Prince & The Revolution, “Purple Rain”, 1984

Prince, The Revolution, Purple Rain, immagine pubblica blogRitenuto a torto o a ragione il suo capolavoro, “Purple Rain” è senza dubbio l’album che ha fatto di Prince una grande star internazionale, la più splendente stella della musica degli anni Ottanta dopo Michael Jackson.

Prince, all’epoca ventiseienne, con “Purple Rain” divenne pure un divo del cinema: quando si parla oggi d’un disco come questo, infatti, quasi ci si dimentica che tale fortunato album del 1984 è la colonna sonora d’un altrettanto fortunato film. Film che ha avuto un notevole e duraturo impatto nel presentare la figura di Prince al pubblico mondiale. Insomma, piaccia o meno, “Purple Rain” è stato un autentico fenomeno culturale di quegli anni, e forse un post su questo modesto blog non è sufficiente a contenere tutto il discorso. Limitiamoci perciò al disco in quanto tale.

Un disco che, vi dirò subito, mi piace fino a un certo punto; per me il periodo più interessante di Prince è il decennio 1986-96, quello compreso tra gli album “Parade” ed “Emancipation“, per intenderci. Certo, il disco oggetto di questo post contiene Purple Rain, semplicemente una delle canzoni più belle di tutti i tempi, oltre a When Doves Cry, uno dei pezzi più formidabili di quel decennio. Altra gemma presente in “Purple Rain” è The Beautiful Ones, forte di quella che resta la prova vocale più impressionante nella discografia di Prince. Ma l’album contiene anche pezzi come Computer Blue e Darling Nikki che non mi hanno mai detto granché, così come Take Me With U, Baby I’m A Star e I Would Die 4 U, canzoni che per quanto pregevoli mi sembrano assai meno rilevanti che in passato. Resta ancora degna di nota Let’s Go Crazy, col suo sermone iniziale, con tutta la sua grinta rock, con la sua performance di gruppo (“Purple Rain” è accreditato infatti a Prince & The Revolution, il suo gruppo di supporto in quegli anni), sebbene la sua batteria elettronica mi suona oggi alquanto fastidiosa.

In definitiva, per quanto mi riguarda, accanto a momenti grandiosi che tutto sommato bastano a giustificare la presenza d’un disco come “Purple Rain” nella mia collezione, ne trovo altri di dubbio interesse (nonché gusto). Queste mie riserve non hanno tuttavia impedito a “Purple Rain” di vendere copie a milioni, e non hanno impedito al sottoscritto di andarsi a comprare la riedizione deluxe (tre ciddì e un divuddì) di “Purple Rain” pubblicata nel 2017, mentre già da qualche decennio possiede un bel vinile dell’epoca. Dopo tutto, io resto sempre un grande ammiratore del compianto Prince. – Matteo Aceto

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All’indomani del Record Store Day

record store day immagine pubblica blogSabato scorso ho anch’io festeggiato il Record Store Day facendo quello che c’era da fare: andare al negozio di dischi, quello vero, che vende solo quelli, e fare acquisti. E’ stato tuttavia un Record Store Day abbastanza triste per me: e non soltanto perché non sono riuscito a mettere le mani sull’ambita ristampa in doppio vinile bianco di “Dead Bees On A Cake”, l’album di David Sylvian originariamente uscito nel 1999, ma soprattutto perché ho trovato uno dei negozi storici di Pescara, Discover, drammaticamente chiuso. Qualche settimana fa era venuto a mancare il titolare e, forse, di lì a poco, la decisione di chiudere Discover è stata anche pubblicizzata da qualche parte. Io non ne sapevo niente, ormai vivo a molti chilometri di distanza da Pescara, ma venirlo a scoprire proprio nel giorno in cui si dovrebbero festeggiare i negozi di dischi ha qualcosa di tristemente crudele.

E così, già che c’ero, ho fatto comunque un paio di acquisti, nell’unico, vero, storico, negozio di dischi rimasto a Pescara, ovvero Gong. Ho così comprato il “Rubberband EP” di Miles Davis (un dodici pollici da 45 giri contenente quattro brani) e il “Journey’s End” di Roger Taylor, il batterista dei Queen (un dieci pollici da 45 giri anch’esso, contenente però due soli pezzi). Un po’ pochino, insomma. E quello che ho ascoltato non m’è piaciuto granché.

Mi sto tuttavia consolando con due acquisti che nel frattempo avevo ordinato online: l’ultimo capitolo della “Bootleg Series” dedicato dalla Sony a Miles Davis, “The Final Tour” (quattro ciddì che documentano per la prima volta in maniera ufficiale la tournée di concerti che il Miles Davis Quintet tenne in Europa nel 1960, l’ultima con John Coltrane ancora nei ranghi) e la riedizione deluxe di “Purple Rain”, il capolavoro firmato Prince & The Revolution del 1984, riproposto lo scorso anno in una versione estesa da tre ciddì più divuddì. In settimana, inoltre, dovrebbe arrivarmi anche un cofanetto di Bruce Springsteen del 2015 che tenevo d’occhio da tempo, “The Ties That Bind”, dedicato al suo celebre & celebrato album del 1980, “The River”.

Forse, di questi miei recenti acquisti discografici avremo modo di parlare più dettagliatamente in specifici post. Il prossimo comunque dovrebbe riguardare un album da studio dei Genesis che giace già da qualche settimane tra le bozze di questo blog. Insomma, avremo modo di aggiornarci presto. – Matteo Aceto

Progetti musicali irrealizzati

Vinile rottoUn argomento che mi ha sempre affascinato è quello dei progetti musicali e cinematografici irrealizzati. Qualche giorno fa rileggevo una biografia di Federico Fellini, nella quale – tra i vari progetti irrealizzati – si parlava d’un film a episodi su Venezia. Mi sono così ricordato di aver già scritto un paio di post su questo argomento: uno pubblicato il 17 gennaio 2007, quando il blog si chiamava ancora Parliamo di Musica, e uno pubblicato l’11 gennaio 2010, quando il blog si chiamava già Immagine Pubblica.

E allora non mi resta che riproporre quegli scritti, rivisti e ampliati per l’occasione (limitandoci ora ai progetti discografici, mentre quelli cinematografici saranno il tema del prossimo post), senza l’arroganza di voler esaurire l’affascinante argomento. Anzi, ogni vostra eventuale aggiunta tra i commenti sarà per me cosa molto gradita.

Di interi album registrati ma lasciati a raccogliere polvere negli archivi, di collaborazioni mancate e di capolavori perduti, la storia della musica ne è piena. A volte è stata la pochezza tecnologica ad impedire a un artista di concepire materialmente l’opera che aveva in mente, spesso invece sono intervenuti blocchi creativi, veti da parte della casa discografica, ma anche la paura dell’artista stesso di esporsi o di andare fino in fondo. Senza contare, inoltre, le solite storie di droga, alcol e dissolutezze varie, nonché incidenti e fatalità. Vediamo qualche caso.

Nel 1966, dopo aver dato alle stampe un capolavoro come “Pet Sounds”, i Beach Boys sono già alle prese con un nuovo album, “Smile”: Brian Wilson, la mente creativa del gruppo, che già nel corso delle sessioni di “Pet Sounds” aveva manifestato evidenti segni di squilibrio, subì il definitivo tracollo mentale proprio durante la sua lavorazione. Un consumo eccessivo di droghe, lo stress, l’ispirazione creativa altalenante, ma pure il bruciante desiderio di voler superare un capolavoro come il “Sgt. Pepper” dei Beatles, causarono il crollo definitivo di Wilson. “Smile” venne abbandonato e Brian se ne restò a letto per due anni, almeno così narra la leggenda. “Smile” è stato finalmente ufficializzato nel 2004: seppur apprezzato e acclamato dai fan, l’album non contiene il materiale dell’epoca, bensì è una rivisitazione moderna ad opera del solo Wilson, mentre per ascoltare come si deve le registrazioni originali del ’66-’67 si dovette attendere l’autunno del 2011, in occasione della pubblicazione delle “Smile Sessions”. Dell’album originale, tuttavia, non c’è traccia: il tutto resta (o restava) un progetto intraducibile nella mente geniale di Brian Wilson.

Sempre nel ’67, i Bee Gees avevano pronta una nuova canzone, To Love Somebody, da far cantare a Otis Redding. Purtroppo l’aereo sul quale viaggiava Redding si schiantò al suolo e con esso la possibilità d’una collaborazione dell’artista americano coi fratelli Gibb. Vicende decisamente meno tragiche, ma sempre legate ai Bee Gees, riguardano alcuni loro album registrati e mai pubblicati: addirittura nel 1970, in un periodo in cui il gruppo era ufficialmente sciolto, i tre fratelli Gibb registrano ciascuno un album solista ma, a parte qualche singolo, nessuno dei tre elleppì raggiunge le rivendite, coi fratelli che decidono di riunirsi sotto il celebre nome comune già entro l’anno. Nel ’73, tuttavia, un intero album dei Bee Gees, “A Kick In The Head…”, verrà accantonato perché il manager Robert Stigwood l’aveva ritenuto poco appetibile commercialmente. I fratelli non si persero comunque d’animo e registrarono daccapo un nuovo disco, “Life In A Tin Can”, che venne distribuito in quello stesso anno.

Verso la fine degli anni Sessanta, i Pink Floyd pensavano di concepire un disco intitolato “The Man”: doveva descrivere la giornata tipica d’un hippie, dal momento in cui questo si svegliava al momento in cui si coricava. Il gruppo riuscì però a concretizzare un solo brano, Alan’s Psychedelic Breakfast, che finì come appendice allo straordinario “Atom Heart Mother”. Un altro progetto floydiano del periodo prevedeva la realizzazione d’un disco con strumentazione interamente non convenzionale (per esempio, picchiare delle pentole invece che colpire la batteria): pare che i nostri abbiano inciso un paio di brani ma che, alla fine, abbiano abbandonato il progetto perché non abbastanza interessante musicalmente. Insomma, il suono complessivo dell’opera non sarebbe stato un granché.
Anche il componente più misterioso dei Pink Floyd, Syd Barrett, rientra nel discorso: nel ’74 qualcuno riuscì a convincerlo a tornare in studio (ma ci provò – inutilmente – pure David Bowie), dopo che Syd aveva faticosamente realizzato due album nel corso del 1970, “The Madcap Laughs” e “Barrett”. Tuttavia non si riuscì a cavare nulla di buono da quegli spezzoni incompleti, perlopiù strumentali, che Syd registrò a intermittenza durante la sua ultima (e breve) permanenza in studio.

Nel ’73, invece, David Bowie rese pubblico il suo proposito di creare un musical (e quindi un disco) basato su “1984”, il celebre romanzo di George Orwell. Bowie inizia a comporre delle canzoni senza che gli eredi di Orwell abbiano dato il nullaosta al progetto. Quando il nostro si vede infine negare i permessi necessari, decide di pubblicare lo stesso le canzoni fin lì registrate (nel bellissimo “Diamond Dogs”) ma l’idea originaria del musical resterà nel cassetto. Ventanni dopo e un altro progetto di Bowie andrà a farsi benedire: nel 1995 esce l’album “1. Outside”, primo capitolo (nelle intenzioni originali) d’una saga di ben cinque dischi che il nostro avrebbe dovuto pubblicare fino al termine del secolo, quindi un disco all’anno dal ’95 al ’99. Peccato però che David resti folgorato dalla nascente scena jungle e decida di pubblicare un disco a tema, “EAR THL ING” (1997) che, di fatto, relega in archivio i seguiti di “Outside”. Adesso tratteremo però tutt’altra storia, dai toni ben più drammatici.

Nel novembre 1980 Ringo Starr è a New York, ospite di John Lennon, il quale aveva pronte per il batterista quattro nuove canzoni (tra cui Life Begins At 40) per il suo prossimo album. I due amici si salutano col proposito d’incontrasi di nuovo al principio dell’81, per avviare il lavoro in studio. Purtroppo, come tutti sappiamo, un folle uccise John l’8 dicembre e Ringo, per rispetto dello sfortunato amico, decise di non utilizzare le canzoni che Lennon aveva scritto per lui. Un nuovo album di Ringo uscì comunque nel 1981, “Stop And Smell The Roses”, un disco che figurava contributi preziosi sia da parte di Paul McCartney che di George Harrison. Probabilmente, col contributo di Lennon, “Stop And Smell The Roses” avrebbe testato una prossima reunion dei Beatles. E’ quanto ha dichiarato in anni recenti Jack Douglas, l’ultimo produttore di John.

Un personaggio noto per tutta una serie di fantomatici progetti è Prince. Nel 1986 torna in studio col suo gruppo, The Revolution, per registrare un nuovo disco intitolato “Dream Factory”. Il progetto non viene però portato a termine, coi Revolution che si sciolgono e con Prince che torna a procedere da solista. L’artista realizza quindi un triplo album, “Crystal Ball”, che la casa discografica rifiuta: il nostro risponde con un nuovo album, stavolta un doppio, “Sign ‘O’ The Times”. La Warner Bros decide (per nostra fortuna) di pubblicarlo ma poi Prince, non pago, torna già in studio per un nuovo progetto, “The Black Album”. Anche questo finisce negli archivi (vedrà ufficialmente la luce solo nel ’94) ma Prince ha già un altro disco in mente, da accreditare ad uno pseudonimo femminile, Camille. Al momento di essere pubblicato, Prince (o la Warner, non è chiaro) decide però di far ritirare il disco. E così, nel 1988, ecco che esce finalmente “Lovesexy”, anticipato dall’eccezionale singolo Alphabet St.. Ci sono altre storie riguardanti dischi interi realizzati da Prince ma mai pubblicati (comprese le sue discusse collaborazioni con Miles Davis) e la cosa meriterebbe un discorso a sé. Per ora andiamo avanti, anche se Prince torna protagonista…

Fra il 1986 e il 1987, Michael Jackson è in studio per dare un seguito al fortunatissimo “Thriller”: una delle nuove canzoni, Bad, è pensata come un duetto con Prince. Il folletto di Minneapolis entra in studio ma poi sorgono differenze musicali con Jackson che lo inducono ad abbandonare la collaborazione, mentre Bad, come sappiamo, diventerà uno dei maggiori successi di Michael. Chissà in qualche archivio è conservato quell’originale duetto fra i due giganti della musica nera degli anni Ottanta. Ma c’è un’altra celebre collaborazione di Michael Jackson che finora ha svelato ben poco: quella con Freddie Mercury. I due incisero a Los Angeles almeno tre canzoni nel corso dell’83. Dei tre brani, State Of Shock è finito sull’album “Victory” (1984) dei Jacksons (con Mick Jagger che, di fatto, sostituisce Mercury), There Must Be More To Life Than This è stato incluso nel primo album solista di Freddie, “Mr. Bad Guy” (interamente cantato da Mercury, quando la prima versione del brano figurava il solo Michael alla voce con Freddie al piano), mentre il terzo, pare intitolato Victory, resta in qualche archivio privato (si può approfondire QUI l’argomento, ad ogni modo).

Tornando ad album interi registrati e poi accantonati, passiamo al 1989, quando gli Style Council incidono un disco di house music intitolato “Modernism: A New Decade”, una sorta di positivo benvenuto agli anni Novanta. La Polydor rigetta però l’album, con la band che di lì a poco si scioglie: Paul Weller diventerà un solista acclamato (specialmente nella nativa Gran Bretagna) mentre l’album figurerà come succoso inedito in un cofanetto dedicato agli Style Council, pubblicato dalla stessa Polydor nel 1998.

Tornando infine alle tragiche fatalità, la morte di Jimi Hendrix nel settembre 1970 minò definitivamente il sogno d’una collaborazione paventata da mesi, quella tra il celebre chitarrista mancino e l’altrettanto celebre trombettista Miles Davis (nome che abbiamo già citato). Pare che i due si inseguissero da mesi, abbagliati da una mutua ammirazione, eppure l’ego fece la sua parte: in un’occasione non si presentò Hendrix, in un’altra – quando Jimi era già arrivato in studio con la chitarra in mano – Davis non si fece vedere. Secondo quella gran bella biografia davisiana di Gianfranco Salvatore chiamata “Lo sciamano elettrico”, Jimi aveva già il biglietto aereo per New York nella stanza del suo albergo londinese, proprio per raggiungere Miles Davis e collaborare finalmente con lui. Come tutti sappiamo, tuttavia, la storia non è andata così. Chissà che ci siamo persi…

Ebbene, questi sono gli esempi di progetti discografici irrealizzati più noti che mi sono venuti in mente, ma sono certo che esistono parecchi altri esempi legati agli artisti più disparati. Questo è un argomento che mi ha sempre colpito per cui, chi volesse, può sempre aggiungere altre storie. – Matteo Aceto

Prince, “The Hits/The B-sides”, 1993

prince-the-hits-the-b-sides-immagine-pubblicaL’altro ieri ho finalmente portato a casa un pezzo che non poteva mancare nella mia collezione di dischi: “The Hits/The B-Sides”, la tripla raccolta che la Warner Bros ha pubblicato nel 1993 per celebrare i primi quindici anni della carriera professionale di Prince, uno dei miei artisti preferiti.

In realtà, all’epoca, la Warner pubblicò tre edizioni di questa raccolta: due dischi singoli, da diciotto brani ciascuno, intitolati rispettivamente “The Hits 1” e “The Hits 2”, e quindi il triplo contenente questi due dischi più un terzo di ben venti brani che metteva a raccolta i lati B dei singoli mai apparsi sugli album ufficiali. In quel lontano 1993 (o forse erano già passati i primi mesi del ’94) andai subito a comprarmi le due raccolte, a distanza di qualche settimana l’una dall’altra, ma feci l’errore di con comprare “The Hits/The B-Sides”. Essendo relativamente inesperto sulla musica di Prince (a quel tempo avevo la sola cassetta della colonna sonora di “Batman”), mi sembrava un po’ troppo propendere per un triplo ciddì del quale – almeno sulla carta – conoscevo ben poco e che poteva essermi venduto soltanto a caro prezzo (se non ricordo male, un’ottantina di mila lire), per cui mi accontentai delle due sole raccolte in versione standard.

Sfortunatamente per le mie esigue finanze, di lì a qualche anno diventai un vero fan di Prince, iniziando a comprarmi un po’ tutti i suoi lavori discografici, soprattutto quegli degli anni Ottanta, per cui ebbi il modo di rimpiangere di non aver comprato in quel lontano 1993 il triplo “The Hits/The B-Sides”, che peraltro iniziava a non farsi più trovare con facilità nei negozi. Soltanto un paio di anni fa m’imbattei, del tutto inaspettatamente, in questa particolare edizione: costava soltanto 18.90 euro ma avevo appena comprato un dispendioso cofanetto di Miles Davis e così, ancora una volta, rinunciai all’acquisto princiano (e anche per non avere troppi doppioni fra le mani).

Fino all’altro ieri, come detto, perché – ancora una volta del tutto inaspettatamente – mi sono imbattuto nel triplo “The Hits/The B-Sides” mentre frugavo in un centro commerciale dalle mie parti, dove mi ero recato per utilizzare un buono da 10 euro che avevo maturato con degli acquisti precedenti. Il prezzo della tripla raccolta era di 19.90 euro: tolti i 10 di buono e mi sarei portato il tutto a casa per soli 9.90, giusto giusto il prezzo d’un singolo ciddì d’annata, giusto giusto quel ciddì che mi mancava, ovvero “The B-Sides”. Stavolta non ci ho riflettuto nemmeno un istante: ho preso il triplo (l’unica copia, peraltro) e sono andato immediatamente in cassa per pagare & andarmene a casa.

Allora, “The Hits/The B-Sides”, la raccoltona di Prince datata 1993, per la quale non sarà semplice fare una recensione qui: si tratta della prima raccolta ufficiale per il folletto di Minneapolis e, ad ogni modo, la sua migliore antologia. Partiamo proprio da ciò che mi ha spinto a fare l’acquisto, ovvero il terzo disco, quello contenente i lati B dei singoli.

Per chi non lo sapesse, Prince può vantare assieme a pochissimi altri artisti (tra cui cito i Beatles e le varie incarnazioni musicali di Paul Weller) una qualità dei suoi B-side del tutto analoga alle canzoni contenute negli album. Non si tratta insomma di semplici scarti, messi sul lato B dei singoli tanto per fare qualche sorpresa ai fan, ma di canzoni vere e proprie, scartate dagli album per ragioni di spazio o di diversità di tematica con l’album stesso, oppure ancora per quell’eccesso di creatività che da sempre caratterizza Prince. Insomma, se c’è la possibilità di pubblicare del nuovo materiale, il nostro non è certamente uno che fa il prezioso, anzi. Tanto che in questa raccolta non sono contemplati proprio TUTTI i B-side (così come non sono contemplati proprio TUTTI gli hit) perché altrimenti i dischi necessari a contenere tutto il materiale utilizzabile in questo tipo di antologia sarebbero stati come minimo quattro.

Ok, lo so, me ne sono accorto: sto dilungando molto e ho già scritto un sacco. Vabbè, provo lo stesso ad andare avanti, ma ovviamente lo fate a vostro rischio & pericolo. Allora, il terzo disco: si parte con la marcia trionfale di Hello (il lato B di Pop Life, 1985), alla quale fa seguito 200 Balloons, il lato B di Batdance (1989) col quale ne condivide parte del serrato e meccanico funk di base. Poi è la volta di Escape che non soltanto è il B-side di Glam Slam (1988) ma ne è il vero seguito, tanto sonoro quanto tematico. Seguono due scanzonati B-side dei primi anni Ottanta, ovvero Gotta Stop (Messin’ About) e Horny Toad – rispettivamente sui singoli Let’s Work (1981) e Delirious (1982) – dopodiché troviamo i più interessanti Feel U Up e Girl, rispettivamente il lato B di Partyman (1989) e quello di America (1985). Segue quella che secondo me è un’autentica gemma nascosta nello sterminato canzoniere di Prince, ovvero I Love U In Me, lato B di The Arms Of Orion (1989): si tratta di un’intensa canzone d’amore, intepretata dalla sola voce di Prince (che fa anche le belle parti corali) e dalla sua tastiera in veste di pianoforte. E’ davvero una canzone stupenda, che avrebbe meritato tutt’altra sorte.
A sua volta segue uno dei B-side più noti del nostro, ovvero il pulsante Erotic City (sul retro di Let’s Go Crazy, 1984), e quindi Shockadelica, inserita sul lato B di If I Was Your Girlfriend (1987) ma in realtà originariamente concepita come la già citata Feel U Up per l’album “Camille”, uno dei tanti progetti irrealizzati di Prince. Il grezzo funk di Irresistible Bitch è invece il B-side di Let’s Pretend We’re Married (1983) mentre la sensuale Scarlet Pussy che accompagnava I Wish U Heaven (1988) è un’altra delle canzoni del progetto “Camille”. E se il tecno-funk “cagnesco” di La, La, La, He, He, Hee (lato B di Sign ‘O’ The Times, 1987) è forse un brano trascurabile, il successivo She’s Always In My Hair è invece a mio parere uno dei pezzi migliori del nostro, “sprecato” come lato B di Raspberry Beret (1985). Altra grandissima canzone, che oso mettere anch’essa tra le migliori mai pubblicate da Prince, è 17 Days: questo coinvolgente ma a suo modo nostalgico brano pop-funk, realizzato col prezioso contributo dei Revolution, è stato originariamente “sprecato” per il retro di When Doves Cry (1984), mentre nell’album “Purple Rain” avrebbe fatto certamente più sensazione d’un brano scadente come Darling Nikki.
La melodica e jazzata How Come U Don’t Call Me Anymore, edita nel 1982 come lato B di 1999, è un’altra piccola gemma nascosta che avrebbe meritato certamente più considerazione: deve averla pensata come me anche la bella Alicia Keys, che ne ha fatto una cover in uno dei suoi primi album. Segue quindi il rock-blues di Another Lonely Christmas (retro di I Would Die 4 U, 1984) e poi lo spiritual sintetizzato di God (retro di Purple Rain, sempre 1984). Chiudono questa sensazionale raccolta due preziosi inediti: una versione dal vivo in studio di 4 The Tears In Your Eyes (il brano realizzato dal nostro con Wendy & Lisa per il progetto benefico “We Are The World”) e quindi il pop-jazz piacevolmente malinconico di Power Fantastic, altra collaborazione di Prince coi Revolution per un album del 1986 che avrebbe dovuto chiamarsi “The Dream Factory” ma che poi non è mai stato pubblicato in quanto tale.

Passando infine ai due dischi contenenti gli “Hits”, posso dire che si tratta di due raccolte eccellenti, comprendenti brani tratti dagli album del periodo 1978-1992 più alcuni succosi inediti come il quasi-country orchestrale di Pink Cashmere, un’intensa Nothing Compares 2 U registrata dal vivo coi New Power Generation, il sexy hip-hop di Pope e soprattutto la rockeggiante Peach, edita anche su singolo per promuovere l’antologia. Dal capitolo “Hits” è rimasto clamorosamente fuori Batdance, numero uno nella classifica americana del maggio 1989 (ma la politica dell’epoca della Warner in fatto di raccolte era forse restìa all’inserimento di brani tratti dalle colonne sonore come appunto Batdance è; dalla doppia raccolta “The Immaculate Collection” di Madonna, per esempio, è rimasto addirittura fuori quel successone di Who’s That Girl, brano tratto dalla colonna sonora dell’omonimo film), ma non mancano di certo brani princiani fondamentali come When Doves Cry, Kiss, Sign ‘O’ The Times, Purple Rain, Cream, 1999, Alphabet St., Diamonds And Pearls, Little Red Corvette, Controversy, Soft And Wet e I Wanna Be Your Lover. Per quanto mi riguarda, avrei preferito l’inclusione di America, Mountains, I Wish U Heaven e My Name Is Prince in luogo di brani come When You Were Mine, Uptown, Delirious e 7 ma, lo ribadisco, si tratta nel complesso di una raccolta eccellente.

Insomma, in ultimissima analisi, “The Hits/The B-Sides” è davvero la miglior antologia per qualsiasi appassionato di musica che voglia avvicinarsi per la prima volta alle canzoni di Prince o anche solo per testarne la straordinaria versatilità sonora nell’arco di ben quindici anni di storia. Se poi, come nel mio caso, questa antologia vi dovesse capitare davanti con un prezzo al di sotto dei 20 euro non vi fate scrupoli: prendete, pagate & portare a casa! Non ve ne pentirete. – Matteo Aceto

Prince, “Sign ‘O’ The Times”, 1987

prince-sign-o-the-times-immagine-pubblicaFra i migliori album di Prince, fra i migliori dischi pubblicati negli anni Ottanta, fra i migliori lavori ascrivibili all’esaltante campo della musica nera… insomma, un capolavoro! Sto parlando di “Sign ‘O’ The Times”, nono album da studio del folletto di Minneapolis, uno di quegli album dai quali non potrei mai separarmi e che nel classico & un po’ idiota giochino dell’isola deserta mi porterei senz’altro appresso, assieme a una mole notevole di materiale beatlesiano e poco altro.

Pubblicato dalla Warner Bros nella primavera del 1987, “Sign ‘O’ The Times” vide nuovamente Prince proporsi come artista solista, dopo la parentesi di grosso successo riscossa dalla società Prince & The Revolution, quella degli album “Purple Rain” (1984), “Around The World In A Day” (1985) e “Parade” (1986). In realtà le cose nel 1986 non erano andate troppo bene per il nostro: l’album “Parade” era stato sì un successo – soprattutto grazie al noto singolo di Kiss – ma non il film del quale l’album era la colonna sonora, “Under A Cherry Moon”, che si rivelò il primo grande flop di Prince. Anche per questo motivo, la Warner non era disposta a pubblicare un triplo album al principio dell’87, un lavoro sperimentale dal titolo di “Crystal Ball”: e allora il folletto tagliò e ricucì il triplo album fino a farlo diventare un doppio, che prese quindi il nome di “Sign ‘O’ The Times”. Un po’ complicato? Beh, ma lo è la stessa vicenda artistica di Prince, tanto che alcuni suoi progetti irrealizzati sono diventati per giunta celebri.

Ciò che conta, tornando al tema di questo post, è che “Sign ‘O’ The Times” riportò in alto le quotazioni del nostro, anzi forse non raggiunsero mai una tale pressoché perfetta sintonia di riscontri fra gli acquirenti di dischi e i critici musicali. Ora però, dopo questi brevi cenni storici, passiamo all’aspetto più importante, la musica: abbiamo nove brani nel primo disco e sette nel secondo, per un totale di sedici canzoni piuttosto funky (Hot Thing, It, Forever In My Life, If I Was Your Girlfriend), dall’arrangiamento alquanto scarno e quasi tutte eseguite dal solo Prince. Non mancano canzoni più elaborate, di tutt’altro genere, che s’avvalgono dei preziosi collaboratori che incidevano col nostro in quegli anni: il sassofonista Eric Leeds, il trombettista Atlanta Bliss, la percussionista e vocalist Sheila E., il chitarrista Miko Weaver, il conduttore d’orchestra Claire Fischer, ma anche le stesse Wendy Melvoin e Lisa Coleman dei Revolution, di lì a poco in duo come Wendy & Lisa. Il brano più famoso è senzaltro l’omonima Sign ‘O’ The Times, non solo una delle canzoni più celebri di Prince ma anche una delle sue migliori: su una secca ma irresistibile base funk – preprogrammata elettronicamente – il nostro canta con voce impassibile un crudo testo metropolitano che introduce al grande pubblico anche l’emergente (per quegli anni) tema dell’AIDS. Una canzone Sign ‘O’ The Times che ci mostra un artista maturo, impegnato e in splendida forma artistico-espressiva (giustamente, il brano è stato scelto come singolo apripista, sebbene in una versione più corta). Altri brani degni di nota sono Play In The Sunshine, scanzonato brano rockabilly (genere non atipico nella produzione princiana), il sublime soul-funk di The Ballad Of Dorothy Parker, la stravaganza pop di Starfish And Coffee, la lenta e melodica Slow Love, il trascinante pop-rock di I Could Never Take The Place Of Your Man (pubblicata su singolo in una versione molto più breve), lo spiritual blueseggiante di The Cross e la splendida ballata soul di Adore (anch’essa editata su singolo). Discorso a parte per la lunga e divertente It’s Gonna Be A Beautiful Night, basata su un pezzo registrato dal vivo a Parigi assieme ai Revolution e ad alcuni dei partner musicali del nostro in quegli anni (la sexy Jill Jones, il simpatico Jerome Benton, la brava Sheila E.).

Altro discorso a parte per quattro canzoni qui incluse e provenienti da un altro progetto scartato, “Camille”, un album di otto pezzi funk dove la voce di Prince veniva accelerata per somigliare a quella di una donna: abbiamo quindi la festaiola Housequake, accattivante fusione fra sonorità rap e funky, la calda e coinvolgente U Got The Look (altro singolo), che è una collaborazione fra Prince e una delle sue tante protette, la bella scozzese Sheena Easton, il lento ma sofisticato funk di If I Was Your Girlfriend (altro singolo) e la saltellante & danzereccia Strange Relationship, tutte fra le più interessanti canzoni mai proposte dal nostro.

Ultime due parole per la già citata Adore, la splendida e romantica soul-ballad che chiude l’album: oltre ad offrirci un saggio della grande versatilità vocale di Prince (durante il pezzo passa con gran disinvoltura dal suo caratteristico falsetto a timbri più bassi), pare che a suonarvi la tromba non sia il buon Atlanta Bliss bensì il leggendario Miles Davis. In effetti il noto musicista jazz viene ringraziato nelle note di copertina come ‘Miles D.’ e in quel periodo i due artisti si erano incontrati più volte progettando di collaborare a del materiale inedito.

Per concludere, “Sign ‘O’ The Times” è un album che – insieme a “Purple Rain”, “The Black Album”, “Lovesexy” e “Love Symbol” – reputo indispensabile per capire & apprezzare appieno l’arte di Prince. Resta comunque un doppio album godibilissimo di musica nera, che non scontenterà per nulla gli amanti del genere. – Matteo Aceto

Prince: storia e discografia

prince-immagine-pubblicaPrince Roger Nelson nasce a Minneapolis (Minnesota) il 7 giugno 1958 da genitori musicisti: papà John Nelson è un pianista jazz, mamma Mattie (d’origini indiane) è invece una cantante. Prince, insieme a fratelli e sorelle, è quindi abituato fin da piccolo alla musica: all’età di dieci anni suona già piano, batteria e chitarra. Tuttavia l’armonia in casa Nelson dura poco perché i genitori si separano e il piccolo Prince viene sballottato a destra e a sinistra. Trova l’equilibrio nella musica, fondando il gruppo dei Grand Central, band nella quale militano anche Terry Lewis e Jimmy Jam, in futuro fortunatissimi produttori discografici.

Le ambizioni di Prince, così come la sua esuberante personalità, sono però troppo grandi per restare confinate in un gruppo che, tuttavia, desta l’attenzione della Warner Bros. E’ proprio con la Warner che il ventenne Prince debutta quindi su disco: “For You” esce nel 1978 e contiene già un singolo memorabile, Soft And Wet. L’anno successivo è la volta dell’omonimo album “Prince”, contenente l’altrettanto memorabile I Wanna Be Your Lover ma anche Why You Wanna Treat Me So Bad?, dove il nostro dimostra la sua grande abilità chitarristica. Nell’80 esce “Dirty Mind”, con Prince che perde definitivamente la sua innocenza e diventa quell’artista che oggi tutti conoscono; già la copertina è tutta un programma, mentre i testi, soprattutto Head, sono molto espliciti sessualmente. Altra evoluzione nel 1981, con l’album “Controversy”: in copertina, Prince assume quel look glam e sgargiante che lo caratterizzerà per gran parte degli anni Ottanta ma soprattutto il disco contiene l’omonima Controversy (singolo tra i migliori di Prince), Do Me Baby e un primo esempio di critica sociale nella sua musica, ovvero Ronnie Talk To Russia.

Fin qui, il genio di Minneapolis ha dato prove convincenti della sua abilità polistrumentistica ma anche vocale, dato che spesso tutte le voci che si ascoltano sono sempre sue. Abilità, queste, che torneranno utili spesso & volentieri nel corso della sua lunga discografia, anche se, nel periodo 1982-83, Prince appronta una band di collaboratori più o meno fissi, alla quale darà il nome The Revolution. Il primo frutto di questa collaborazione è l’album “1999”, uscito nell’82: secondo i più, è il primo album importante di Prince, quello nel quale getta le fondamenta dello stile e della musica princiana da qui al futuro. E’ vero comunque che “1999” contiene il primo grande hit del nostro, Little Red Corvette, ma anche l’omonima 1999 e Delirious. Prince è ormai giustamente considerato un astro nascente: apre il tour americano dei Rolling Stones e inizia a scrivere, produrre e suonare canzoni per altri artisti, tra cui The Time, Vanity 6 e Apollonia 6.

Nel 1983 le ambizioni di Prince raggiungono un nuovo stadio: vuole realizzare un film con relativa colonna sonora, una storia parzialmente autobiografica dal titolo “Dreams”. Nel frattempo contatta il regista Albert Magnoli, affida la parte femminile ad Apollonia Kotero e inizia a comporre coi Revolution alcune delle sue canzoni più straordinarie: Let’s Go Crazy, I Would Die 4 U, Baby I’m A Star ma soprattutto quello splendido inno che è Purple Rain. Sarà proprio “Purple Rain” il titolo scelto per il film e la colonna sonora, entrambi editi nell’84. Il film è in parte bello e doloroso, mentre la colonna sonora, il primo album di Prince co-accreditato ai Revolution, è la cosa che più m’interessa: si tratta del primo grande successo mondiale di Prince, il quale diventa un’affermata star internazionale. Il disco, a mio avviso, contiene un solo brano brutto (Darling Nikki, che poco sopporto) con tutti gli altri che sono uno meglio dell’altro. Vi sono anche canzoni incise completamente dal solo Prince, come le stupende The Beautiful Ones e When Doves Cry; quest’ultima, pubblicata anche su singolo, riceve un Grammy come miglior brano del 1984.

Prince e i Revolution, comunque, non dormono sugli allori e tra la promozione del film, del disco e del tour di “Purple Rain” tornano in studio per registrare un nuovo album. “Around The World In A Day” esce così nell’85: sulla scia di “Purple Rain” ha un enorme successo istantaneo ma sul lungo termine le vendite risultano meno significative e l’album riceve diverse critiche. Certo, è un lavoro meno immediato di “Purple Rain” ma il suo gusto psichedelico, quasi beatlesiano, la dice lunga sul talento di un uomo che non si ferma di fronte a nulla, nemmeno alle sicurezze del successo. C’è da dire che “Around The World In A Day” include alcuni dei brani migliori di Prince, quali Paisley Park (dal nome del suo celebre studio/quartier generale di Minneapolis), Pop Life, Condition Of The Heart, America e Raspberry Beret. In questi anni risalta un’altra caratteristica di Prince: la sua debordante creatività che lo spinge a inserire nuovi brani dappertutto, in particolare nei lati B dei singoli. Spesso i B-side non hanno nulla d’eccezionale, invece quelli di Prince (così come quelli di pochi altri artisti) sono assolutamente meritevoli di stare negli album, ascoltare ad esempio 17 Days per credere. Ma ce ne sono innumerevoli nella storia di Prince, soprattutto nel periodo 1981-1993: per chi volesse andare fino in fondo, consiglio il fondamentale box-set di tre ciddì “The Hits/The B-Sides” del ’93.

Prince e soci tornano alla carica nel 1986 con un nuovo film, “Under The Cherry Moon” (girato in bianco e nero, per lo più a Parigi) e la relativa colonna sonora, “Parade”. Il film viene stroncato e non ottiene la stessa entusiastica risposta di pubblico di “Purple Rain”, mentre “Parade” è riconosciuto come uno dei dischi migliori di Prince, soprattutto perché trainato da uno dei suoi singoli più celebri e amati, Kiss. L’album contiene comunque altri episodi felici come Mountains, Sometimes It Snows In April, Girls & Boys e Life Can Be So Nice. Nella seconda parte dell’86, Prince torna in studio per incidere “Dream Factory”, il suo quarto album coi Revolution, ma le cose non vanno nel verso giusto: i Revolution si sciolgono e ognuno va per la propria strada (il duo femminile Wendy & Lisa otterrà anche un discreto successo negli anni Ottanta), soprattutto Prince che torna ad essere un artista solista finalmente libero di dare sfogo alla sua incredibile creatività. Il genio di Minneapolis produce album (c’è chi dice che li scriva, li canti e li suoni pure) per i Madhouse, Sheila E. (una bravissima percussionista che continua a collaborare con Prince anche oggi) e Jill Jones, collabora segretamente anche con Miles Davis e di questo ne parliamo in seguito. Da solo, il nostro incide un intero album con uno pseudonimo, Camille: l’album contiene otto brani decisamente funky dai testi piccanti ma viene ritirato per motivi ignoti. Prince incide anche un triplo album dal titolo “Crystal Ball” ma la Warner glielo contesta: troppo lungo, che diamine! Prince risponde con un nuovo album, un doppio, “Sign ‘O’ The Times“, pubblicato nella primavera del 1987: anticipato dal superbo singolo omonimo, “Sign ‘O’ The Times” riscuote un grosso successo di vendite e di critica in tutto il mondo ed è tuttora considerato uno dei lavori migliori di Prince. Dal tour internazionale di “Sign ‘O’ The Times” Prince ricava anche l’omonimo film-concerto ma, anche in questo caso, non dorme sugli allori.

Nel corso dell’anno torna in studio e registra il suo album più funky, dal titolo emblematico di “The Black Album“. Infatti la grafica del disco è interamente nera, senza crediti e senza informazioni, le uniche scritte, quelle relative al numero di catalogo, sono stampate in color rosa-pesca. Non è prevista altresì alcuna promozione, niente video e tanto meno interviste (le interviste di Prince sono comunque rare) mentre la Warner stampa il disco e s’appresta a pubblicarlo per il Natale ’87. Anche in questo caso però, all’ultimo momento, il “Black Album” viene ritirato dal mercato: pare che i dirigenti della Warner ma anche lo stesso Prince abbiano manifestato dubbi su testi troppo espliciti sessualmente o troppo duri. Ancora una volta, comunque, il genio di Minneapolis decide d’andare avanti e per la primavera dell’88 fa uscire un nuovo album, “Lovesexy”, uno dei suoi migliori in assoluto, anticipato dal formidabile singolo Alphabet Street. Sempre dell’88 è la colonna sonora del film “Bright Lighs Big City” con Michael J. Fox: vi è inclusa l’inedita Good Love, uno degli otto brani incisi sotto lo pseudonimo di Camille (Prince che canta con la voce accelerata…, altri brani sono finiti in “Sign ‘O’ The Times”, nel “Black Album” e in alcuni singoli del periodo 1987-89, lasciando in archivio la sola Rebirth Of The Flesh).

Nel 1989 esce un nuovo album di Prince, la colonna sonora del celebre “Batman” di Tim Burton, per il quale il nostro scrive le canzoni. Il singolo Batdance vola al 1° posto trascinandovi anche l’album, mentre Prince ha una storia con la protagonista femminile del film, Kim Basinger (addirittura i due partecipano al singolo The Scandalous Sex Suite, titolo che è tutto dire). Non so se lavorare a “Batman” abbia risvegliato la passione per il cinema in Prince ma tant’è che nel 1990 esce il suo terzo film vero e proprio, “Graffiti Bridge”, accompagnato dall’omonima colonna sonora. Il film è il seguito di “Purple Rain” ed è girato dallo stesso Prince come un lungo e patinato videoclip: agli ammiratori di Prince come me il film è piaciuto, meno al grande pubblico e alla critica. La colonna sonora, che figura anche altri artisti (ri)lanciati da Prince (George Clinton, Tevin Campbell, Mavis Staples, The Time, Ingrid Chavez…) contiene ottime canzoni quali Thieves In The Temple, Still Would Stand All Time, The Question Of U e New Power Generation. Nel ’90 esce anche Nothing Compares 2 U, il brano più famoso e fortunato di Sinéad O’Connor, scritto da Prince qualche anno prima per un altro dei suoi protetti, The Family. In quel periodo la O’Connor ha anche una breve relazione con Prince, dopo che questi ebbe pure una storia con Madonna.

Nel 1991 la carriera di Prince riparte con una nuova band, The New Power Generation (o anche NPG), e un nuovo disco, “Diamonds And Pearls”. L’album include dei brani bellissimi e innovativi come il singolo Cream (al 1° posto della classifica USA), la ballata Diamond And Pearls (dove Prince duetta con la sua nuova scoperta, Rosie Gaynes), Money Don’t Matter 2Nite, Gett Off e Thunder, e riscuote un grosso successo internazionale. Tra il ’91 e il ’92 la formazione dei NPG subisce un cambiamento d’organico: la Gaynes se ne va per dedicarsi alla carriera solista e il suo posto è rilevato da Mayte che, seppur meno dotata artisticamente, è una gran bella figliola! Nel ’92, dopo che Prince firma per la Warner il secondo contratto discografico più lauto della storia (lo batte solo Michael Jackson che aveva rinnovato l’anno prima con la Sony), esce l’omonimo album “Prince And The New Power Generation”, contraddistinto da un fantasioso simbolo grafico che celebra l’unione tra uomo e donna, da cui anche il soprannome di “Love Symbol” al disco in questione.

I due album realizzati da Prince coi NPG definiscono un nuovo sound per l’artista di Minneapolis: la sua musica, se possibile, è diventata ancora più black, dato che il rap e i suoni urbani dell’hip-hop la fanno da padroni. Una caratteristica comune a tante altre stelle nere della musica: negli anni Novanta, artisti del calibro di Michael Jackson, Whitney Houston ma anche la grande Aretha Franklin, tanto per fare degli esempi, hanno accentuato i tratti salienti del black sound a discapito del tipico orientamento pop-rock che più piace ai bianchi. Evidentemente, per gli artisti afroamericani, gli anni Novanta hanno rappresentato l’affermazione definitiva della black culture nell’industria discografica di massa, anche a costo d’una parziale contrazione del pubblico bianco.

Nel ’93 la carriera discografica di Prince compie quindici anni: è tempo di celebrazioni e, per l’occasione, escono due stupende raccolte in simultanea chiamate “The Hits 1” e “The Hits 2” che includono i maggiori successi di Prince, più rarità, inediti e il nuovo rockeggiante singolo di Peach. Esce anche un’edizione limitata in tre ciddì chiamata “The Hits/The B-Sides” che include i due compact “Hits 1” e “Hits 2” più un terzo disco contenente rarità e la maggior parte dei tanti lati B dei singoli. Ma c’è anche qualcosa di nuovo, di strano, che coinvolge più da vicino la storia di Prince: l’artista annuncia di voler cambiare nome e per identificarsi utilizza quel Love Symbol apparso sull’album del ’92. La prima cosa che pubblica sotto questo ‘nome’ è un maxi singolo chiamato “The Beautiful Experience” che vede la luce nella primavera del ’94, dopo che Prince si è sposato con Mayte. La Warner, però, lo forza a pubblicare un nuovo album col suo nome storico: esce così, ad agosto, “Come”, un album piuttosto cupo ma certamente tra i più suggestivi di Prince. Seguono tensioni con la casa discografica che, nel novembre di quell’anno, pubblica anche la versione ufficiale del “Black Album”. La protesta di Prince giunge con un album significativamente chiamato “Exodus” (esodo): il disco, edito dalla Edel, è accreditato ai soli New Power Generation ma Prince c’è e si sente… come membro dei NPG è accreditato come Tora Tora e la sua foto è volutamente ritoccata con della sovraesposizione rossa sul volto.

Apparentemente, Prince e la Warner fanno pace e così, nel 1995, esce “The Gold Experience”, un nuovo album di Prince accreditato ufficialmente col noto simbolo grafico: si tratta d’un bel disco che contiene una delle mie canzoni preferite di Prince (o di come volete chiamarlo…), I Hate U. La pace dura però poco, Prince si rifiuta di suonare vecchio materiale nei concerti e inizia a farsi fotografare con la scritta ‘slave’ (schiavo) sulla guancia. Nel corso del ’96, la Warner forza Prince a pubblicare un nuovo disco: ne viene fuori “Chaos & Disorder”, un album raffazzonato di vecchie registrazioni e scarti. Il singolo, Dinner With Delores, è però carino anche se nel videoclip Prince mostra più volte la scritta ‘slave’ sulla sua guancia. Dopo quest’album, Prince riesce a divincolarsi dalla Warner e firma per la Capitol-EMI, la quale, a fine anno, pubblica un incredibile triplo ciddì, “Emancipation“. Simbolicamente, sulla copertina del disco, oltre al consueto marchio grafico col quale Prince ormai s’identifica, si vedono le sue mani che spezzano le catene. Per me “Emancipation” è un album straordinario, uno dei miglior di Prince: mi piange il cuore vederlo in alcuni centri commerciali alla misera cifra di sette euro… ma tant’è.

Tuttavia, sarà all’incirca in questo periodo che smetto di seguire Prince: non per cattiva volontà ma per il fatto che lui continua a pubblicare dischi dopo dischi (il video con pezzi inediti di “The Undertaker”, il balletto “Kamasutra”, la stampa ufficiale di “Crystal Ball” – il triplo album inedito datato 1986 – , un disco acustico chiamato “The Truth”, un album di Mayte dove pare che suoni tutto lui e tanti altri progetti che ci vorrebbe un altro post per elencarli tutti!) mentre la mia enorme curiosità musicale mi porta ad esplorare le discografie di altri artisti. Rimango però affezionato a Prince, altrimenti non sarei qui a parlarne: nel ’98 pubblica un nuovo album, “Newpower Soul”, per la seconda volta accreditato ai soli NPG. Nel ’99 è la volta di “Rave Un2 The Joy Fantastic”, mentre la Warner pubblica una (stavolta convincente) raccolta d’inediti del periodo 1985-93 chiamata “The Vault… Old Friends For Sale”.

Nel 2000 stranamente non esce nulla (o forse sono io che ho perso il conto…) ma nel 2001 viene pubblicato “The Rainbow Children“, dove Prince sembra far pace col suo passato e tornare a quel nome che lo ha reso famoso in tutto il mondo. E’ appunto presentandosi come Prince che ho il piacere d’assistere a un suo concerto il 31 dicembre 2002: parto completamente solo da Pescara, destinazione Milano, lo storico Palatrussardi. Quando Prince ha suonato Purple Rain con la sua chitarra personalizzata ho avuto brividi a mille lungo la schiena… ma andiamo avanti… o meglio, sorvoliamo sulla discografia (…”Musicology”, lo devo dire, esce nel 2004) e giungiamo al marzo 2006 quando il nuovo album di Prince, “3121” giunge nei negozi e di lì a poco conquista la vetta della classifica americana, un risultato che non si ripeteva dai tempi della colonna sonora di “Batman”.

Prince conferma il suo buon momento anche nel 2007 con l’album “Planet Earth” e un’incredibile serie di ventuno concerti a Londra che hanno riportato il suo nome, quello vero e noto in tutto il mondo, in tutte le principali pagine – vere o virtuali – dei giornali musicali. Prince, insomma, sopravviverà al decennio restando credibile e senza perdere nulla del suo fascino e del suo carisma. Non potrà dirsi la stessa cosa nel decennio successivo, e precisamente il 21 aprile del 2016: una notizia scioccante scuote il mondo, Prince è morto! Dopo un’altra morte illustre, quella di David Bowie avvenuta soltanto tre mesi prima, l’inaspettata morte del folletto di Minneapolis segna a suo modo un’epoca. Di lui si continuerà a parlare per molti decenni ancora. (

DISCOGRAFIA

For You (1978)

Prince (1979)

Dirty Mind (1980)

Controversy (1981)

1999 (1982)

Purple Rain (1984, con The Revolution)

Around The World In A Day (1985, con The Revolution)

Parade (1986, con The Revolution)

Sign ‘O’ The Times (1987)

The Black Album (1987)

Lovesexy (1988)

Batman (1989)

Graffiti Bridge (1990, con altri artisti)

Diamonds And Pearls (1991, con The New Power Generation)

Love Symbol (1992, con The New Power Generation)

Come (1994)

The Gold Experience (1995)

Chaos And Disorder (1996)

Emancipation (1996)

The Vault: Old Friends 4 Sale (1999)

Rave Un2 The Joy Fantastic (1999)

The Rainbow Children (2001)

N.E.W.S. (2003)

Musicology (2004)

3121 (2006)

Planet Earth (2007)

Lotusflow3r (2009)

20Ten (2010)

Plectrumelectrum (2014)

Art Official Age (2014)

HIT n RUN Phase One (2015)

HIT n RUN Phase Two (2016)