buona e onesta musica pop-rock. – Matteo Aceto

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Jane’s Addiction, “Nothing’s Shocking”, 1988

janes-addiction-nothings-shocking-immagine-pubblica-blogAscrivibile alla categoria “alternative rock” quando il termine stesso non aveva ancora un senso (ammesso poi che l’abbia mai avuto), “Nothing’s Shocking” dei Jane’s Addiction è stato pubblicato in un periodo, la fine degli anni Ottanta, che non vedeva ancora l’esplosione a fenomeni di massa di gruppi come Red Hot Chili Peppers o Nirvana, mentre i Guns N’ Roses spadroneggiavano come gli ultimi eredi della grande tradizione delle rock band dure & pure. Una nuova scena musicale stava maturando in quei tardi anni Ottanta negli Stati Uniti, e i Jane’s Addiction con questo “Nothing’s Shocking” sono i principali protagonisti di quella rivoluzione sonora che tanto ha influito – nel bene e nel male – sulla musica del decennio successivo e anche oltre. Vediamo questo potente e vigoroso album più da vicino, canzone dopo canzone.

Grazie all’originale fusione di sonorità dark e psichedeliche, l’atmosferico Up The Beach, brano perlopiù strumentale, è un inizio da brividi: comincia il lento e solleticante basso di Eric Avery finché, quando la possente batteria di Stephen Perkins prende a marcare il ritmo, la chitarra di Dave Navarro ci trasporta in una dimensione sospesa nel tempo, con Perry Farrell che canta la parola ‘home’ a più riprese.

Segue Ocean Size, la canzone che qui preferisco: introdotta da un dolce arpeggiare di chitarra acustica, dopo qualche secondo si scatena il finimondo, col pezzo che si mostra per quello che è, vale a dire uno splendido hard rock, con la tagliente voce di Farrell in primo piano e i tormentati assoli di Navarro a scuotere il tutto. Segue a sua volta la nervosa e trascinante Had A Dad, caratterizzata da un’irrequieta ma compatta parte di batteria sulla quale si dimenano magnificamente il basso, la chitarra ritmica, la chitarra solista e la voce incattivita di Perry.

Il ritmo rallenta con Ted, Just Admit It… dove il Ted in questione è il serial killer Ted Bundy: l’inizio del brano è superbo, con quell’incedere di percussioni nel quale s’inserisce poco dopo il pulsante basso in stile dub di Avery; se la prima parte della canzone è alquanto distesa, a due minuti e mezzo dalla fine (coi suoi sette minuti e passa, Ted è il brano più lungo del disco) si metallizza di brutto, proponendoci quindi un finale infuocato dove Farrell urla più volte ‘sex is violent’ e la chitarra di Navarro è più tagliente che mai.

E se con Standing In The Shower… Thinking abbiamo una interessante e vivace fusione di rock & funk, con la seguente Summertime Rolls ci godiamo invece il momento più rilassato dell’album, grazie a una cullante melodia che ci estranea dalla realtà per ben sei minuti; belli & pigri i lunghi assoli di Dave, grandi inoltre i tocchi di Eric al suo basso, che contribuiscono enormemente al sound dei Jane’s Addiction. Ed è sempre il basso di Avery che c’introduce il pezzo successivo, Mountain Song, uno dei più celebri e rappresentativi della nostra band (ascolta QUI), caratterizzato da un coriaceo tempo medio dove il rock duro attraversa le atmosfere più rarefatte della psichedelia e la voce di Farrell è spettacolarmente carica d’eco. Segue la redchilipepperesca Idiots Rule – tanto che vi suona la tromba proprio un componente dei RHCP, ovvero Flea – una canzone vivace ma leggermente nervosa.

E’ quindi la volta della melodica Jane Says, la canzone che probabilmente resta ancora la più conosciuta dei Jane’s Addiction; grazie alle sue gentili parti di chitarra acustica (suonate sia da Avery che da Navarro) e all’assenza della batteria, Jane Says rappresenta il momento più gradevolmente pop dell’album. Chiude quindi Thank You Boys, un minuto esatto d’improvvisazione jazzistica strumentale dove Farrell ringrazia i ragazzi che alla fine applaudono. Questa la versione in elleppì di “Nothing’s Shocking”, mentre il ciddì include una canzone ulteriore, la dura Pig’s In Zen, altro brano dove al basso di Avery è riservato un ruolo da protagonista, lasciando però spazio alla chitarra di Navarro di prodigarsi in scintillanti assoli.

Pubblicato dalla Warner Bros e prodotto da Dave Jerden, “Nothing’s Shocking” ha tuttora un suono incredibile sia per potenza che per modernità, frutto della miscela esplosiva di tre eccezionali musicisti e di un cantante sempre un po’ fuori dalle righe ma forte di una voce più unica che rara. Una miscela esplosiva che si rivelò letale per gli stessi Jane’s Addiction già all’indomani della pubblicazione dell’atteso seguito di “Nothing’s Shocking”, ovvero quell’altro capolavoro irrinunciabile dell’alternative rock chiamato “Ritual De Lo Habitual” (1990), del quale mi piacerebbe parlare prossimamente in un apposito post.

Lo scioglimento della band e gli immancabili problemi di droga dei suoi componenti spazzarono ingiustamente il nome Jane’s Addiction dal campo dei protagonisti del rock anni Novanta, spianando forse la strada a gruppi come Nirvana e Pearl Jam. Di recente, con la band nuovamente attiva e in giro per concerti in America, Perry Farrell si è concesso il lusso di farsi intervistare nientemeno che dal Wall Street Journal: se non si fossero sciolti una prima volta in quell’esaltante ma funereo 1991, i Jane’s Addiction avrebbero potuto vendere più dischi dei Guns N’ Roses. E’ il parere di Farrell dopo oltre un quarto di secolo dal fattaccio, e io nel mio piccolo lo sottoscrivo in pieno [scritto nel giugno 2007, aggiornato nel febbraio 2017]. – Matteo Aceto

Red Hot Chili Peppers, “The Getaway”, 2016

red hot chili peppers the getawayOscure necessità mi hanno portato nelle ultime settimane ad ascoltare ripetitivamente e ossessivamente Dark Necessities, l’ultimo singolo dei Red Hot Chili Peppers, apripista dell’album “The Getaway”, fresco fresco d’uscita. Un’uscita che ho subito fatto mia, pur non essendo mai stato un fan dei Red Hot Chili Peppers. Sarà un caso ma ogni dieci anni, evidentemente, sento il bisogno d’andarmi a comprare il disco che i nostri hanno pubblicato al momento: nel 2006, a pochi giorni dall’uscita, andai infatti a prendermi “Stadium Arcadium”, così come l’altro ieri sono andato a procurarmi la mia bella copia di “The Getaway”.

Tra questi due album, usciti come s’è detto a un decennio esatto di distanza, le differenze sono notevoli: in quest’arco temporale i Red Hot Chili Peppers non solo hanno perso (di nuovo) il chitarrista John Frusciante ma hanno smesso anche di collaborare con quello che può essere considerato il loro produttore storico, Rick Rubin. Al loro posto troviamo, rispettivamente, Josh Klinghoffer (che mi sembra decisamente meno bravo di Frusciante) e Danger Mouse (che mi sembra decisamente più interessante di Rubin). Il risultato è un disco ben fatto, uno di quelli che probabilmente migliorano con gli ascolti, distante dalla produzione “classica” dei Red Hot Chili Peppers ma al tempo stesso inconfondibilmente peppersiano. Voglio dire, la voce di Anthony Kiedis e il basso di Flea, gli unici elementi sempre presenti in tutti gli album dal debutto ad oggi, sono due marchi di fabbrica riconoscibilissimi, per cui le eventuali varianti di volta in volta in gioco sono influenti fino a un certo punto.

E così in “The Getaway” i Red Hot Chili Peppers si sono dilettati a contaminare il loro caratteristico sound fatto di rock (a volte tendente all’hard) e funk con sonorità vicine al melodico, al soul, al reggae e all’elettronica. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, penso proprio che Danger Mouse abbia detto parecchio la sua, finendo con l’essere di fatto il quinto componente della band: la sua elettronica dal tocco morbido e saltellante, seppur sempre un po’ robotico (come non ricordare quel successone dei Gnarls Barkley chiamato Crazy?), è evidentissima in tutto l’album. L’iniziale The Getaway ha proprio questo taglio, ed è irresistibile fin dalle prime note; le segue la mia favorita, Dark Necessities, con quel suo basso carnoso, il ritornello d’ampio respiro e i coretti soul. La successiva We Turn Red ha un incedere pesante e minaccioso che mi ricorda un po’ i Public Image Ltd, tuttavia nei ritornelli si assiste a un totale cambio d’atmosfera, innegabilmente peppersiana.

“The Getaway” procede quindi con la contemplativa The Longest Wave, con la pulsante Goodbye Angels (che mi ricorda le sonorità del disco dei The Good, The Bad & The Queen, anch’essi prodotti a loro tempo da Danger Mouse), col soft rock di Sick Love (dove figura nientemeno che Elton John, seppure il suo contributo – al piano – non sembra così evidente in questa che è comunque una rivisitazione della sua Benny And The Jets) e con il coinvolgente elettrofunk di Go Robot, candidato a prossimo singolo.

E se i successivi Feasting On The Flowers, Detroit e This Ticonderoga sono tre brani in cui via via l’uso della chitarra si fa più pesante, ricollegandosi in qualche modo al sound più “abituale” dei nostri, la sognante Encore sembra provenire quasi da un’altra band, non soltanto per la sua melodicità ma anche per i suoi accenti reggae. Chiude il tutto il soul un po’ psichedelico di The Hunter, seguito infine dalla bluesy Dreams Of A Samurai, anch’essa vagamente psichedelica, lasciando forse intravedere una strada futura per quanto riguarda il sound dei nostri.

Ora, volendo chiudere con qualche considerazione finale, posso dire che “The Getaway” è un disco sicuramente interessante, a tratti decisamente bello, e comunque consistente, che si lascia ascoltare con piacere dalla prima all’ultima canzone. Potrà spiazzare molti fan storici, potrà conquistarne di nuovi o farne riavvicinare quelli mentalmente più aperti, ma sono certo che “The Getaway” non lascerà indifferente nessuno. Insomma, se assumendo Danger Mouse alla produzione i Red Hot Chili Peppers volevano stupire, con questo disco ci sono riusciti benissimo. Bella anche la copertina, dimenticavo! – Matteo Aceto

Altre canzoni, altre citazioni musicali

Stevie Wonder Sir Duke immagine pubblicaDopo un post che riportava alcune autoreferenze musicali fra (ex) componenti d’una stessa band, ora vediamo quali brani si riferiscono – più o meno direttamente – a cantanti, gruppi o componenti di band esterne all’artista che canta e/o scrive la canzone.

Citazioni che esplicitano i Beatles si trovano in All The Young Dudes dei Mott The Hoople, Born In The 50’s dei Police, in Ready Steady Go dei Generation X e in Encore dei Red Hot Chili Peppers, mentre i Clash sfottono la beatlemania in un verso dell’ormai classica London Calling. In realtà, nel periodo in cui i Beatles erano attivi e famosi in tutto il mondo, comparvero diverse canzoni di artisti meteore che citavano i quattro per i motivi più disparati: ricordo, ad esempio, una canzone rivolta a Maureen Starkey, prima moglie di Ringo Starr, che doveva ‘trattare bene’ il batterista, ma anche una rivolta a John Lennon, che, secondo il suo autore, s’era spinto troppo oltre con la celebre sparata dei ‘Beatles più famosi di Cristo’. Anche noti artisti italiani hanno citato i Beatles, come Gianni Morandi in C’era Un Ragazzo Che Come Me… e gli Stadio in Chiedi Chi Erano i Beatles.

Alla prematura & sconvolgente morte di Lennon fanno invece riferimento Empty Garden di Elton John, Life Is Real (Song For Lennon) e Put Out The Fire dei Queen, Murder di David Gilmour, ma anche la famosa Moonlight Shadow di Mike Oldfield. John vivo & vegeto viene invece citato da David Bowie nella sua celebre Life On Mars? del 1971… Bowie che a sua volta viene citato – con Iggy Pop – in Trans Europe Express dai Kraftwerk. Esiste tuttavia una canzone chiamata proprio David Bowie, pubblicata dai Phish… che poi, a dire il vero, le citazioni riguardanti Bowie sono molte di più: uno dei più acclamati biografi di David, Nicholas Pegg, dedica alla questione un intero paragrafo nella sua notevole enciclopedia.

Anche i Rolling Stones sono stati oggetto di diverse citazioni, fra le quali le stesse C’era Un Ragazzo Che Come Me…, All The Young Dudes e Ready Steady Go viste sopra, ma anche I Go Crazy dei Queen e She’s Only 18 dei Red Hot Chili Peppers. Il solo Mick Jagger viene invece citato da David Bowie nella sua Drive In Saturday e ritratto in altre canzoni del suo “Aladdin Sane” (1973), mentre i Maroon 5 hanno addirittura creato una Moves Like Jagger.

Billy Squier ci ricorda Freddie Mercury con I Have Watched You Fly, così come ha fatto anche il nostro Peppino Di Capri in La Voce Delle Stelle, mentre a commemorare Kurt Cobain ci hanno pensato Patti Smith in About A Boy e i Cult con Sacred Life. Riferimenti a Elvis Presley si trovano in diverse canzoni di Nick Cave, così come in Angel degli Eurythmics, mentre i Dire Straits lo invocano in Calling Elvis. Nella sua God, John Lennon dice invece di non crederci più, in Elvis, così come in Bob Dylan. Dylan che viene esplicitamente citato in Song For Bob Dylan di Bowie e in Bob Dylan Blues di Syd Barrett ma che tuttavia viene sbeffeggiato in alcuni inediti lennoniani come Serve Yourself.

Citazione-omaggio per Brian Wilson dei Beach Boys da parte dei Tears For Fears in Brian Wilson Said, dove la band inglese rifà anche il verso ad alcuni tipici effetti corali dell’indimenticata surf band americana. Invece al celebre tenore Enrico Caruso hanno reso omaggio, oltre a Lucio Dalla con la struggente Caruso, anche gli inglesi Everything But The Girl con The Night I Heard Caruso Sing. Il grande Duke Ellington ci viene ricordato da Stevie Wonder con la famosa Sir Duke (nella foto in alto, la copertina del singolo), ma il pezzo più impressionante dedicato al duca è di Miles Davis che, con He Loved Him Madly, realizza uno straordinario requiem in stile fusion per il suo idolo musicale. Un altro grande artista nero, Marvin Gaye, ci viene invece malinconicamente ricordato in un successo dei Commodores, Nightshift, mentre trent’anni dopo il giovane Charlie Puth si è fatto notare con una canzone chiamata proprio Marvin Gaye.

A Jonathan Melvoin, tastierista degli Smashing Pumpkins morto d’overdose nel ’96, Prince ha dedicato la bellissima The Love We Make (Jonathan era amico di Prince, giacché questi era stato fidanzato a lungo con sua sorella, Susannah Melvoin). Invece il truce rapper The Notorius B.I.G. è stato omaggiato dalla fortunata I’ll Be Missing You, un duetto fra Puff Daddy e Faith Evans basato sulle note di Every Breath You Take dei Police.

Oltre ai ricordi dolorosi, però, ci sono anche sentimenti d’amicizia e di stima, simpatie, accuse e sfottò… ecco quindi i Police che si fanno beffe di Rod Stewart in Peanuts e i Sex Pistols che, in New York, deridono tutta la scena punk americana che sembra averli preceduti. La scena punk inglese viene invece omaggiata da Bob Marley in Punky Reggae Party, dove il grande artista giamaicano cita i Clash, i Jam e i Damned. I Pink Floyd rimpiangono invece Vera Lynn in Vera, tratta dal loro monumentale “The Wall”. In She’s Madonna, Robbie Williams, oltre a farsi accompagnare dai Pet Shop Boys (citati anch’essi in un altro pezzo di Robbie), esprime il suo apprezzamento per… Madonna. E se Wayne Hussey dei Mission canta la sua vicinanza a Ian Astbury dei Cult in Blood Brother, gli Exploited urlano l’innocenza di Sid Vicious in, appunto, Sid Vicious Was Innocent. Altri riferimenti alla parabola di Sid (e della compagna Nancy Spungen) li possiamo trovare in I Don’t Want To Live This Life dei Ramones e in Love Kills di Joe Strummer. I Sex Pistols in quanto tali sono invece citati in una canzone dei Tin Machine, così come in un’altra di quel gruppo capeggiato da David Bowie viene citata Madonna.

Non è mai stato chiarito da Michael Jackson se la sua Dirty Diana si riferisca all’amica Diana Ross o meno, ma per completezza ci mettiamo anche questa, così come non è chiaro il destinatario di You’re So Vain, il più grande successo di Carly Simon (secondo i più è indirizzata a Mick Jagger che, in realtà, contribuisce ai cori della canzone stessa). Di certo una curiosa immagine di Yoko Ono ci viene invece offerta da Roger Waters nella sua The Pros And Cons Of Hitch Hiking.

Per quanto riguarda gli italiani, mi vengono in mente La Grande Assente di Renato Zero (un omaggio all’amica Mia Martini), No Vasco di Jovanotti (non so se il titolo è esatto, comunque il riferimento è Vasco Rossi) e quella buffa canzone di Simone Cristicchi che cita di continuo Biagio Antonacci.

Quali altri esempi conoscete? Di certo, oltre a quelli che non conosco io, ce ne sono molti altri che ho dimenticato di citare [ultimo aggiornamento, 7 aprile 2011]. – Matteo Aceto

Autoreferenze musicali: accuse, rimorsi e nostalgia

George Harrison All Those Years AgoUn altro aspetto della musica che mi ha sempre affascinato riguarda i riferimenti – espliciti o meno – di un artista verso uno o più componenti della sua stessa band. La storia del pop-rock è piena d’esempi, con testi che, da semplici sentimenti di nostalgia per qualcuno che purtroppo non c’è più, vanno ad accuse al vetriolo verso chi non s’è comportato bene per i motivi più disparati. Di seguito riporto quelli che per primi mi sono venuti in mente, riservandomi il diritto d’aggiornare il post in seguito, magari anche col contributo dei lettori.

Partiamo come sempre dai Beatles: già con You Never Give Me Your Money, Paul McCartney si lamentava delle beghe finanziare dell’ultima fase del celebre quartetto. In Two Of Us, invece, Paul ripensa malinconicamente a John Lennon e alla tanta strada che i due hanno fatto insieme. McCartney riuscì comunque a trovare sollievo nella consolatoria Let It Be, dopo i suoi ‘times of trouble’. I riferimenti all’uno o all’altro Beatle sono aumentati dopo lo scioglimento del gruppo: e così abbiamo Ringo Starr che in Early 1970 commenta l’amara fine dei Beatles, George Harrison che sfoga un suo litigio con Paul in Wah Wah, mentre McCartney e Lennon si scambiano accuse, rispettivamente, con Dear Friend e How Do You Sleep?. Altre frecciate da parte di George, verso Paul ma anche John, si trovanon in Living In The Material World. Altre beghe contrattuali e giudiziare in Sue Me Sue You Blues, ancora con Harrison, che tuttavia è l’autore della prima canzone-omaggio a Lennon, All Those Years Ago (nella foto, la copertina del singolo), cosa che anche McCartney farà con la sua Here Today. Invece la morte prematura dello stesso George sarà ricordata da Ringo in Never Without You. Altri riferimenti espliciti ai Beatles in quanto tali si trovano in God di John, in I’m The Greatest di Ringo e in When We Was Fab di George.

In realtà i riferimenti all’uno o all’altro Beatle sono molti di più: ricordo la tesi d’uno studente australiano che affermava come la maggior parte delle canzoni dei Beatles scritte da John e Paul fosse un continuo botta & risposta fra i due: e così, per esempio, se John sceglieva di cimentarsi con la cover di Money (That’s What I Want), Paul rispondeva con la sua Can’t Buy Me Love. Altri riferimenti a McCartney si trovano in You Can’t Do That e Glass Onion, mentre pare che il bassista fosse anche il destinatario di Back Off Boogaloo, uno dei primi pezzi solisti di Ringo, e nella conciliatoria I Know (I Know) di John. E’ un aspetto molto interessante nel canzoniere dei Beatles che meriterebbe un post tutto per sé… per ora andiamo avanti, con esempi presi da altre discografie.

Passando ai Pink Floyd, abbiamo l’arcinota Shine On You Crazy Diamond che ci ricorda Syd Barrett con struggente nostalgia, così come Wish You Were Here e Nobody Home. Ma è dopo la dolorosa defezione di Roger Waters che i componenti dei Floyd iniziano a battersi con le canzoni: e così per un David Gilmour che, rivolgendosi al burbero bassista, canta You Know I’m Right, abbiamo un Waters che replica in Towers Of Faith… ‘questa band è la mia band’. In seguito Gilmour cercherà di essere più conciliante ma Waters seppe solo mandarlo affanculo… è quanto sembra emergere fra le righe di Lost For Words. Altri riferimenti a Barrett e allo stesso Waters si ritrovano in Signs Of Life, brano d’apertura di “A Momentary Lapse Of Reason”.

Risentimenti vari anche in casa Rolling Stones: Mick Jagger e Keith Richards se li sono scambiati a vicenda negli anni Ottanta con, rispettivamente, Shoot Off Your Mouth e You Don’t Move Me. Rabbia verso altri (ex) partner musicali si trovano anche in F.F.F. dei PiL (indirizzata a Keith Levene, solo pochi anni prima affettuosamente ritratto in Bad Baby), in This Corrosion dei Sisters Of Mercy (l’indirizzo è quello di Wayne Hussey), in Fish Out Of Water dei Tears For Fears di Roland Orzabal (il destinatario è ovviamente Curt Smith) e sopratutto in Liar dei Megadeth, ovvero una scarica di pesanti insulti verso l’ex chitarrista Chris Poland.

In casa Queen siamo invece addolorati per la morte di Freddie Mercury: ce lo cantano Brian May con la sua Nothin’ But Blue (alla quale partecipa pure John Deacon) e Roger Taylor con Old Frieds. Ma trasudano tristezza anche Wish You Were Here dei Bee Gees e Knock Me Down dei Red Hot Chili Peppers: nella prima si piange la morte prematura di Andy Gibb, fratello più giovane di Barry, Robin e Maurice, nella seconda si piange invece quella del chitarrista Hillel Slovak. Ancora in casa Chili Peppers, fra l’altro, in Around The World del 1999 viene citato anche il sostituto di Slovak, il più noto John Frusciante.

Sentimenti di rivalsa invece con Don’t Forget To Remember dei Bee Gees, Solsbury Hill di Peter Gabriel, We Are The Clash dei Clash, Why? di Annie Lennox e No Regrets di Robbie Williams: la prima è un monito a Robin Gibb (in quel momento fuori dai Bee Gees), la seconda parla del perché Peter ha deciso di mollare i Genesis, la terza è rivolta da Joe Strummer contro Mick Jones, la quarta è indirizzata a Dave Stewart, partner della Lennox negli Eurythmics, mentre la quinta è rivolta al resto dei Take That, per i quali Robbie non prova ‘nessun rimorso’.

Altri riferimenti più o meno velati ai propri (ex) compagni di gruppo si trovano in Dum Dum Boys di Iggy Pop, Public Image dei PiL, The Winner Takes It All degli Abba, Should I Stay Or Should I Go? dei Clash, The Bitterest Pill dei Jam, In My Darkest Hour dei Megadeth. Ne conoscete degli altri? Sono sicuro che ce ne sono molti ma molti di più! – Matteo Aceto

(ultimo aggiornamento il 2 marzo 2009)

Perry Farrell’s Satellite Party “Ultra Payloaded”, 2007

perry-farrell-satellite-party-ultra-payloadedA parte tutta la roba di Miles Davis che ho comprato negli ultimi tempi, il disco che più sto ascoltando in queste settimane è “Ultra Payloaded”, ultimo album da studio di Perry Farrell, la voce storica dei Jane’s Addiction.

In verità l’album è accreditato a Perry Farrell’s Satellite Party, un supergruppo composto da Nuno Bettencourt – già chitarrista degli Extreme – dal batterista Kevin Figueiredo, dallo stesso Farrell e da sua moglie Etty Lou, più una schiera notevole di ospiti, fra cui Flea e John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers e il bassista dei New Order, Peter Hook.

Avevo già avuto modo d’ascoltare questo “Ultra Payloaded” l’anno scorso, fresco fresco di pubblicazione, ma non m’andava di sborsare diciannoveureccinquanta per un ciddì! Ho atteso quindi che fosse inserito nella ghiotta categoria dei ‘nice price’ e così anche “Ultra Payloaded” ha fatto il suo ingresso trionfale nella mia collezione di dischi.

Per molti aspetti, “Ultra Payloaded” è il disco più orecchiabile mai prodotto da Perry Farrell, anche il suo più commerciale se vogliamo, ma senza dubbio è un album che riflette la sua maturità raggiunta come compositore, come arrangiatore, come produttore, come leader di una band di grandi musicisti e soprattutto come cantante. Sì, perché in “Ultra Payloaded” Perry canta come non ha mai cantato prima: non solo la sua inconfondibile voce – alta e roca al tempo stesso – ma anche un tono più basso che mai s’era sentito nei suoi precedenti lavori discografici.

E poi ci sono le canzoni, undici pezzi davvero molto divertenti & coinvolgenti, dal suono pulito ma non freddo com’è avvenuto per tanti dischi pubblicati negli ultimi anni. Merito anche del celebre Steve Lillywhite – noto soprattutto per i suoi lavori con Simple Minds e U2 – qui in veste di co-produttore del disco.

1) La prima canzone in programma, la danzereccia Wish Upon A Dog Star, è stata anche pubblicata come singolo apripista e figura l’inconfondibile suono di basso di Peter Hook, al quale viene anche accreditata parte della musica. Non mancano altri ospiti illustri, come Peter DiStefano – chitarrista dei Porno For Pyros, la formazione fondata da Perry Farrell dopo il primo scioglimento dei Jane’s Addiction – e la bella Fergie dei Black Eyed Peas, qui in veste di corista. E’ un pezzo molto orecchiabile questo Wish Upon A Dog Star, subito accattivante per via della sua base funk-rock e del suo cantabilissimo ritornello.

2-3) Elementi funky accentuati nella successiva Only Love, Let’s Celebrate, altro brano molto coinvolgente e facilmente canticchiabile. Gli fa seguito Hard Life Easy, uno dei pezzi forti di quest’album, arricchito dall’avvolgente parte di basso di Flea.

4) Con Kinky ritroviamo Peter Hook al basso, in quello che è un bel pezzo arrembante & avvolgente, appena appena più aggressivo di quanto ascoltato finora.

5) The Solutionists è semplicemente una delle mie canzoni preferite di questo lavoro: il brano altro non è che Revolution Solution, una collaborazione fra il gruppo elettronico dei Thievery Corporation e lo stesso Perry Farrell, soltanto che in questo caso la base elettronica è stata quasi completamente rimpiazzata dalla classica strumentazione rock (basso, batteria e chitarra) e arricchita da sequenze orchestrali di grande effetto. Mi capita spesso di ascoltarmi una seconda volta questa The Solutionists prima di passare alla canzone successiva…

6) … finalmente una lenta, chiamata Awesome. Scandita dalla chitarra acustica di Peter DiStefano, la dolce melodia di Awesome ci regala una prestazione vocale da parte di Perry davvero inedita – incentrata sul suo registro più basso – e a suo modo struggente. Davvero una perla, questa Awesome, una delle cose migliori mai realizzate dal nostro, secondo me.

7-8) Seppur più ritmata, la successiva Mr. Sunshine è un pezzo più meditabondo e dall’atmosfera fumosa, in parte basata su Lonely Days, il primo grande successo statunitense per i mitici Bee Gees. Gli fa seguito il brano più metallaro dell’album, Insanity Rains, che ci riporta immediatamente alle atmosfere più ruggenti dei Jane’s Addiction.

9) Tuttavia il pezzo incluso in “Ultra Payloaded” che più amo è Milky Avenue, una malinconica & sognante ballata, perfetta se ascoltata a tutto volume mentre si guida in macchina con l’aria fra i capelli. E’ una canzone magnifica che mi arricchisce tutto il disco, dove Perry torna ad usare il suo inedito tono basso della voce.

10) Con la successiva Ultra-Payloaded Satellite Party ci ricolleghiamo all’atmosfera festaiola da rock danzereccio delle prime quattro canzoni del disco, anche se il risultato complessivo non m’impressiona più di tanto. E’ comunque un pezzo interessante per i suoi repentini cambi di tempo e per l’uso congiunto di cori e campionamenti.

11) La conclusiva Woman In The Window dovrebbe essere una sorpresa per tutti i fan dei Doors: si tratta infatti d’una canzone perduta di Jim Morrison, una sorta di filastrocca, attorno alla quale Perry ha ricostruito un’atmosfera vagamente hip-hop. Non un capolavoro ma certamente una conclusione inedita per un disco assai interessante che ho avuto modo di apprezzare sempre di più ascolto dopo ascolto.

C’è da dire che questo “Ultra Payloaded” è passato quasi inosservato da parte del grande pubblico: negli Stati Uniti ha raggiunto un miserissimo novantunesimo posto in classifica e la grande distribuzione non l’ha manco cagato. Ciò non toglie che si tratta dell’album più godibile mai realizzato da Perry Farrell (il mio preferito dopo il classicone dei Jane’s Addiction, il grandioso “Nothing’s Shocking”), un album che piacerà sicuramente a tutti gli ammiratori di questo originale ed eccentrico artista. – Matteo Aceto

Alice In Chains

alice-in-chains-immagine-pubblicaAlice In Chains, un nome che conosco fin dai primi anni Novanta, quando, da poco interessato al rock, leggevo sulle riviste di questa band assieme ad altre che in quegli anni calcavano le scene & dominavano le classifiche angloamericane: Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, Jane’s AddictionThe Stone Roses, Smashing Pumpkins, Red Hot Chili Peppers e altre ancora. Ne sentivo parlare sempre bene, di questi Alice In Chains, e per anni ho mantenuto l’intenzione di ascoltarmi la loro musica come si deve. Ma poi passa oggi e passa domani e così arriva il nuovo decennio, dove la band di Seattle non è più in attività. Acquisto allora la raccolta “Greatest Hits” (2001) che, seppur contenente solo dieci canzoni, mi fa innamorare di quelle sonorità: cupo hard rock, atmosfere tese e taglienti, un senso di rabbia e di desolazione che sembra trasudare da ogni brano. Le canzoni che mi colpiscono all’istante sono Man In The Box (formidabile!), Angry Chair (quasi gotica), Would? (bella potente), I Stay Away (magnifica) e Grind (sporca e tosta).

Il mio entusiasmo è così grande che qualche anno dopo vado anche a comprarmi “Unplugged” (1996), l’esibizione del ’96 che gli Alice In Chains realizzarono per la nota trasmissione di MTV. Bel disco pure questo, non c’è che dire. Nel frattempo, purtroppo, nell’aprile 2002 muore Layne Staley, il tormentato cantante della band (foto sopra), tossicodipendente cronico da anni. Una fine ingloriosa, della quale preferisco non parlare… mi dispiacque molto, davvero.

Più tardi un mio amico mi prestò un mini album degli Alice In Chains, “Jar Of Flies” (1994), un EP contenente sette canzoni, perlopiù acustiche. Gran bel disco anch’esso che m’ispira un’idea diabolica: comprare tutti gli album degli Alice In Chains, che non sono poi molti… “Facelift” (1990), un altro mini chiamato “SAP” (1991), “Dirt” (1992) e l’omonimo “Alice In Chains” (1995). Ci sarebbe anche “Above”, un disco che lo sfortunato Staley ha realizzato come Mad Season in compagnia di altri musicisti della scena rock di Seattle, tra cui Mike McCready dei Pearl Jam.

Poi però scopro l’oggetto delle meraviglie: il cofanetto antologico degli Alice In Chains, “Music Bank” (1999), composto da tre CD e un DVD che ripercorre la carriera audiovisiva dei nostri. Prenderò questo, appena ne avrò la possibilità monetaria, si capisce…

Ora una breve biografia sugli Alice In Chains: la band si forma a Seattle sul finire degli anni Ottanta dall’incontro tra Layne Staley e Jerry Cantrell (chitarrista e principale autore delle canzoni), ai quali si aggiungono di lì a poco il bassista Mike Starr e il batterista Sean Kinney. Il debutto discografico degli Alice In Chains avviene nel 1990 con l’EP “We Die Young” ma nel corso del ’92 la band vede l’abbandono di Kinney, il quale verrà così rimpiazzato da Mike Inez. Gli Alice In Chains riscuoteranno un enorme successo nel corso degli anni Novanta, sia da parte del pubblico (soprattutto quello statunitense) che della critica, tuttavia la loro attività concertistica sarà sempre piuttosto limitata a causa delle precarie condizioni di salute di Layne Staley.

Dopo il fattaccio dell’aprile 2002, ovviamente la band si scioglie (anche se, in pratica, s’era già sciolta molto tempo prima) con Jerry che va avanti come solista. Qualche anno dopo, gli Alice In Chains, nella formazione Cantrell-Starr-Inez, effettueranno una performance per raccogliere fondi a favore delle vittime dell’uragano Katrina e successivamente, nel corso del 2006, daranno vita ad un breve tour con un nuovo cantante, William Duvall… sono stati anche a Milano, nell’estate 2006, in occasione del noto festival Gods Of Metal. Ora, per gli Alice In Chains, si prospetta un ritorno in grande stile per il 2009, con tanto di nuovo album, il primo da quello eponimo del 1995. [ultimo aggiornamento: 19 settembre 2008] – Matteo Aceto

Perry Farrell’s Satellite Party, “Milky Avenue”, 2007

perry-farrell-satellite-party-ultra-payloadedIn questi giorni sto ascoltando “Ultra Payloaded” (2007), l’album di debutto dei Satellite Party, la nuova band di Perry Farrell. Sulle prime non è che mi dicesse molto ‘sto disco ma poi, a poco a poco, ho apprezzato sempre più le singole canzoni in esso contenute. In particolare, ce n’è una chiamata Milky Avenue che mi sembra un’ottima colonna sonora per queste ultime settimane d’estate.

Milky Avenue è il classico pezzo da sentirsi a tutto volume mentre si guida in macchina al tramonto coi finestrini spalancati & il vento nei capelli: un brano caldo, rilassato, vagamente malinconico e sognante.

Scritta da Perry Farrell con Flea dei Red Hot Chili Peppers (che vi suona pure il basso), Milky Avenue è una di quelle canzoni che m’incoraggiano nel pensare che, per fortuna, una musica pop-rock decentemente godibile può essere prodotta anche oggi. – Matteo Aceto

ps: e mi sa che mi toccherà comprare pure questo “Ultra Payloaded”…

Depeche Mode, “Songs Of Faith And Devotion”, 1993

depeche-mode-songs-of-faith-and-devotion“Songs Of Faith And Devotion” contende a “Violator” il titolo di miglior album dei Depeche Mode. Personalmente preferisco “Violator” ma questo “Songs” è un lavoro straordinario che segna il punto più alto dell’evoluzione stilistica raggiunto dalla celebre band inglese.

Nonostante tutte le canzoni portano la firma di Martin Gore, il sound complessivo di questo disco riflette il desiderio di Dave Gahan d’inserirsi nel filone dell’alternative rock, un genere che all’epoca stava segnando il culmine del suo successo critico/commerciale, sulla scia di band quali Nirvana, Pearl Jam, Red Hot Chili Peppers e Jane’s Addiction. Celebre la dichiarazione di Dave, in quel periodo, secondo la quale non avrebbe più interpretato brani danzerecci.

“Songs Of Faith And Devotion” inizia con quello che è il brano più potente dell’intero repertorio dei Depeche Mode, I Feel You: per quanto l’elettronica sia ben in vista, l’elemento dominante della struttura melodica di questa canzone è la chitarra ritmica, impegnata in un trascinante rock-blues. Con I Feel You i Depeche Mode fanno capire fin da subito che tipo di sonorità sono riusciti ad assimilare pur mantenendo intatto il loro personalissimo stile. Inoltre, nonostante la durezza della musica, I Feel You vanta uno dei testi più romantici mai proposti da Martin.

Walking In My Shoes è una delle canzoni dei Depeche Mode che più amo in assoluto: questo non è pop, non è rock, è un sound che solo un gruppo come questo è in grado di generare, in perfetto equilibrio fra sensibilità per le belle melodie & atmosfere tanto oscure quanto epiche. Anche in questo caso, inoltre, siamo in presenza d’un bel testo, caratteristica comune a tutte le altre canzoni del disco, a dire il vero.

Segue l’emozionante gospel di Condemnation, dove Dave Gahan ci regala la sua miglior prova vocale fino a questo punto della sua luminosa carriera: si stenta un po’ a credere che questa sia la band di Just Can’t Get Enough ma con Condemnation (edita come terzo singolo, dopo le due canzoni precedenti), i Depeche Mode portano il pop su una vetta altissima.

Con Mercy In You siamo alle prese con un secondo ibrido rock, dove – così come per I Feel You – è la chitarra di Martin lo strumento portante; da urlo la prova vocale di Dave, che si sdoppia nei ritornelli. Segue Judas, cantato dal solo Gore, che riflette invece atmosfere più intimiste e composte, in un brano alquanto disteso e meditabondo.

Con In Your Room torniamo al cospetto d’un autentico brano dark, imponente per strumentazione impiegata, parte vocale e testo: sono quasi sette minuti nei quali i Depeche Mode ci accompagnano in una dimensione che soltanto loro sono in grado d’evocare. La versione di In Your Room pubblicata come singolo è però notevolmente diversa, presentando un efficace arrangiamento rock.

Get Right With Me è un altro magnifico gospel, seppur con un sound più metropolitano – con tanto di scratch del giradischi – rispetto a Condemnation: il testo è molto positivo e la voce di Dave è ancora una volta superlativa. Il veloce Rush è invece un altro brano ascrivibile ai canoni dell’alternative-rock, impreziosito – manco a dirlo – da una grandissima prestazione vocale di Gahan. In particolare, mi piace molto la parte in cui canta ‘I’m not proud of what I do / when I come up / when I rush / I rush for you’.

In One Caress ritroviamo Gore alla voce solista, per quella che è una sinfonica & crepuscolare melodia: sembra un brano di musica lirica, con Martin che – forse per non sfigurare nei confronti di Dave – ci regala una prova vocale da brividi, soprattutto nel finale, quando viene accompagnato da un emozionante crescendo orchestrale.

Higher Love è a mio avviso una delle migliori chiusure d’un album dei Depeche Mode: un brano intenso, oscuro, eppure carico di speranza, un originale inno all’amore che solo una band come questa avrebbe potuto concepire. Mi vengono i brividi quando Dave e Martin, all’unisono, cantano ‘heaven bounds on the wings of love, there’s so much that you can rise above’. Il finale, poi, con quelle voci distorte che s’incrociano, mi regala sempre grandi emozioni.

“Songs Of Faith And Devotion” è un disco imperdibile per gli appassionati dei Depeche Mode ma anche per chi apprezza l’affascinante scena dell’alternative-rock. All’epoca, l’album conquistò simultaneamente le vette della classifica britannica e statunitense, suggellando così l’apice commerciale dei Depeche Mode. Ignoro il reale contributo di Andy Fletcher a questo disco, ma la parte di Alan Wilder – il più efficace forgiatore musicale delle felici intuizioni autoriali di Martin Gore – è semplicemente da applausi. Purtroppo, “Songs Of Faith And Devotion” sarà per Alan l’ultimo album da studio come componente dei Depeche Mode.

Un album – infine – che è stato pubblicato anche in una potente versione dal vivo, al termine del 1993: se questo live è complessivamente inferiore alla versione da studio che abbiamo appena analizzato, la forza delle canzoni resta comunque intatta e in alcuni casi risplende con maggior vigore.

Guns N’ Roses, “Oh My God”, 1999

guns-n-rose-oh-my-god-singolo-colonna-sonoraOh My God è la prima canzone ufficialmente pubblicata dai Guns N’ Roses dell’era post-Slash. Originariamente pensata per l’album “Chinese Democracy”, Oh My God è invece finita sulla colonna sonora del film “End Of Days” (1999), un discreto action-horror con un irriducibile Arnold Schwartzenegger come attore protagonista.

Fondendo elementi hard rock con sonorità industrial e jungle, Oh My God è un brano nervoso e tirato che si discosta notevolmente dal sound abituale dei Guns.

Riconoscibilissima, comunque, la voce dell’unico componente storico della band, il cantante Axl Rose, mentre fra i chitarristi figura Dave Navarro, ex membro dei Jane’s Addiction e dei Red Hot Chili Peppers.

Forse ai fan storici dei Guns N’ Roses questa Oh My God non sarà piaciuta… ma a me sì. Dimostra come Axl Rose sia un artista che non ha il timore di sperimentare sonorità nuove, pur mantenendo integro lo stile delle sue creazioni. – Matteo Aceto