David Sylvian, “Brilliant Trees”, 1984

david sylvian, brilliant trees, 1984, immagine pubblica blogPrimo album solista per David Sylvian, pubblicato dalla Virgin nell’estate ’84, “Brilliant Trees” può essere pacificamente considerato come uno dei capolavori del pop inglese degli anni Ottanta. Che poi, a proposito, è anche uno di quei rari dischi degli anni Ottanta che non si dibatte in quel pantano synth-pop che era appunto il sound degli anni Ottanta che andava per la maggiore. E “Brilliant Trees”, tanto per dire, è stato un disco che è entrato agilmente nelle Top Ten di mezzo mondo.

Un disco senza tempo, insomma, come le vere opere d’arte, un album perfettamente in bilico tra le sonorità più pop dei Japan (band che lo stesso David Sylvian aveva capitanato fino a poco tempo prima) e le atmosfere ben più sperimentali che seguiranno nella lunga e sempre interessante carriera solista del nostro. Non è forse casuale la scelta di aprire “Brilliant Trees” con un brano che sembra uscito direttamente dagli archivi dei Japan come il saltellante funky di Pulling Punches (edito anche come singolo) e di chiuderlo con un pezzo che non potrebbe suonare più diversamente, ovvero lo stesso Brilliant Trees, forte di oltre otto incredibili minuti di atmosfera mistica che getta un raccordo tra spiritual, ambient e musica etnica.

In mezzo a tutto questo troviamo poi quella che secondo me è non soltanto una delle più belle canzoni di David Sylvian ma anche uno dei più bei pezzi pop di tutti i tempi, ovvero Nostalgia, il classico brano che da solo assolve tutto un disco e che giustifica i soldi spesi per l’acquisto. C’è anche un’altra perla come The Ink In The Well (edita anch’essa su singolo), un pop jazzato che anticipa le sonorità più acustiche che Sylvian avrebbe abbracciato in “Secrets Of The Beehive” (1987), altro lavoro imprescindibile per apprezzare questo affascinante cantante/musicista. Infine, accanto a un pezzo più convenzionalmente pop come Red Guitar (anch’esso su singolo) non mancano episodi ben più sperimentali ed atmosferici come Weathered Wall e Backwaters.

Inciso tra il 1983 e il 1984, tra Londra e quella Berlino che ancora soffriva della spaccatura tra Est e Ovest esemplificata da un vero e proprio muro, “Brilliant Trees” figura inoltre un cast di musicisti di tutto rispetto: Holger Czukay dei Can, Danny Thompson dei Pentangle, Kenny Wheeler, Mark Isham, Jon Hassell e Phil Palmer, oltre a quell’amico di una vita che risponde al nome di Ryuichi Sakamoto, al fratello Steve Jansen e al tastierista Richard Barbieri, questi ultimi due già con Sylvian al tempo dei Japan. – Matteo Aceto

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David Sylvian, Steve Jansen, Richard Barbieri, Mick Karn, “Rain Tree Crow”, 1991

rain-tree-crow-david-sylvian-steve-jansen-richard-barbieri-mick-karnIl periodo storico: a cavallo tra il 1989 e il 1990. I paesi dove sono avvenute le registrazioni: l’Inghilterra, l’Irlanda, la Francia, e anche la nostra Italia. I musicisti coinvolti: David Sylvian, Steve Jansen, Richard Barbieri, Mick Karn. L’obiettivo: la reunion dei Japan dopo il clamoroso scioglimento seguìto agli album “Tin Drum” e “Oil On Canvas” dei primi anni Ottanta. Il metodo: una serie di sedute dove la musica improvvisata la fa da padrona. Il risultato finale: un disco notevole pubblicato dalla Virgin dopo molti contrattempi, una reunion mancata, il mix finale di David Sylvian che scontenta gli altri, una crepa nei rapporti interpersonali che durerà anni.

Insomma, il disco che doveva segnare un nuovo inizio per i Japan viene invece ricordato per essere il loro testamento artistico, e per giunta sulla lapide non c’è scritto nemmeno Japan, bensì Rain Tree Crow. E’ con questo enigmatico nome, infatti, che Sylvian, Jansen, Barbieri e Karn rinnovarono il contratto con la Virgin, proponendo così una nuova edizione dei Japan che potesse rinascere negli anni Novanta, e chissà, magari anche oltre. E invece no, niente da fare. Potevano anche vantare un nuovo nome, eppure i nostri quattro protagonisti ricorsero alle vecchie, deleterie dinamiche di gruppo. I soldini, inoltre, finirono prima del previsto, e la Virgin acconsentì a finanziare ulteriormente il progetto a patto che la band tornasse a farsi chiamare Japan. Tutti d’accordo. Tutti tranne uno, David Sylvian. Il quale sborsò di tasca propria i soldi necessari alla conclusione dei lavori ma che, inevitabilmente, finì con l’impossessarsi del progetto, e col dare la veste definitiva all’album, che quindi fu chiamato “Rain Tree Crow”, come il nome stesso della “nuova” band.

Questa la storia dei musicisti coinvolti, altra è comunque la resa finale del cosiddetto prodotto finito. Un prodotto che a me è sempre piaciuto, con buona pace delle intenzioni originarie di chi l’ha concepito. “Rain Tree Crow” è un album alternativo, un ibrido pop-rock che spesso & volentieri sfocia nello sperimentalismo e nella cosiddetta musica ambient, dove i brani cantanti si alternano ad altri completamente strumentali. Eppure è un disco molto dinamico, anche nei momenti più quieti, grazie alla grande varietà di strumenti musicali e alle tecniche da sala d’incisione impiegati che lo rendono ricco di sfumature, le quali possono continuare a cogliersi ascolto dopo ascolto, anche col passare degli anni. Di “Rain Tree Crow” ne comprai una copia usata sul finire degli anni Novanta, quando stavo iniziando a interessarmi definitivamente all’arte di un musicista, David Sylvian, che ho sempre apprezzato: da lui sono passato ai Japan e quindi, inevitabilmente, a questa inconsueta e sfortunata (?) reunion a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta.

Mi è piaciuto così tanto, questo “Rain Tree Crow”, che non soltanto continuo ad ascoltarlo con immutato interesse anche oggi, ma che addirittura sono andato a comprarmene una seconda copia, un’edizione giapponese della prima ora, con tanto di libretto dei testi e confezione a mo’ di cofanetto. Ci ho speso un po’ ma ne è valsa la pena. Brani come Every Colour You Are, come Red Earth (con la chitarra di Phil Palmer a fare la differenza, come sempre), come Pocket Full Of Change, come Blackwater (il brano più convenzionalmente pop in scaletta, opportunamente edito anche su singolo, in quel lontano 1991), come Cries And Whispers sono da molti anni tra i miei favoriti nell’intero catalogo sylvianiano, tutti felicemente amalgamati in un disco che trovo piacevole all’ascolto anche mentre sono alla guida. – Matteo Aceto

Japan, “Gentlemen Take Polaroids”, 1980

japan-gentlemen-take-polaroids-immagine-pubblicaEcco uno di quegli album dei quali volevo parlare fin da quando ho iniziato a scrivere sul blog… però poi, si sa, passa oggi & passa domani… ma comunque eccolo qui senza più indugi, “Gentlemen Take Polaroids”, il disco capolavoro pubblicato dai Japan nell’ormai lontano 1980.

“Gentleman Take Polaroids” segna al contempo un punto d’arrivo e un punto di partenza nella vicenda artistica & umana dei nostri: è il primo album distribuito dalla Virgin (mentre i primi tre – “Adolescent Sex”, “Obscure Alternatives” e “Quiet Life” – erano usciti per la Hansa) ma è anche l’ultimo che vede la formazione dei Japan in quintetto.

Vale a dire il leader David Sylvian, il fratello batterista Steve Jansen, quel mago di bassista di Mick Karn, il tastierista d’origini italiche Richard Barbieri e il chitarrista Rob Dean, che lascerà quindi i Japan di lì a poco.

Proseguendo sulla strada stilistica già magnificamente tracciata dal precedente “Quiet Life”, in quest’album Sylvian e compagni giungono alla completa maturazione artistica, proponendoci otto lunghi brani perfettamente bilanciati fra sonorità funky, techno-pop, sperimentali, ambient e di raffinato pop d’autore, grazie a perle quali Swing, Methods Of Dance (forse la canzone dei Japan che più mi regala emozioni), Gentlemen Take Polaroids, Taking Islands In Africa (prima delle tante & notevoli collaborazioni fra David Sylvian e Ryuichi Sakamoto), Burning Bridges e Nightporter. Più trascurabili ma assolutamente indispensabili nell’economia dell’album sono la pulsante My New Career e l’esotica cover di Ain’t That Peculiar di Marvin Gaye.

Evidenti influenze in “Gentlemen Take Polaroids” sono le musiche prodotte da David Bowie durante il suo periodo berlinese e il morbido & sensuale soul-pop dei Roxy Music: tuttavia le composizioni scritte da David Sylvian, e affidate a quell’ottima band che all’epoca erano i Japan, brillano di luce propria grazie ad uno stile che già a quel punto della loro carriera era diventato un marchio di fabbrica. Inconfondibile, del resto, la bellissima voce di David, alla quale fa da grandioso contrappunto l’eccezionale lavoro al basso di Mick.

Nel 2003 la Virgin ha ristampato gli album dei Japan e di David Sylvian compresi fra il periodo 1980-1991 in eleganti confezioni cartonate ed impreziosite da alcuni brani aggiunti. Per quanto riguarda “Gentlemen Take Polaroids”, oltre a una diversa posa dell’immagine glam di David in copertina, figurano in aggiunta due suggestivi brani ambient del periodo, gli strumentali The Experience Of Swimming e The Width Of A Room, oltre che un ottimo remix della sakamotiana Taking Islands In Africa.

Un’ultima curiosità: sul retro copertina delle primissime stampe dell’album, nel 1980, al posto di Burning Bridges figurava la struggente ballata Some Kind Of Fool, poi scartata all’ultimo momento per mix insoddisfacente (ed infatti era presente la non accreditata Burning Bridges). Il brano originale resta tuttora inedito, anche se David Sylvian lo ha proposto nella sua eccellente raccolta “Everything And Nothing” (2000) dopo averne ricantato tutta la parte vocale. – Matteo Aceto