Queen, “Made In Heaven”, 1995

queen-made-in-heavenOriginariamente pubblicato il 27 novembre 2008, il post che segue è uno scritto rielaborato alla luce di quanto detto nel post precedente – a proposito delle canzoni inedite dei Queen – e soprattutto di quanto fatto ufficialmente pubblicare dai Queen stessi nel 2011, quando cioè vennero remasterizzati e ridistribuiti tutti i loro album con tanto di materiale inedito.

Sontuoso tributo a Freddie Mercury da parte dei suoi compagni di band, “Made In Heaven” – pubblicato dall’ormai defunta EMI nel novembre 1995 – viene ricordato come l’ultimo album dei Queen dell’era Mercury. Seppure, come vedremo, “Made In Heaven” è a volte pacchiano e perfino irritante è, tutto sommato, un disco apprezzabile. All’epoca il gruppo si procurò un sacco di critiche perché tacciato di voler sfruttare commercialmente il nome di Freddie e poi perché, a ben vedere, i brani contenuti in “Made In Heaven” non erano affatto tutti inediti. Sono stati infatti registrati in un periodo che va dal 1980 al 1991, per cui non si trattava del tanto strombazzato “ultimo disco di Freddie Mercury”. Ciò non impedì comunque a “Made In Heaven” di ottenere uno straordinario successo di vendite in tutto il mondo (ricordo che in Italia rimase per mesi in vetta alla classifica) e di essere addirittura acclamato come uno dei dischi migliori dei Queen.

Parliamoci chiaro: “Made In Heaven” non è affatto uno dei dischi migliori per rappresentare la musica dei Queen, né certamente IL miglior disco pubblicato dalla band, come il solito disinformato facilone disse all’epoca. Bisogna comunque dar atto a Roger Taylor, Brian MayJohn Deacon (i tre Queen superstiti) e David Richards (il produttore) di aver saputo cucire insieme canzoni & pezzi di canzoni che, tutto sommato, per noi orfani di Freddie Mercury rappresentarono un regalo più che gradito in quel Natale ’95.

L’album inizia con It’s A Beautiful Day che – come si evince dai contenuti bonus del remaster 2011 dell’album “The Game” (1980) – era una breve improvvisazione per piano & voce ad opera del solo Mercury, lunga appena un minuto & mezzo. Qui il resto del gruppo ha arricchito sontuosamente la scarna strumentazione originale, producendo addirittura tre versioni dello stesso pezzo: una lenta e meditabonda, vicina all’idea originale (posta ad apertura di “Made In Heaven”), una più veloce e rockeggiante (posta in chiusura) e quindi una terza che rappresenta una sorta di (brutta) fusione tra le altre due, edita come B-side del singolo Heaven For Everyone, nell’ottobre ’95.

Pubblicata su “Mr. Bad Guy“, il primo album solista di Freddie, Made In Heaven era in realtà avanzata dalle sedute dei Queen per l’album “The Works” (1984). May e compagni, si è detto, hanno qui recuperato il pomposo arrangiamento rock che la canzone avrebbe avuto se fosse stata pubblicata negli anni Ottanta su un disco dei Queen, a discapito della ben più delicata ballata che possiamo apprezzare su “Mr. Bad Guy”. Ebbene, ad oggi non abbiamo ancora avuto il privilegio di ascoltare una Made In Heaven suonata dai Queen tra il 1983 e il 1984, per cui quella che si sente in questo album del 1995 è nei fatti soltanto un notevole remix in chiave rock del pezzo solista di Freddie apparso dieci anni prima.

Let Me Live, a quanto pare, nacque da un’idea che Freddie Mercury e Rod Stewart misero su nastro nel 1983. Non è chiaro, tuttavia, chi altri vi abbia partecipato: i Queen al gran completo o il solo Roger Taylor? C’era anche Jeff Beck, come ho letto non so più dove? Quel che è certo è che, nel 1995, il resto dei Queen ha mostrato un “manufatto” eccezionale, espandendo magnificamente l’idea originale, con tanto di parti solistiche cantate – in successione – da Freddie, Brian e Roger (e questa è un’autentica novità nel canzoniere dei Queen), mentre i ritornelli sono sempre ad opera di Mercury. Una Let Me Live così presentata è bella, tuttavia mi sono sempre detto che, senza la morte di Freddie, una canzone in tale forma non sarebbe mai apparsa in nessun album dei Queen. Incorpora anche elementi presi da Piece Of My Heart di Janis Joplin, e da una delle primissime registrazioni dei Queen, Goin’ Back. Non so, in definitiva, quanto Freddie avrebbe potuto gradire il tutto.

Assai più interessante resta Mother Love, a quanto pare l’ultimissima canzone cantata da Mercury ad essere stata immortalata su nastro, nel luglio ’91. Cantata fino ad un certo punto, perché gli ultimi versi sono ad opera di May. Ma che canto! Il tema di questo pezzo bluesy è la disillusione e il bisogno di protezione in vista della fine che si approssima inesorabilmente, con una passione da parte di Freddie davvero da antologia. In qualche modo, il finale del pezzo – un mix discutibile di canzoni che scorrono all’indietro e altri effetti (fra cui la nota esibizione a Wembley nell’86 ed i primi versi di Goin’ Back – ancora!) – rovina l’atmosfera ma probabilmente Mother Love resta tuttora la giustificazione principale per comprarsi “Made In Heaven”. Da segnalare, infine, il bell’assolo centrale di chitarra ad opera di Brian, perfettamente in sintonia con l’atmosfera mesta del brano.

My Life Has Been Saved, per quanto gradevole, è una di quelle canzoni che non vedo per quale motivo siano state incluse qui. Forse per dare qualche credito in più a John Deacon, l’autore iniziale di un pezzo che, come molti del periodo 1989-95, è però accreditato collettivamente come Queen. Originariamente pubblicata come lato B del singolo Scandal (ottobre ’89), questa orecchiabile ballata rock viene se non altro presentata in una forma più robusta e levigata rispetto alla versione precedente, che è anche possibile ascoltare come bonus nell’edizione 2011 Digital Remaster di “Made In Heaven”.

Da quel che ci è dato sapere tuttora, la successiva I Was Born To Love You ha seguìto lo stesso iter di Made In Heaven: entrambe pensate per i Queen ma infine pubblicate su “Mr. Bad Guy”, a entrambe sono state sovrapposte per questo progetto dei grintosi arrangiamenti rock eseguiti dal gruppo. Se il risultato su Made In Heaven è notevole, qui – secondo me – s’è realizzato un vero impiastro. Al di sotto della voce originale di Freddie versione solista 1985, infatti, si ascolta un raffazzonato rock da stadio che sembra includere pure elementi tratti dalla versione di A Kind Of Magic che si ascolta nel film “Highlander” e da Living On My Own, altro celebre pezzo solista tratto dal saccheggiatissimo “Mr. Bad Guy”. Sono passati oltre vent’anni dalla prima volta che ho ascoltato questa rivisitazione alla Queen di I Was Born To Love You e ancora non riesco a farmela piacere. Così come ancora non ascolto la presunta “versione originale” eseguita dai Queen in quei fatidici anni 1983-85. Esisterà?

Edita come singolo apripista di “Made In Heaven”, Heaven For Everyone è invece una delle migliori realizzazioni dei Queen. A questo punto ci si chiede perché questa ruggente ballata rock sia stata esclusa dall’album “A Kind Of Magic” (1986), anche se reimpiegata in seguito per un progetto solista di Roger Taylor (autore del brano) datato 1987, che vi ha fatto cantare lo stesso Freddie Mercury. Forse, anche in questo caso, non esiste una versione di Heaven For Everyone eseguita dai Queen in quanto tali negli anni Ottanta; è più probabile che esista un provino eseguito dal solo Roger, provino che poi ha fatto ascoltare agli altri al momento di scegliere quali pezzi utilizzare per “A Kind Of Magic” e quindi scartato. Ma un giorno non troppo lontano, sono fiducioso, sapremo la verità!

Altra gemma perduta di quella seconda metà degli Ottanta è la successiva Too Much Love Will Kill You, struggente ballata esclusa per un soffio dall’album “The Miracle” (1989): per anni mi sono chiesto perché i Queen hanno scelto brani decisamente più insipidi come The Invisible Man (che scopiazza il tema di Ghostbusters, a mio avviso) o Rain Must Fall a discapito di questa magnifica canzone, anche se oggi posso dire che con molta probabilità c’era un conflitto tra autori per quanto riguarda il copyright. Ad ogni modo, la passione con la quale Freddie affronta il testo è semplicemente da brividi, mentre molto emozionante risulta anche il bell’assolo di chitarra di Brian. Comunque sia, anche Too Much Love Will Kill You non restava completamente inedita a noi fan: reincisa dal solo May per il suo album solista “Back To The Light” (1992), la canzone è stata anche eseguita dal vivo dallo stesso chitarrista al Pavarotti International del ’93.

You Don’t Fool Me è invece un inedito tratto dalle sedute di “Innuendo” (1989-1990), o comunque inciso di lì a poco; lo si avverte benissimo dal cambiamento della voce di Freddie, purtroppo già minata dalla malattia. Partendo da quella che mi sembra un’idea di base minima e poco abbozzata (con uno schema ritmico che mi ha sempre un po’ ricordato Oh Pretty Woman di Roy Orbison), qui bisogna dar merito ai Queen superstiti d’aver dato vita ad un pezzo rock coi controcazzi. Un plauso particolare va a Brian May che, nella parte centrale della canzone, si sfoga in un lungo e superbo assolo, fra i migliori della sua intera carriera.

Così come Mother Love, anche A Winter’s Tale rappresenta una delle più alte vette toccate in “Made In Heaven”, così come entrambe – e mi piace sottolinearlo – sono idee nate dall’estro di Freddie Mercury. Commovente ballata, triste ma a suo modo consolatoria, A Winter’s Tale resta tuttora una delle canzoni più belle che io possa vantare nella mia collezione di dischi. A voler dar credito a Jim Hutton, l’uomo accanto al quale Freddie visse gli ultimi sette anni della sua vita, A Winter’s Tale risale al 1990 ed era stata pensata dal cantante come primo tassello d’un suo prossimo (e purtroppo mai realizzato) album solista, il cui titolo sarebbe stato “Time In May”.

Inutile eppure paradossalmente necessaria nell’economia di “Made In Heaven”, ecco la versione rock di It’s A Beautiful Day, un brano ben più veloce che incorpora anch’esso elementi di una vecchia registrazione dei Queen, Seven Seas Of Rhye, un singolo datato 1974. Perché?

L’originale edizione in vinile di “Made In Heaven”, quella datata 1995, terminava così, mentre agli acquirenti del ciddì veniva “offerta” a conclusione del disco una lunga traccia ambient della durata di oltre venti minuti. Non si sa granché di questa insolita composizione, né di chi vi ha preso effettivamente parte (c’è Freddie Mercury o no? e John Deacon sarà presente?) e né quando/come sia stata registrata. L’avrò ascoltata quattro o cinque volte in vent’anni; oggi come come oggi mi sembra di sentirci del materiale scartato e/o rielaborato dalle sedute d’incisione per la colonna sonora di “Flash Gordon” (1980), ma potrei anche sbagliarmi.

In quel novembre del 1995 storsi il naso quando uscì “Made In Heaven”; con grande sorpresa degli amici, non mi fiondai al negozio per comprarmelo subito. Attesi qualche settimana e poi, titubante, mi portai anch’io a casa un disco che migliaia d’italiani erano andati a comprarsi per Natale, pure gente che dei Queen non aveva mai sentito una nota. Ovviamente gli inediti – e soprattutto, come detto, A Winter’s Tale e Mother Love – li trovai molto interessanti, tuttavia l’idea che tutto questo che abbiamo visto fosse stato spacciato come un nuovo album dei Queen non mi piacque affatto.

Avrei preferito, allora come oggi, una bella compilation d’inediti e versioni alternative tipo “Anthology” dei Beatles, il cui primo capitolo usciva proprio in concomitanza del “nuovo album dei Queen”. Se non altro, in anni recenti ho in parte eliminato le mie vecchie riserve su “Made In Heaven”: ascoltandolo per bene dalla prima all’ultima canzone, devo dar atto ai signori May, Taylor e Deacon di aver effettuato allora una lodevole attività di recupero artistico. – Matteo Aceto

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Fatti, smentite & opinioni personali sui Queen

Quei pochi che abitualmente leggono questo sito lo sanno: sono sempre stato un grande appassionato dei Queen. Il celeberrimo gruppo inglese è stato il primo verso il quale ho nutrito quella genuina manìa che ti porta a comprare in poco tempo tutti gli album e le raccolte fin lì realizzate. Per la verità ho ascoltato i Queen da sempre: anche se inconsapevolmente, mi ricordo benissimo di aver sentito – negli anni Ottanta, quand’ero bambino – brani come Another One Bites The Dust e Radio Ga Ga alla radio. Probabilmente conobbi il nome Queen sul finire di quel decennio, quando la Lancia (all’epoca vittoriosissimo marchio automobilistico impegnato nei rally con la mitica HF integrale) pubblicizzava i suoi successi con uno spot televisivo nel quale si sentiva l’originale We Are The Champions. E’ in quell’occasione che chiesi agli adulti ‘di chi è questa canzone?’. ‘Dei Queen’, mi rispose qualcuno.

In tutti questi anni, però, devo tristemente ammettere che ho letto & sentito più cazzate sul conto dei Queen e di Freddie Mercury che di ogni altro gruppo del pianeta. Per dirne una, ricordo benissimo anche un orribile articolo su una rivista musicale per adolescenti che compravo quando andavo alle superiori, “Tutto – Musica e Spettacolo”: in un servizio su Mercury a pochi anni dalla morte, si leggeva in una didascalia accanto ad una foto che Freddie si trovava in un party fra travestiti… era un’immagine tratta dal videoclip di The Great Pretender, ma quale party fra travestiti?! Come ho detto, ne ho sentite & lette davvero tante, sia dai comuni appassionati e sia da chi scrive di musica per mestiere (nel senso che viene pagata per farlo). E allora, imbarcandomi in una titanica impresa, ecco una serie di fatti veri, falsi (e quindi smentiti) e una serie di opinioni del tutto personali su quello che sono & che hanno rappresentato i Queen.

  • E’ difficile ascoltare casualmente i Queen: di solito li si ama o li si odia. Non restano però indifferenti, è impossibile non accorgersi della loro musica.
  • I critici musicali, dal canto loro, non li hanno mai potuti soffrire. Ho letto parole veramente cattive sulla musica dei Queen, ma anche all’indomani della morte di Freddie.
  • Però i dischi dei Queen sono vendutissimi e molto collezionati, anche prima che il tragico destino di Mercury ingigantisse il mito: album come “A Night At The Opera” (1975), “A Day At The Races” (1976), “The Game” (1980), “The Works” (1984), “A Kind Of Magic” (1986), “The Miracle” (1989) e “Innuendo” (1991) sono finiti dritti dritti in testa alla classifica inglese dell’epoca (e nelle Top Ten di mezzo mondo). Il tutto in un periodo in cui la concorrenza non era certo quella di Leona Lewis o Robbie Williams, non so se m’intendo.
  • La prima raccolta ufficiale dei Queen, “Greatest Hits” (1981), è attualmente il disco più venduto nel Regno Unito, scavalcando perfino il mitico “Sgt. Pepper” dei Beatles.
  • Tutti e quattro i componenti dei Queen hanno scritto almeno un hit di fama mondiale: We Are The Champions per Freddie Mercury, We Will Rock You per Brian May, Another One Bites The Dust per John Deacon, Radio Ga Ga per Roger Taylor. Sono canzoni strafamose che conoscono anche i sassi. Quali altri gruppi possono vantare una tale distribuzione di successi autoriali individuali per ogni singolo componente? Credo nessuno, nemmeno i Beatles…
  • Per quanto i quattro componenti dei Queen avessero prolificità autoriali ben diverse (i più attivi sono stati May e Mercury), la struttura del gruppo è sempre stata molto democratica, con ognuno libero di scrivere le proprie canzoni, di suonarsele e di cantarsele perfino.
  • I primi due album del gruppo, “Queen” (1973) e “Queen II” (1974) s’ispiravano anche nei titoli ai primi dischi dei Led Zeppelin: di lì a poco, tuttavia, i Queen diedero vita alla loro personale concezione del rock, incorporando nel loro inconfondibile stile epico elementi tratti dalla lirica, dalla classica, dal funk, dalla disco e sperimentando con l’elettronica. Non è raro trovare negli album dei Queen delle innocue canzoncine pop accanto a travolgenti episodi hard rock.
  • Freddie Mercury ha innovato il modo di concepire il rock innestandovi elementi operistici: già con Bohemian Rhapsody dei Queen (1975) ottenne un risultato a dir poco notevole, ma diede il meglio di sè in tal senso con l’album “Barcelona” (1988), realizzato con la regina della lirica, Montserrat Caballé.
  • Anche se non è vero che il primo videoclip della storia sia Bohemian Rhapsody, i Queen hanno però pubblicato per primi una raccolta di videoclip: “Greatest Flix” (1981).
  • Nei dischi dei Queen sono accreditati come musicisti/cantanti aggiuntivi: Joan Armatrading, David Bowie, Steven Gregory, Steve Howe, Michael Kamen, Mack, Fred Mandel, Arif Mardin, Mike Moran. Non accreditato: Rod Stewart.
  • Secondo alcune fonti, esiste una versione inedita di Play The Game dei Queen dove canta anche Andy Gibb. Non sono riuscito a saperne di più, le stesse fonti sui Bee Gees non mi sono state utili finora in tal senso.
  • Negli archivi si trovano diversi brani inediti dei Queen, fra cui (in ordine cronologico): Silver Salmon, Hangman, la cover di New York New York (nella sua forma integrale), Dog With A Bone, A New Life Is Born, Self Made Man e My Secret Fantasy. Più altre tre o quattro improvvisazioni registrate con Bowie durante l’incisione di Under Pressure.
  • Se in futuro dovessero spuntar fuori collaborazioni d’annata fra componenti dei Queen e Elton John o Rod Stewart o componenti dei Guns N’ Roses prendetele per buone.
  • I Queen si sono esibiti nel corso dello storico Live Aid (1985) in un cartellone che, fra gli altri, figurava Paul McCartney, Sting, David Bowie, Tina Turner, Madonna, Phil Collins, Mick Jagger e i redivivi Led Zeppelin: a detta di tutti sono stati i più grandi (sembrava che lo stadio di Wembley fosse lì solo per loro) e, di fatto, hanno surclassato tutti gli altri partecipanti alla manifestazione.
  • Il noto concerto di Wembley del luglio 1986 (in realtà furono due concerti, la sera dell’11 e quella del 12) non fu l’ultima esibizione dei Queen. Fu l’ultima nella loro città, Londra.
  • I celebri Mountain Studios situati nell’incantevole cittadina svizzera di Motreux sono appartenuti per molti anni ai Queen. Una statua di Freddie Mercury è stata posta sulle rive del lago di Givevra.
  • I Queen non si sono mai schierati politicamente, forse anche per questo la critica li ha sempre bistrattati.
  • Sono una delle rock band più istruite culturalmente: due di loro sono laureati (John e Brian), gli altri due diplomati.
  • Sono il gruppo pop-rock occidentale più popolare in Giappone. Molto amati anche in Sudamerica, nei primi anni Ottanta i Queen riempivano tranquillamente stadi da oltre 100mila persone.
  • Si sono esibiti in Italia solo in quattro occasioni: due appuntamenti al Festival di Sanremo e due concerti a Milano, tutti nel 1984.
  • Il singolo Radio Ga Ga venne pubblicato in anteprima in Italia, iniziando a circolare già nel dicembre 1983; curiosamente il copyright del quarantacinque giri era datato 1984.
  • Freddie Mercury è stato il più grande cantante rock e uno dei più carismatici e vitali front-men.
  • Brian May è uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi. Un gigante fin troppo sottovalutato (che diavolo c’avrà trovato l’umanità in Eric Clapton e Mark Knopfler la scienza me lo deve ancora spiegare…).
  • All’album “Mr. Bad Guy” di Freddie Mercury prendono parte, in un modo o nell’altro, tutti gli altri Queen: in particolare Man Made Paradise è un’esibizione di gruppo.
  • Brian May e Roger Taylor hanno partecipato, assieme a Giorgio Moroder, a Love Kills, successo solista di Freddie datato 1984.
  • May ha collaborato con numerosi altri celebri artisti, fra cui: Black Sabbath, Guns N’ Roses, Eddie Van Halen, Steve Hackett e Dave Gilmour.
  • Freddie Mercury ha registrato due canzoni (tuttora inedite) con Michael Jackson, There Must Be More To Life Than This e State Of Shock. Pare anche una terza, Victory, ma ci credo poco.
  • I Queen hanno registrato le musiche e le canzoni per due noti film: “Flash Gordon” (1980) e “Highlander” (1986).
  • Il vero nome di Freddie Mercury è Farroukh Bulsara, nato sull’isola di Zanzibar il 5 settembre 1946 da genitori di origine iraniana.
  • Freddie non è mai stato sposato, né ha mai messo al mondo dei figli. Era gay, dal 1985 al 1991 ha convissuto con Jim Hutton, tuttavia il suo più grande amore è stato Mary Austin, cui è stato fidanzato per gran parte degli anni Settanta. Mary è sempre rimasta amica di Freddie e ha ereditato la splendida villa vittoriana acquistata dal cantante nei primi anni Ottanta.
  • Freddie ha vissuto anche a New York e Monaco Di Baviera, in gioventù ha trascorso diversi anni in India.
  • Freddie non aveva la patente… però si faceva scarrozzare in giro con la sua Rolls Royce.
  • Freddie è morto la sera del 24 novembre 1991, quando mancavano pochi minuti alle diciannove (la notizia è trapelata verso la mezzanotte).
  • Parte dei proventi delle canzoni firmate da Freddie Mercury va ad un fondo per la ricerca contro l’aids, il Mercury Phoenix Trust.
  • L’idea originale del brano The Show Must Go On è di Brian May (quindi che nessuno mi venga più a rompere col fatto che Freddie abbia implicitamente autorizzato la band ad andare avanti senza di lui).
  • Un’altra canzone che molti attribuiscono a Mercury, These Are The Days Of Our Live, è stata invece composta da Taylor.
  • Il Roger Taylor che viene ringraziato nelle note di copertina dell’album “Blah-Blah-Blah” (1986) di Iggy Pop non è un componente dei Duran Duran, ma proprio il batterista dei Queen.
  • I Depeche Mode non hanno mai fatto da supporto nei concerti dei Queen.
  • “Made In Heaven” (1995) non è il fantomatico ultimo album dei Queen, bensì una compilation rimaneggiata dai tre Queen superstiti e comprendente brani più o meno inediti del periodo 1980-1991.
  • Non ho mai desiderato di comprare la cassetta (o il dvd) del “Freddie Mercury Tribute” dell’aprile 1992. Di fatto non ce l’ho.
  • Sul finire degli anni Novanta, John Deacon ha avuto il buon gusto di tirarsi fuori dalla vicenda dei Queen perché pensava che, in seguito alla morte di Freddie e dopo i necessari ‘tributi & omaggi’, la band avrebbe dovuto piantarla lì.
  • Brian May e Roger Taylor, che potrebbero tranquillamente far campare di rendita non solo essi stessi ma anche i propri nipoti, hanno avuto la genialata di resuscitare il marchio Queen. Per quanto niente possa importargliene, io non ho mai approvato quella decisione.
  • Non ho mai visto il musical “We Will Rock You” – basato sulle canzoni dei Queen – né ho intenzione di farlo in futuro.
  • Mi sono rifiutato di comprare due fra le più inutili compilation mai apparse sul mercato discografico: “Queen Rocks” (1997) e “Greatest Hits III” (1999).
  • In anni recenti è stata messa sul mercato una serie di orribili gioielli a nome di Freddie Mercury. Lo stesso sito ufficiale dei Queen pubblicizzava l’ignobile iniziativa.
  • Quel tale, Paul Rodgers, non c’entra un cazzo con la storia dei Queen. Per quanto mi riguarda non ho mai ascoltato i Free o i Bad Company e – considerando come stanno le cose – ora me ne vanto pure.
  • “The Cosmos Rocks” (2008) è un album che non entrerà mai in casa mia.
  • I signori May e Taylor (o chi per loro alla EMI) hanno svenduto la musica dei Queen alle aziende pubblicitarie.
  • Troppa gente continua a scrivere Freddie con la Y (…Freddy). Da parte sua, il cantante non ha mai gradito che lo si chiamasse Fred.
  • Nel 2007 s’è parlato molto d’un prossimo film biografico sulla vita di Freddie Mercury: fra gli attori contattati per interpretare la parte del cantante vi sarebbero il grande Johnny Depp e l’istrionico Sacha Baron Cohen (quello di “Borat”): pare che un tale onore spetterà a quest’ultimo.
  • Nel corso del 2009 tutti gli album da studio e dal vivo dei Queen sono stati pubblicati ad uscite periodiche in edicola, abbinati a “TV Sorrisi e Canzoni”: un’operazione che dimostra come i Queen siano molto popolari e amati dal pubblico più eterogeneo.
  • Poche chiacchiere: il 90% della musica dei Queen suona potente & attuale anche oggi.

Ovviamente non posso aver risposto coi fatti a tutte le stronzate che ho letto & sentito negli ultimi vent’anni; se mi verrà da aggiungere qualcosa aggiornerò questo post [ultimo aggiornamento: 23 ottobre 2010]. – Matteo Aceto

La musica del 2009 tra realtà e sogni

depeche modeEccoci così al 2009! Prima di cominciare, però, lasciatemi augurarvi buon anno, di cuore. Non possiamo dire come sarà l’ultimo anno di questo decennio, ovvio, ma possiamo già tracciare i contorni della musica che ascolteremo nei prossimi mesi. Ecco quindi una breve rassegna della musica che verrà…

Album
Per me il più atteso è il nuovo dei Depeche Mode, previsto in primavera e al momento ancora senza titolo: la band inglese (nella foto) ha anche girato il video di Wrong, il singolo apripista… sono molto curioso, non vedo l’ora di vederlo! Pare che questo nuovo capitolo depechiano dovrebbe recuperare delle sonorità retrò. Intanto usciranno anche i nuovi album di Bruce Springsteen (a giorni), Peter Murphy (il cantante dei Bauhaus), Prince, David Sylvian, Morrissey, Neil Young, Megadeth, P.J. Harvey, Green Day, Devo, Roxy Music, U2, No Doubt e Robin Gibb. Forse anche il nuovo di Michael Jackson e forse – udite udite – anche il secondo album dei redivivi Sex Pistols, che darebbero quindi un seguito al celeberrimo “Never Mind The Bollocks” del 1977.

Concerti
Per quanto riguarda gli appuntamenti live previsti nel nostro paese, per ora segnalo solo i Depeche Mode, gli Eagles, i Metallica, gli Ac/Dc, i Judas Priest, i Megadeth, i Lynyrd Skynyrd e gli odiosi Oasis. Mi piacerebbe tantissimo vedere il concerto degli Eagles… ma suoneranno a Milano… per me sarà difficile starci. Spero anche che i Verve recuperino l’unica tappa del loro tour del 2008 – quello che segnava la reunion dopo quasi dieci anni dallo scioglimento – che avevano programmato in Italia: dovevano suonare a Livorno ma la loro esibizione saltò perché Richard Ashcroft aveva la laringite.

Reunion
Dopo le innumerevoli reunion degli ultimi anni, nel 2009 si attendono i ritorni – sul palco e/o in studio – di Blur (nella originale formazione a quattro), Magazine, Ultravox (nella formazione condotta da Midge Ure), The Specials, The Faces (sì, proprio il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood, scioltosi nei primi anni Settanta!) e forse anche Faith No More, Smiths (ma qui ci credo poco… sarebbe un miracolo!), Stone Roses e Spandau Ballet. Voci incontrollate parlano anche dei Jackson 5

Ristampe
“Odessa” dei Bee Gees uscirà fra pochi giorni, il 12, in un bel cofanetto con tanto di rarità & inediti (… e io ho già la bava alla bocca!) in occasione del quarantennale della sua edizione. A marzo sarà invece la volta di “Ten”, il classico dei Pearl Jam. Dovrebbero uscire anche gli ultimi capitoli della bella serie di remaster dei Cure, in particolare dell’album “Disintegration” che nel 2009 compie ventanni. In autunno, secondo alcune indiscrezioni, dovrebbero uscire anche i ciddì rimasterizzati di tutti gli album dei Beatles… chissà, io lo spero vivamente, a patto, cazzo, che vi siano inclusi degli inediti!

Film
In questo 2009 dovremmo vedere il benedetto film sulla vita di Bob Marley, in cantiere almeno dal 2003. Pare che quest’anno sia la volta buona, chissà, certo è che al momento non se ne conoscono molti particolari. Don Cheadle dovrebbe dar vita al suo film sull’immenso Miles Davis, in attesa almeno dal 2007. Si attendono anche film biografici su Freddie Mercury e Kurt Cobain, annunciati anch’essi alcuni anni fa. Correrei subito al cinema per vedermi quello su Mercury, si era parlato di Johnny Depp per la sua interpretazione, chissà.

Questo quello che è stato confermato, in maniera più o meno ufficiale da parte dei diretti interessati o da chi per loro. Ora passo brevemente alle mie aspettative per quest’anno:

  • spero in un ritorno sulle scene del grande David Bowie, magari anche solo per dei concerti, ovviamente con transito obbligatorio in Italia;
  • una cazzutissima ristampa di “The Wall” dei Pink Floyd in occasione del trentennale di quello che resta il mio album rock preferito;
  • un nuovo album da studio di Sting che, a parte la divagazione medievale di “Songs From The Labyrinth”, non mi pubblica un album con canzoni sue dal 2003;
  • un nuovo album e/o tour per i Tears For Fears con tassativo passaggio live in Italia;
  • la pubblicazione d’un cofanetto di Miles Davis con le sue collaborazioni con Prince (si parla comunque d’un nuovo cofanetto davisiano della sua discussa produzione anni Ottanta);
  • almeno un concerto in terra italiana per Paul McCartney;
  • un nuovo album per Roger Waters, che non pubblica un disco d’inediti dai tempi di “Amused To Death”.

Questo è quel che le mie antenne sono riuscite a captare nell’aria; se non altro si prefigura un 2009 abbastanza interessante sotto il profilo musicale. Per tutto il resto, come sempre, staremo a vedere! – Matteo Aceto

Altre canzoni, altre citazioni musicali

Stevie Wonder Sir Duke immagine pubblicaDopo un post che riportava alcune autoreferenze musicali fra (ex) componenti d’una stessa band, ora vediamo quali brani si riferiscono – più o meno direttamente – a cantanti, gruppi o componenti di band esterne all’artista che canta e/o scrive la canzone.

Citazioni che esplicitano i Beatles si trovano in All The Young Dudes dei Mott The Hoople, Born In The 50’s dei Police, in Ready Steady Go dei Generation X e in Encore dei Red Hot Chili Peppers, mentre i Clash sfottono la beatlemania in un verso dell’ormai classica London Calling. In realtà, nel periodo in cui i Beatles erano attivi e famosi in tutto il mondo, comparvero diverse canzoni di artisti meteore che citavano i quattro per i motivi più disparati: ricordo, ad esempio, una canzone rivolta a Maureen Starkey, prima moglie di Ringo Starr, che doveva ‘trattare bene’ il batterista, ma anche una rivolta a John Lennon, che, secondo il suo autore, s’era spinto troppo oltre con la celebre sparata dei ‘Beatles più famosi di Cristo’. Anche noti artisti italiani hanno citato i Beatles, come Gianni Morandi in C’era Un Ragazzo Che Come Me… e gli Stadio in Chiedi Chi Erano i Beatles.

Alla prematura & sconvolgente morte di Lennon fanno invece riferimento Empty Garden di Elton John, Life Is Real (Song For Lennon) e Put Out The Fire dei Queen, Murder di David Gilmour, ma anche la famosa Moonlight Shadow di Mike Oldfield. John vivo & vegeto viene invece citato da David Bowie nella sua celebre Life On Mars? del 1971… Bowie che a sua volta viene citato – con Iggy Pop – in Trans Europe Express dai Kraftwerk. Esiste tuttavia una canzone chiamata proprio David Bowie, pubblicata dai Phish… che poi, a dire il vero, le citazioni riguardanti Bowie sono molte di più: uno dei più acclamati biografi di David, Nicholas Pegg, dedica alla questione un intero paragrafo nella sua notevole enciclopedia.

Anche i Rolling Stones sono stati oggetto di diverse citazioni, fra le quali le stesse C’era Un Ragazzo Che Come Me…, All The Young Dudes e Ready Steady Go viste sopra, ma anche I Go Crazy dei Queen e She’s Only 18 dei Red Hot Chili Peppers. Il solo Mick Jagger viene invece citato da David Bowie nella sua Drive In Saturday e ritratto in altre canzoni del suo “Aladdin Sane” (1973), mentre i Maroon 5 hanno addirittura creato una Moves Like Jagger.

Billy Squier ci ricorda Freddie Mercury con I Have Watched You Fly, così come ha fatto anche il nostro Peppino Di Capri in La Voce Delle Stelle, mentre a commemorare Kurt Cobain ci hanno pensato Patti Smith in About A Boy e i Cult con Sacred Life. Riferimenti a Elvis Presley si trovano in diverse canzoni di Nick Cave, così come in Angel degli Eurythmics, mentre i Dire Straits lo invocano in Calling Elvis. Nella sua God, John Lennon dice invece di non crederci più, in Elvis, così come in Bob Dylan. Dylan che viene esplicitamente citato in Song For Bob Dylan di Bowie e in Bob Dylan Blues di Syd Barrett ma che tuttavia viene sbeffeggiato in alcuni inediti lennoniani come Serve Yourself.

Citazione-omaggio per Brian Wilson dei Beach Boys da parte dei Tears For Fears in Brian Wilson Said, dove la band inglese rifà anche il verso ad alcuni tipici effetti corali dell’indimenticata surf band americana. Invece al celebre tenore Enrico Caruso hanno reso omaggio, oltre a Lucio Dalla con la struggente Caruso, anche gli inglesi Everything But The Girl con The Night I Heard Caruso Sing. Il grande Duke Ellington ci viene ricordato da Stevie Wonder con la famosa Sir Duke (nella foto in alto, la copertina del singolo), ma il pezzo più impressionante dedicato al duca è di Miles Davis che, con He Loved Him Madly, realizza uno straordinario requiem in stile fusion per il suo idolo musicale. Un altro grande artista nero, Marvin Gaye, ci viene invece malinconicamente ricordato in un successo dei Commodores, Nightshift, mentre trent’anni dopo il giovane Charlie Puth si è fatto notare con una canzone chiamata proprio Marvin Gaye.

A Jonathan Melvoin, tastierista degli Smashing Pumpkins morto d’overdose nel ’96, Prince ha dedicato la bellissima The Love We Make (Jonathan era amico di Prince, giacché questi era stato fidanzato a lungo con sua sorella, Susannah Melvoin). Invece il truce rapper The Notorius B.I.G. è stato omaggiato dalla fortunata I’ll Be Missing You, un duetto fra Puff Daddy e Faith Evans basato sulle note di Every Breath You Take dei Police.

Oltre ai ricordi dolorosi, però, ci sono anche sentimenti d’amicizia e di stima, simpatie, accuse e sfottò… ecco quindi i Police che si fanno beffe di Rod Stewart in Peanuts e i Sex Pistols che, in New York, deridono tutta la scena punk americana che sembra averli preceduti. La scena punk inglese viene invece omaggiata da Bob Marley in Punky Reggae Party, dove il grande artista giamaicano cita i Clash, i Jam e i Damned. I Pink Floyd rimpiangono invece Vera Lynn in Vera, tratta dal loro monumentale “The Wall”. In She’s Madonna, Robbie Williams, oltre a farsi accompagnare dai Pet Shop Boys (citati anch’essi in un altro pezzo di Robbie), esprime il suo apprezzamento per… Madonna. E se Wayne Hussey dei Mission canta la sua vicinanza a Ian Astbury dei Cult in Blood Brother, gli Exploited urlano l’innocenza di Sid Vicious in, appunto, Sid Vicious Was Innocent. Altri riferimenti alla parabola di Sid (e della compagna Nancy Spungen) li possiamo trovare in I Don’t Want To Live This Life dei Ramones e in Love Kills di Joe Strummer. I Sex Pistols in quanto tali sono invece citati in una canzone dei Tin Machine, così come in un’altra di quel gruppo capeggiato da David Bowie viene citata Madonna.

Non è mai stato chiarito da Michael Jackson se la sua Dirty Diana si riferisca all’amica Diana Ross o meno, ma per completezza ci mettiamo anche questa, così come non è chiaro il destinatario di You’re So Vain, il più grande successo di Carly Simon (secondo i più è indirizzata a Mick Jagger che, in realtà, contribuisce ai cori della canzone stessa). Di certo una curiosa immagine di Yoko Ono ci viene invece offerta da Roger Waters nella sua The Pros And Cons Of Hitch Hiking.

Per quanto riguarda gli italiani, mi vengono in mente La Grande Assente di Renato Zero (un omaggio all’amica Mia Martini), No Vasco di Jovanotti (non so se il titolo è esatto, comunque il riferimento è Vasco Rossi) e quella buffa canzone di Simone Cristicchi che cita di continuo Biagio Antonacci.

Quali altri esempi conoscete? Di certo, oltre a quelli che non conosco io, ce ne sono molti altri che ho dimenticato di citare [ultimo aggiornamento, 7 aprile 2011]. – Matteo Aceto

Aretha Franklin, “Soul ’69”, 1969

aretha-franklin-soul-69-immagine-pubblicaDavvero molto gradevole “Soul ’69”, forse uno degli album più sottovalutati della divina Aretha Franklin. Personalmente lo trovo divertente, elegante, caldo e sensuale, un disco fortemente intriso di jazz, una scelta stilistica che all’epoca dispiacque non poco ai fan della prim’ora della divina. Accompagnata da una cazzuta big band di turnisti guidati dal celebre arrangiatore/conduttore Arif Mardin, “Soul ’69” ci mostra tuttavia una Franklin straordinariamente a suo agio e dalla potenza vocale & espressiva davvero al top.

Prodotto da Jerry Wexler e da Tom Dowd (in seguito noto produttore dei successi di Rod Stewart e Eric Clapton), “Soul ’69” offre dodici grandi interpretazioni di classici vecchi e nuovi (per quei tempi) dimostrando che la divina poteva tranquillamente affrontare il jazz senza perdere nulla del suo stile, per quanto il titolo dell’album cercava di mascherare il cambio di direzione. Infatti, in seguito, Wexler disse che il titolo originale dell’album era “Aretha’s Jazz Album”.

Tutte le sedute d’incisione per “Soul ’69” si tennero negli studi dell’Atlantic di New York, a partire dal 17 aprile 1968: quel giorno, accompagnandosi al piano, la divina registrò una nuova, immensa versione di Today I Sing The Blues (l’aveva già proposta qualche anno prima), assieme al singolo The House That Jack Built (pubblicato di lì a poco), la famosa I Say A Little Prayer e The Night Time Is The Right Time (queste ultime due saranno però pubblicate sull’album da studio precedente a “Soul ’69”, ovvero “Aretha Now”). Altra seduta per il giorno dopo, con una calda & rilassata cover Tracks Of My Tears di Smokey Robinson & The Miracles, dopodiché Aretha si trasferì in Europa per effettuare il suo primo tour nel vecchio continente.

Le sessioni ripresero quindi il 23 settembre, per cinque giorni consecutivi al termine dei quali verranno messe su nastro l’elegante So Long, la rilassata I’ll Never Be Free, l’irresistibile soul-jazz di Ramblin’, la sensuale Pitiful (il classico pezzo da jazz club cantato da una soul woman…), la suadente Gentle On My Mind, la briosa Bring It On Home To Me, l’intensa Crazy He Calls Me, la grandiosa Elusive Butterfly, la scintillante River’s Invitation e la stupenda If You Gotta Make A Fool Of Somebody. Durante queste sedute vennero incise almeno altre due canzoni, Talk To Me e I Can’t Turn You Loose, scartate però dal progetto finale.

Suonato da una schiera di musicisti comprendenti tastieristi, pianisti, organisti (fra i quali Joe Zawinul), chitarristi, bassisti, batteristi, percussionisti, sassofonisti (fra i quali King Curtis), flautisti, trombettisti, trombonisti e coriste, “Soul ’69” venne pubblicato nel gennaio 1969 riscuotendo soltanto un modesto successo e non diede vita a nessun vero hit single. Ma oggi come oggi chi se ne frega… sono passati quarantanni ma quella contenuta in “Soul ’69” resta sempre grande musica! – Matteo Aceto

Sting: storia e discografia

stingNella fantascientifica ipotesi che io mi reincarni in una rockstar, mi piacerebbe rinascere Sting. Perché Sting è un personaggio che ha sempre prodotto grandissima musica, sia coi Police che da solo, è famoso in tutto il mondo, non ha mai subìto cali di popolarità, se l’è spassata alla grande ma senza mai inciampare nei soliti eccessi della sua professione, s’è dilettato spesso e volentieri nel cinema, ha dato vita a numerose e interessanti collaborazioni, tanto in studio quanto dal vivo, ed è da sempre impegnato nel sociale. E poi, perché negarlo, è sempre stato un bell’uomo e sta invecchiando splendidamente.

Sting è un altro di quei nomi che conosco da quando ho memoria, in pratica non ricordo il giorno preciso che ho conosciuto la parola Sting: probabilmente, dopo ‘mamma’ e ‘papà’, ‘sting’ è la prima parola che ho imparato! È, inoltre, una di quelle voci che riconosci immediatamente appena la ascolti, ha uno stile inconfondibile e da trentanni a questa parte – un periodo che ha visto notevoli cambiamenti nell’industria discografica ma anche nella stessa industria culturale – Sting s’è meritatamente ritagliato uno spazio tutto suo come una delle più amate e ammirate rockstar di fama mondiale.

Nel 2003 Sting ha pubblicato “Broken Music”, una sua parziale autobiografia, dall’infanzia al debutto discografico dei Police con “Outlandos d’Amour”: è un libro piuttosto intimo ma molto godibile che ho letto finora due volte. In esso, Sting sembra descriversi come una persona fondamentalmente molto umana, con tutte le debolezze che questa condizione comporta, ma anche arso da una smania di sfondare che forse l’ha portato più lontano di quel che poteva immaginare da ragazzo, quando alternava la sua passione per la musica (suonava il basso in diverse formazioni locali, la più notevole, i Last Exit, nei quali cantava e componeva la maggior parte del materiale) alla sua professione d’insegnante d’inglese nelle scuole elementari.

Nato Gordon Matthew Sumner da umili origini (parte delle quali irlandesi) a Wallsend, vicino Newcastle, il 2 ottobre 1951, venticinque anni dopo ebbe la fortuna d’incontrare Stewart Copeland, all’epoca batterista dei Curved Air che, di fatto, scoprì Sting proponendogli d’entrare a far parte della band che stava costituendo col chitarrista corso Henri Padovani (in seguito rimpiazzato da Andy Summers), The Police. La storia di questo infinito trio rock l’ho raccontata già, per cui passo al 1985, quando Sting debutta definitivamente come solista con l’album “The Dream Of The Blue Turtles”, contenente i noti singoli If You Love Somebody (Set Them Free) e Russians. Nello stesso anno collabora con Miles Davis, Phil Collins, i Dire Straits, un side-project dei Duran Duran chiamato Arcadia, e inoltre partecipa allo storico evento musicalmediatico del Live Aid, organizzato da Bob Geldof per raccogliere fondi a favore delle popolazioni africane più bisognose.

In quella prima metà degli anni Ottanta, Sting si confronta con numerose vicissitudini private: il divorzio dalla prima moglie, l’attrice irlandese Frances Tomelty, la fine dei Police, l’inizio d’una nuova relazione con la modella Trudie Styler, che gli darà altri quattro figli oltre ai due avuti dalla Tomelty. Inoltre, nei tre anni successivi, Sting deve affrontare la dolorosa perdita di entrambi i genitori. In mezzo a tutto questo, nel 1987, troviamo quello che forse è il suo album migliore, “…Nothing Like The Sun”, contenente, fra l’altro, le indimenticabili Englisman In New York, Fragile e They Dance Alone. Un successo mondiale come il precedente “The Dream Of The Blue Turtles” che fa capire chiaramente che Sting non aveva più bisogno dei Police per andare avanti e che era ormai una delle più grandi stelle dello spettacolo.

Il terzo album solista di Sting, il mio preferito, “The Soul Cages”, viene pubblicato al principio del 1991, supportato dagli splendidi singoli All This Time e Mad About You. L’anno seguente Sting sposa finalmente Trudie Styler e, nel corso della serata, riunisce brevemente i Police per un concerto privato. Gli anni Novanta sono un periodo in cui il nostro non fa altro che consolidare la sua fama e la sua bravura, producendo come sempre dischi di qualità – “Ten Summoner’s Tales” (1993), “Mercury Falling” (1996) e “Brand New Day” (1999) – continuando le sue apparizioni cinematografiche e intessendo interessanti collaborazioni con altri noti artisti (qui mi limito a citare Elton John, Bryan Adams, Tina Turner, Eric Clapton e Rod Stewart).

Sting resta sinceramente sconvolto dai tragici fatti dell’11 settembre 2001, esprimendo direttamente le sue sensazioni al riguardo sull’album “Sacred Love” (2003), supportato dai singoli Send Your Love e Whenever I Say Your Name con Mary J. Blige. Ma la cosa che forse più ammiro di Sting è la sua continua evoluzione e maturazione artistica (oltre che, si capisce, umana) che lo ha portato a proporre sempre grande musica senza mai fare un solo passo falso: ulteriore testimonianza con “Songs From The Labyrinth” (2006), un album prevalentemente per sola voce e liuto dove il nostro rivisita l’opera del musico medievale John Dowland.

Il regalo più grande che Sting potesse fare ai suoi tanti ammiratori sparsi per il mondo arriva però al principio del 2007: annuncia la reunion dei Police, che quindi intraprendono un lungo tour internazionale che tocca anche l’Italia, il 2 ottobre a Torino. Quel concerto fu per me la prima occasione che ebbi di vedere il mio idolo dal vivo, per giunta alle prese col repertorio musicale di uno dei gruppi rock che più hanno entusiasmato gli appassionati di musica. Terminato il tour coi Police nell’estate 2008, Sting è tornato in studio per l’album “If On A Winter’s Night…” (2009) – altra escursione nel passato con canti e filastrocche natalizie dei secoli scorsi – e tentando con successo sperimentazioni nel teatro o per orchestra. Un’esperienza, quest’ultima, che ha portato alla realizzazione dell’album “Symphonicities” (2010) – una rivisitazione dei classici di Sting per voce e orchestra – e al relativo tour mondiale.

Dopo un’esperienza a teatro con l’interpretazione del musical tratto dall’album “The Last Ship” (che se non altro, pur non essendo un capolavoro di disco, ci mostra Sting alle prese con delle sue canzoni nuove di zecca), il nostro torna alle collaborazioni illustri per quanto riguarda l’attività concertistica (prima Paul Simon e successivamente Peter Gabriel) e soprattutto alla musica rock, suggellato dal nuovo album “57th & 9th” (2016) e dal relativo tour mondiale. Inarrestabile Sting. [ultimo aggiornamento: 4 marzo 2017] – Matteo Aceto

DISCOGRAFIA SOLISTA

The Dream Of The Blue Turtles (Sting, 1985)

…Nothing Like The Sun (Sting, 1987)

The Soul Cages (Sting, 1990)

Ten Summoner’s Tales (Sting, 1993)

Mercury Falling (Sting, 1996)

Brand New Day (Sting, 1999)

Sacred Love (Sting, 2003)

Songs From The Labyrinth (Sting, 2006)

If On A Winter’s Night… (Sting, 2009)

Symphonicities (Sting, 2010)

The Last Ship (Sting, 2013)

57th & 9th (Sting, 2016)

44/876 (Sting & Shaggy, 2018)

Queen: storia e discografia

queenQueen si formarono nel 1970 a Londra, dalle ceneri degli Smile, gruppo più o meno progressive dove già militavano Brian May (chitarra, piano e voce) e Roger Taylor (batteria e voce). Con l’arrivo di Freddie Mercury (voce e piano), la band cambiò quindi nome in Queen. Nel corso del ’71, infine, entrò un bassista in pianta stabile, il mite ma affidabile John Deacon, e finalmente i Queen poterono avviare il loro corso musicale.

Tutti e quattro i componenti del gruppo iniziarono a comporre nuove canzoni, ripescandone alcune dal periodo degli Smile e alcune dal periodo di Freddie con gli Ibex e i Wreckage, le sue formazioni precedenti. Intanto i Queen firmarono per la EMI che, soltanto nel luglio ’73, si decise a pubblicare il primo album della band, l’omonimo “Queen“, anticipato dal singolo Keep Yourself Alive. Problemi con le tempistiche nei giorni di registrazione, errori di gioventù da parte del management e una certa diffidenza dei discografici ad aprire le porte a un gruppo chiamato Queen (in slang inglese ‘queen’ sta per ‘checca’), fecero apparire nei negozi un album che era già superato, sia dai concorrenti della band che dalle stesse doti compositive dei propri membri.

L’album successivo, il ben più ambizioso “Queen II“, segnò infatti una decisa maturazione dello stile dei nostri verso quella tipica sonorità che caratterizzerà la vita artistica di Freddie Mercury e compagni, ovvero un rock epico e teatrale, tanto melodico quanto potente. Forte d’un singolo da Top Ten come Seven Seas Of Rhye, “Queen II” riscuoterà un incoraggiante successo in patria, anche grazie alla qualità delle sue canzoni, fra le quali ricordo White Queen, Father To Son, Ogre Battle e The March Of The Black Queen. Farà comunque meglio il terzo album della band, sempre del 1974, l’eclettico e variegato “Sheer Heart Attack“, che spinto dall’imprevisto successo del singolo Killer Queen (2° posto in Gran Bretagna) si piazzò al 2° posto della classifica inglese. Questo terzo album dei nostri contiene inoltre classici come Stone Cold Crazy, Now I’m Here, In The Lap Of The Gods (Revisited) e Brighton Rock.

Il botto per i Queen giunse però nel ’75, grazie al successo di due prodotti artistici sensazionali: il singolo Bohemian Rhapsody e l’album “A Night At The Opera“, entrambi giunti al 1° posto nelle rispettive classifiche inglesi. L’album, il cui titolo è preso da un film dei Fratelli Marx, contiene anche You’re My Best Friend, I’m In Love With My Car e Death On Two Legs ed è riconosciuto dai critici come il capolavoro dei Queen.

La band replicò i fasti nel ’76 col singolo Somebody To Love (2° in patria) e l’album “A Day At The Races” (dal titolo sempre preso da un film dei Marx e ugualmente al 1° posto in classifica) ma poi dovette fare i conti con una scena rock notevolmente cambiata. L’esplosione del fenomeno punk in Inghilterra, fra il ’76 e il ’77, mette infatti in discussione i cosiddetti dinosauri del rock, cioè quelle band come Led Zeppelin, Genesis, Pink Floyd e gli stessi Queen, che avevano spinto i confini tracciati dal rock ‘n’ roll verso un’opera più complessa e dalle notevoli qualità artistiche. In un modo o nell’altro un po’ tutte le band suddette riusciranno a passare indenni ma saranno costrette a modificare non poco i propri stili sonori. I Queen ne vennero fuori più che dignitosamente, grazie ad un album auto-prodotto come “News Of The World” (1977), forte di due hit storiche come We Are The Champions e We Will Rock You, accoppiate insieme in un unico, formidabile singolo. Il ’77 si ricorda anche come l’anno in cui uscì un primo atto solista da parte d’un componente dei Queen, ovvero Roger Taylor col singolo I Wanna Testify, mentre un paio d’anni prima Mercury e May avevano partecipato alla realizzazione d’un singolo per il misconosciuto cantautore Eddie Howell.

Nel 1978 i Queen ritrovarono il produttore Roy Thomas Baker – col quale avevano realizzato il fortunato “A Night At The Opera” – e pubblicarono “Jazz“, un disco fantasioso e compatto che si issò al 2° posto della classifica di casa. Impreziosito da autentiche perle quali Bicycle Race, Don’t Stop Me Now, Jealousy, Fat Bottomed Girls e Let Me Entertain You, “Jazz” resta tuttora uno degli ascolti più accattivanti nella discografia dei Queen.

Se il ’79 non vide nei negozi nessun nuovo disco da studio dei Queen (uscì però “Live Killers”, un potente doppio elleppì dal vivo), nel 1980 si vedranno ben due nuovi album nelle rivendite: “The Game”, contenente singoli strafamosi come la rockabilly Crazy Little Thing Called Love (edita già durante il ’79) e la funky Another One Bites The Dust, e “Flash Gordon“, colonna sonora elettro-ambient dell’omonimo film. Sono due lavori notevoli che esaltarono per una volta sia critica che pubblico, soprattutto “The Game” che raggiunse la vetta della classifica su entrambe le sponde dell’Atlantico. Anche sul versante live i Queen si dimostrarono in gran forma, suonando con successo praticamente ovunque e divenendo campioni d’incassi soprattutto in Giappone e in Sudamerica. Per suggellare questo momento d’oro ma anche per festeggiare i loro dieci anni d’attività comune, i Queen pubblicarono quindi “Greatest Hits” (1981) e si tolsero lo sfizio di collaborare con David Bowie, realizzando un singolo da 1° posto in classifica, la superlativa Under Pressure. Nello stesso 1981, inoltre, uscì il primo album d’un Queen solista, ancora Roger Taylor, col suo “Fun In Space”.

Per quanto riguardava il nuovo album dei Queen, invece, la band pensò bene d’esplorare le sonorità più funky e disco accennate nel precedente “The Game”: ne nacque così “Hot Space“, l’album che più si discosta dallo stile abituale dei nostri. Pubblicato nel 1982, “Hot Space” suscitò molte proteste anche da parte dei fan storici, perché sacrificava gli aspetti più rock e heavy dei Queen a favore di arrangiamenti più elettronici e danzerecci. Nonostante “Hot Space” riuscisse a salire fino al 4° posto in classifica e ad agguantare un disco d’oro, l’esperienza scottò gli stessi Queen che per un periodo di tempo preferirono separarsi in modo da dedicarsi ai vari progetti solisti. In particolare, Brian May organizzò una grande jam session con Eddie Van Halen che nel corso dell’83 si tradusse in un mini album chiamato “The Starfleet Project”, accreditato a Brian May & Friends. Freddie Mercury collaborò invece con altri artisti, fra cui Billy Squier, Michael Jackson, Rod Stewart, Giorgio Moroder e iniziò ad incidere il suo primo album solista, “Mr. Bad Guy“, che vedrà la luce solo nel 1985. Più concretamente, Roger Taylor pubblicò nel 1984 il suo secondo album solista, “Strange Frontier”, mentre John Deacon, solitamente il componente meno prolifico dei Queen, collaborò, nel corso degli anni Ottanta, con The Immortals, Errol Brown degli Hot Chocolate, Elton John e Minako Honda.

Nell’estate del 1983 i Queen ebbero però modo di ricostituirsi e di tornare in sala di registrazione: a fine anno uscì quindi lo straordinario singolo di Radio Ga Ga (al 1° posto in molti Paesi europei), seguìto nel febbraio ’84 dal robusto “The Works“, undicesimo album da studio dei nostri, che riportò meritatamente i Queen al vertice della classifica inglese, anche grazie ad altri tre bei singoli come I Want To Break Free, It’s A Hard Life e Hammer To Fall. Dopo un altro periodo di pausa nel 1985 – interrotto solo dalla trionfale apparizione al Live Aid e dall’uscita del potente singolo One Vision – i Queen tornarono alla grande nell’86 con l’album “A Kind Of Magic“, ancora un numero uno nella classifica di casa. L’album, in parte colonna sonora del film “Highlander”, figura celebri pezzi come A Kind Of Magic, Who Wants To Live Forever, Princes Of The Universe e Friends Will Be Friends e venne supportato da un entusiastico e fortunato tour in giro per l’Europa, purtroppo ricordato come l’ultimo tour dei Queen.

Il 1987 vide i componenti della band tornare ad occuparsi delle proprie carriere soliste, specialmente Freddie e Roger: se il primo realizzò su singolo la cover di The Great Pretender e prese a collaborare col soprano Montserrat Caballé per quello che sarà l’album “Barcelona” (1988), il secondo diede addirittura vita ad una band parallela, The Cross, nella quale assunse il ruolo di cantante e chitarrista ritmico. Il primo album dei Cross, “Shove It”, uscì quindi entro l’anno e figurava una canzone cantata dallo stesso Mercury, Heaven For Everyone (più tardi recuperata dai tre Queen superstiti come omaggio a Freddie). Anche Brian May iniziò a registrare del materiale solista, parte del quale figurerà nel suo primo album, “Back To The Light” (1992), ma perlopiù preferirà collaborare con altri artisti, fra i quali ricordo Black Sabbath, Steve Hackett, Holly Johnson dei Frankie Goes To Hollywood, Def Leppard, Extreme, Chris Thompson, Billy Squier e altri. In realtà in quegli anni il versatile chitarrista dei Queen visse un difficile periodo personale culminato con la morte dell’amato padre e col sofferto divorzio dalla moglie.

Il nuovo album dei Queen, “The Miracle“, giunse finalmente nel maggio ’89 e volò direttamente al 1° posto della classifica inglese, supportato da due singoli potenti e memorabili come I Want It All e Breakthru. In realtà il successo dell’album sarà tale da spingere la EMI ad estrarne altri tre singoli, The Invisible Man, Scandal e la stessa The Miracle. Tuttavia alcune dichiarazioni di Freddie alla stampa e il fatto che i Queen non intrapresero nessun tour per supportare il nuovo disco diedero il via alle prime illazioni che volevano il cantante vittima d’una misteriosa malattia, molto probabilmente l’AIDS. Sarà proprio così, purtroppo, ma le reali condizioni di salute di Mercury – che peggioreranno progressivamente – saranno avvolte da un assoluto riserbo fino al giorno prima della sua morte. Freddie preferì infatti concentrarsi sull’unica cosa che gli dava la forza di andare avanti e di esorcizzare la paura: la composizione di nuova musica. Perciò, quando “The Miracle” era ancora in fase promozionale con singoli e videoclip, i Queen già tornarono in studio per dargli un seguito.

La gestazione del nuovo album risulterà più laboriosa del previsto, sia per la carenza dell’apporto di John Deacon e sia soprattutto per le condizioni fisiche di Mercury, sempre più affaticato e debilitato. Ciononostante la band realizzò un capolavoro, quello che secondo me è il loro album migliore, “Innuendo“, il quale raggiunse la vetta della classifica inglese (così come il singolo omonimo edito poco tempo prima) all’indomani della sua pubblicazione, avvenuta nel febbraio ’91. Un album straordinario “Innuendo”, del quale ricordo le canzoni The Show Must Go On, I’m Going Slightly Mad, Headlong e These Are The Days Of Our Lives.

A dieci anni dal primo “Greatest Hits”, ecco quindi “Greatest Hits II”, pubblicato nell’ottobre ’91 e contenente i successi dei Queen del periodo 1981-1991. E’ il primo disco che comprai di persona (avevo da poco preso il mio primo stereo), il ciddì che mi farà presto appassionare alla musica dei Queen, portandomi all’acquisto di tutti i loro album nel giro d’un paio d’anni. Purtroppo, però, il 24 novembre Freddie Mercury morì nella sua villa vittoriana di Kensington, dopo aver dato ufficialmente l’annuncio sulle sue vere condizioni di salute il giorno prima, per mezzo del manager dei Queen, Jim Beach. La causa della morte di Freddie è stata una polmonite dovuta alle carenze di difese immunitarie… AIDS bastardo!

Il cordoglio per la scomparsa della voce rock più bella di tutti i tempi e per uno dei maggiori entertainer del Ventesimo secolo fu grande in tutto il mondo. Diversi esponenti del pop-rock e del metal angloamericano – Elton John, David Bowie, George Michael, Metallica, Guns N’ Roses, Paul Young, Robert Plant, Liza Minnelli e altri – omaggeranno la figura e l’arte di Freddie in un grandioso concerto svoltosi allo stadio di Wembley nell’aprile 1992, organizzato dai tre Queen superstiti come evento benefico per raccogliere fondi da devolvere alla ricerca contro l’AIDS. Lo stesso Freddie, nel suo testamento, diede l’avvio alla creazione del Mercury Phoenix Trust, un ente per la raccolta di fondi contro la terribile malattia, gran parte dei quali messi a disposizione dagli stessi crediti autoriali delle sue canzoni.

Dopo il Freddie Mercury Tribute dell’aprile ’92, i membri dei Queen procederanno da soli, con Brian May che finalmente pubblicò il suo primo disco solista vero e proprio, il già citato “Back The Light”, edito nel luglio di quell’anno e seguìto, nel ’94, da “Happiness?” di Roger Taylor (dopo aver dato alle stampe altri due album a nome The Cross), lavori discografici dedicati entrambi all’amico scomparso. Un tributo più consistente a Freddie giunse però nel ’95, vale a dire il quindicesimo album da studio dei Queen, il discusso “Made In Heaven“. Il primo album post-Mercury s’avvalse ancora dell’arte del compianto cantante, giacché raccoglieva in una nuova forma tutte quelle canzoni che, per un motivo o per l’altro, erano state escluse dagli album del gruppo nel periodo 1980-1991. Gli inediti veri e propri, tuttavia, erano soltanto cinque: la riflessiva It’s A Beautiful Day, la gospeliana Let Me Live, la struggente Mother Love, la movimentata You Don’t Fool Me e la commovente A Winter’s Tale.

Un disco che mi soddisfò appena, “Made In Heaven”, ma che comunque comprai e accettai come parte della storia discografica dei Queen. La maggior parte di tutto quello che è venuto subito dopo, come antologie d’ogni sorta, remix, cofanetti, album live, dischi e tournée con altri cantanti e bassisti, nonché canzoni vendute alla pubblicità, o mi ha lasciato indifferente o mi ha deluso come fan. La mia passione per la musica dei Queen, almeno fin dove è potuto arrivare Freddie Mercury, è rimasta tuttavia inalterata dopo tutti questi anni. E di questo non posso che essere grato anche ai signori May e Taylor. – Matteo Aceto

The Police, “Outlandos d’Amour”, 1978

the-police-outlandos-damour-immagine-pubblicaOggi è una data storica per il rock: gli infiniti Police intraprendono da Vancouver (Canada) la loro prima tournée mondiale dopo il Sinchronicity Tour del 1983-84. E quindi, nella sbavante attesa di averli in Italia, il prossimo 2 ottobre, ecco un post di riscaldamento, dedicato al loro album d’esordio, “Outlandos d’Amour”, l’unico fra i cinque album da studio dei Police a non aver conquistato il 1° posto della classifica inglese.

Si parte con la tambureggiante e casinara Next To You, una canzone d’amore travestita da pezzo punk… fa ancora una certa impressione sentire che Sting, autore di brani raffinati come Englishman In New York e Fragile, abbia esordito con delle sonorità tanto ruvide.

Dopo Next To You troviamo l’eccitante reggae-rock di So Lonely, una delle prime composizioni di Sting, risalente ai tempi della sua band amatoriale, i Last Exit: tipica del ‘Police sound’ di quel periodo, So Lonely è caratterizzata da una sequenza di strofe dal ritmo saltellante, mentre il ritornello è un veloce e ripetitivo rock; bello, inoltre, l’assolo di chitarra alquanto bluesy di Andy Summers.

Col terzo brano siamo in presenza d’un autentico classico, Roxanne: c’è qualcuno che non conosce questa bella canzone rock-reggae venata di tango che narra dell’amore per un prostituta? E’ un pezzo di storia, Roxanne, e non a caso è stata scelta dalla band per annunciare il proprio ritorno dal vivo, lo scorso febbraio a Los Angeles.

Tornando all’album in esame, fra le canzoni dei Police mai edite su singolo, Hole In My Life è fra le mie preferite, anche se dura un po’ troppo: un brano che canta dell’insicurezza della vita, del disagio e della vulnerabilità senza per questo risultare lagnoso, bensì presentando un arrangiamento reggae-rock a scatti assolutamente irresistibile.

Con la successiva Peanuts ritroviamo uno stile e una velocità più vicini al punk, anche se i Police sono troppo bravi tecnicamente e Sting è un autore troppo raffinato per adottare gli stilemi di quel genere. Forse vale la pena di sottolineare che il testo di Peanuts è una sarcastica stoccata contro Rod Stewart, mentre la musica è firmata da Sting con Stewart Copeland, per quello che è il solo contributo autoriale nel disco da parte del grande batterista.

Poi è la volta d’un’altra canzone famosa, Can’t Stand Losing You, edita anche su singolo: uno dei miei pezzi polizieschi preferiti, Can’t Stand è un altro mirabile esempio del Police sound di quel periodo, stavolta accentuando ancor più l’arrangiamento reggae; è uno di quei brani che non possono mancare assolutamente in una selezione seria dedicata alla musica dei Police.

Altra influenza punk ben in evidenza per la ruvida ma coinvolgente Truth Hits Everybody, ben più vicina al rock invece la sonorità di Born In The 50’s, brano nel quale Sting introduce elementi di politica in un testo cantato con rabbia.

Con Be My Girl-Sally siamo alle prese con una delle canzoni più curiose e divertenti dei Police: a un ripetitivo ritornello rock di Sting segue un intermezzo recitato da Andy sulle virtù ‘terapeutiche’ di una bambola gonfiabile, prima che torni il ritornello iniziale a concludere lo scanzonato numero.

Più che una canzone vera e propria, la conclusiva Masoko Tanga è una lunga improvvisazione reggae-rock, prossima ai sei minuti di lunghezza: chiaramente un riempitivo, Masoko Tanga è comunque gradevole e testimonia la grande compattezza sonora di questi tre biondi capelloni che, è importante sottolineare, all’epoca suonavano insieme da un solo anno.

Registrato in appena dieci giorni di lavoro in studio, coordinati da un produttore dilettante, Nigel Gray (in realtà un medico di professione con la passione per il rock!), e utilizzando nastri usati, “Outlandos d’Amour” si segnala come uno degli esordi discografici più esaltanti e convincenti del rock, restando tuttora un ascolto fresco e divertente.

Una curiosità: il buffo titolo del disco è stato scelto da Miles Copeland – fratello di Stewart e all’epoca manager del gruppo – e significa grossomodo ‘fuorilegge dell’amore’.

I supergruppi

Traveling Wilburys George Harrison Bob DylanForse il termine non suscita simpatia ma, per supergruppo, s’intende comunemente una band formata da due o più componenti illustri provenienti da altre band. La storia del rock annovera diversi supergruppi ma la loro costituzione sembra aver preso piede soprattutto dagli anni Ottanta ad oggi. Vediamone alcuni, cercando di procedere in ordine cronologico.

Il titolo di primo supergruppo sembra spettare ai Blind Faith, composti da membri dei Cream (Eric Clapton e Ginger Baker) e dei Traffic (Steve Windood), formatisi e disciolti nel 1969 con un solo album all’attivo. Poi fu la volta della Plastic Ono Band, un gruppo che John Lennon e Yoko Ono formarono insieme a Eric Clapton e a George Harrison, sebbene svolgesse un’attività occasionale tra il 1969 e il 1970. Di supergruppi pop-rock nati negli anni Settanta non me ne sovviene nessuno, credo che comunque non ve ne siano stati molti, per cui passo agli anni Ottanta.

Nel 1982 nascono i Lords Of The New Church (componenti dei Dead Boys e dei Damned), nel 1983 nascono invece i Glove (membri dei Cure e dei Siouxsie And The Banshees), nel 1984 debuttano i Dalis Car (componenti dei Japan e dei Bauhaus) e i Chequered Past (membri dei Sex Pistols e dei Blondie), nel 1985 fanno la loro comparsa i Power Station (voce di Robert Palmer e musicisti dei Duran Duran e degli Chic), mentre nel 1986 è la volta dei GTR (membri dei Genesis e degli Yes) e ancora nel 1989 degli Electronic (componenti dei New Order, degli Smiths e dei Pet Shop Boys).

Nel 1988 hanno fatto la loro prima comparsa, con l’album “The Traveling Wilburys, Vol. 1”, i Traveling Wilburys (nella foto sopra), un super-supergruppo direi, giacché formato da George Harrison dei Beatles con Bob Dylan, Roy Orbison, Tom Petty e Jeff Lynne della Electric Light Orchestra.

Passando agli anni Novanta, nel ’95 debuttano i Mad Season (formati da componenti di Alice In Chains e Pearl Jam), mentre l’anno dopo è la volta dei Neurotic Outsiders (membri dei Sex Pistols, dei Cult, dei Guns N’ Roses e dei Duran Duran). Di altri non ricordo…

Mi sembra più produttivo il decennio in corso: già nel 2000 debuttano i Damage Manual (componenti dei PiL, dei Killing Joke e dei Ministry), nel 2002 esordiscono con alcune canzoni distribuite in rete i Carbon/Silicon (componenti dei Clash e dei Sigue Sigue Sputnik) e con una distribuzione in grande stile, invece, debuttano gli Audioslave (musicisti dei Rage Against The Machine e voce dei Soundgarden). Nel 2004 è la volta dei Velvet Revolver (musicisti dei Guns N’ Roses e cantante degli Stone Temple Pilots), mentre il 2006 ha segnato il debutto ufficiale dei The Good, The Bad And The Queen (componenti dei Clash, dei Blur e dei Verve).

Nella storia della musica moderna si sono visti numerosi esempi di supergruppi costituiti apposta per un singolo evento o brano: è il caso dei Band Aid, che nel 1984 hanno pubblicato il singolo Do They Know It’s Christmas?, e degli U.S.A. For Africa, che l’anno dopo hanno pubblicato il singolo We Are The World. Entrambi nati per scopi benefici, i primi (di origine angloirlandese) sono nati dall’iniziativa di Bob Geldof e Midge Ure (che hanno coinvolto, tra i tanti, Sting, Phil Collins, Paul Weller, Paul Young, Boy George, i Duran Duran, gli U2 e George Michael), i secondi (americani) sono nati invece dall’iniziativa di Michael Jackson e Lionel Richie (coinvolgendo un cast stellare formato, fra i tanti, da Ray Charles, Stevie Wonder, Bruce Springsteen, Bob Dylan, Tina Turner, Paul Simon e Diana Ross).

Poi ci sono dei supergruppi a ritroso, nel senso che dal gruppo originario, magari anche di successo, siano usciti fuori dei componenti di altrettanto (se non maggior) successo: mi vengono in mente i Genesis (che hanno ‘generato’ Peter Gabriel, Phil Collins ma anche i Mike & The Mechanics) e i Faces (nei quali hanno militato Ron Wood, dal ’75 ad oggi con i Rolling Stones, e Rod Stewart). Ma se ci pensiamo bene anche i Beatles sono stati un supergruppo a ritroso… in quale altra band si trovano Paul McCartney e John Lennon sotto lo stesso tetto?! Per giunta con un George Harrison che diventava sempre più bravo e che, giustamente, scalpitava per avere più voce in capitolo. Questa, però, è già materia per un altro post.

Freddie Mercury

freddie-mercury-immagine-pubblica-blogOggi 5 settembre, Farouk Bulsara avrebbe compiuto sessantanni. Avrebbe, se una terribile malattia chiamata AIDS non l’avesse strappato a quella vita che tanto amava, il 24 novembre 1991. Farouk Bulsara è conosciuto come Freddie Mercury, il carismatico & inimitabile & fantasioso leader dei Queen, una delle più eccitanti rock band mai apparse sul pianeta.

Nato nel 1946 sull’isola africana di Zanzibar, Freddie è il primogenito di Bomi e Jer Bulsara, impiegati di origine iraniana al servizio dell’impero britannico. Qualche anno dopo gli nasce una sorella, Kashmira, ma a causa della rivolta anticoloniale in Zanzibar, la famiglia Bulsara ripara in India e poi a Londra nella seconda metà degli anni Sessanta. E’ qui che grazie all’amico Tim Staffel, cantante e bassista degli Smile, Freddie conosce gli altri due componenti del gruppo, il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor. Nel frattempo, il giovane Bulsara canta e suona il piano in diverse formazioni, tra le quali Ibex e Wreckage, anche se lega sempre più con May e Taylor. Infatti, quando Staffel decide di cambiare aria, i due si rivolgono proprio a Mercury (che adotta questo nome d’arte in onore al messaggero degli dei, Mercurio) per fargli assumere il ruolo di cantante.

La band, su proposta di Freddie, cambia quindi nome in Queen e nel corso del 1970 inizia a suonare un po’ in giro con vari bassisti. La formazione diventa finalmente stabile nel 1971 con l’arrivo di John Deacon, anche se il primo album della band, l’omonimo “Queen“, vede la luce solo nel ’73. Nel frattempo, Freddie accetta di partecipare come cantante e pianista a un singolo accreditato ad un tale Larry Lurex (parodia di Gary Glitter, allora in voga come emulatore di David Bowie e dei lustrini del glam): i brani sono due, I Can Hear Music (cover dei Beach Boys) e Goin’ Back (cover di Carole King), e si avvalgono della collaborazione degli stessi Brian e Roger.

Nel marzo del 1974 esce il secondo album dei Queen, “Queen II“, che rappresenta già una pietra miliare nella loro discografia: il suono è già quello, l’incisione è tecnicamente perfetta, la voce di Freddie è già la più bella del mondo, canzoni come The March Of The Black Queen, Ogre Battle, Father And Son, White Queen e il singolo Seven Seas Of Rhye sono già mature e indimenticabili. Ma la band non riposa sugli allori: a novembre esce “Sheer Heart Attack” che si piazza al 5° posto della classifica inglese, mentre il singolo Killer Queen raggiunge il 2° posto.

La scalata è inarrestabile: nell’ottobre 1975 esce Bohemian Rhapsody, uno dei singoli più strepitosi della storia del rock (scritto da Freddie come gran parte dei singoli precedenti dei Queen), che vola al 1° posto della classifica inglese, trascinando con sé il successivo album “A Night At The Opera“. L’anno dopo esce “A Day At The Races”, che per la seconda volta consecutiva consegna il 1° posto per gli album ai Queen: le canzoni più belle, manco a dirlo, sono di Freddie, ovvero Somebody To Love e You Take My Breath Away.

In quegli anni esplode il punk e i Queen, assieme a Genesis, Pink Floyd, Led Zeppelin e Yes sono visti come dinosauri ormai surclassati: i Queen se ne fregano e pubblicano la loro risposta nel 1977, “News Of The World”, contenente il pezzo più popolare di Freddie, We Are The Champions, che è tutto dire. In seguito i Queen pubblicano l’album “Jazz” (1978), il doppio dal vivo “Live Killers” (1979), l’album “The Game” (1980), la colonna sonora di “Flash Gordon” (1980) e la stupenda raccolta “Greatest Hits” (1981), tutti grossi successi internazionali che proiettano i Queen nell’olimpo del rock e fanno di Freddie Mercury una vera icona.

Dopo la sbornia rock che culmina col fantastico singolo Under Pressure (ottobre ’81), una collaborazione tra i Queen e David Bowie, Freddie decide di cambiare strada. S’innamora della disco music, delle grandi regine del soul e diventa amico di Michael Jackson. Sempre più intensa è la frequentazione di Freddie dei club e dei locali omosessuali disseminati tra Londra, New York e Monaco di Baviera. La sfrenata vita mondana e notturna di Mercury si riflette nel nuovo album dei Queen, “Hot Space” (1982), che tuttavia genera disaffezione tra i fan storici e metallari del gruppo. Nel 1983 Freddie inizia a concepire il suo primo album solista: nascono collaborazioni importanti con Giorgio Moroder (i due realizzeranno la bellissima Love Kills), con Rod Stewart – anche se i due preferiscono andare a fare casino in giro con Elton John piuttosto che collaborare in studio – e con Michael Jackson (ma i due brani incisi in forma di demo, State Of Shock e There Must Be More To Life Than This sono ancora ufficialmente inediti in quella forma).

Intanto, a Los Angeles, prendono avvio i preparativi del prossimo album dei Queen, il potente “The Works”, che vede la luce al principio del 1984 dopo essere stato preceduto dall’immenso singolo Radio Ga Ga (dicembre ’83). Nell’album è inclusa anche It’s A Hard Life, uno dei brani più belli e appassionati di Freddie. Il primo album solista di Mercury, invece, “Mr. Bad Guy“, vede la luce nel maggio ’85, anticipato dalla stupenda I Was Born To Love You. L’album contiene altre perle come Made In Heaven, Man Made Paradise (suonata dai Queen, così come la loro presenza è evidente in altri brani ‘solisti’), Living On My Own e Love Me Like There’s No Tomorrow.

Freddie torna comunque all’ovile in luglio, quando i Queen la fanno da padroni assoluti all’ormai storico concerto del Live Aid: una performance di fuoco che ravviva i Queen e li porta ad incidere del nuovo materiale, primo del quale sotto forma di singolo a novembre, One Vision. Seguono i preparativi per la colonna sonora del film “Highander“, che genera lo straordinario album “A Kind Of Magic” (giugno 1986). Dopo il Magic Tour che porta l’assoluta potenza dal vivo dei Queen in giro per il mondo, Freddie decide di concedersi una seconda parentesi solista. Prima collabora al musical “Time” dell’amico Dave Clark, incidendo le superbe e struggenti Time e In My Defence, poi pensa ad un nuovo album. Le sessioni iniziano così nel gennaio ’87 e generano il singolo The Great Pretender: l’incredibile voce di Mercury porta ad un livello stellare la celebre cover dei Platters. Il resto del lavoro è discontinuo ma poi riceve la spinta giusta dalla diva spagnola Montserrat Caballé. Freddie resta folgorato dalla voce e dalla presenza scenica del celebre soprano ed i due realizzano prima un singolo e poi un album, entrambi indimenticabili ed entrambi chiamati “Barcelona“.

Tuttavia, col volgere degli anni Ottanta, la vita di Freddie diventa sempre più ritirata: ormai convive col compagno Jim Hutton in una grandiosa villa vittoriana nel quartiere londinese di Kensington, circondato da domestici, dai suoi amati gatti e dalla sua vasta collezione di oggetti d’arte. Iniziano a circolare voci insistenti secondo cui Freddie avrebbe contratto l’AIDS ma il diretto interessato, con grandissima dignità, preferisce buttarsi a capofitto nella registrazione in studio con i Queen. Escono quindi gli album “The Miracle” (maggio 1989) e “Innuendo” (febbraio 1991), dischi che volano entrambi al 1° posto della classifica inglese, accompagnati da singoli potenti e formidabili quali I Want It All, Breakthru, The Miracle, Innuendo, Headlong, I’m Going Slighty Mad e The Show Must Go On.

Freddie ha in mente anche una terza prova solista, “Time In May”, ma sarà soltanto il tempo ad impedirgli di realizzarla: ormai la sua villa è diventata una clinica privata, le sue apparizioni pubbliche sono rarissime, il suo volto è sempre più smunto, anche se la sua incredibile vitalità rimane intatta. Nel corso del ’91 torna in studio con i Queen ma, dopo aver inciso una manciata di nuove canzoni (tra le quali la sofferta e portentosa Mother Love), in settembre fa ritorno a Londra dal suo ‘rifugio’ di Montreaux, in Svizzera: ormai ha capito d’aver perso la sua battaglia con l’AIDS e rinuncia alle dolorose cure alle quali si sottoponeva da due anni.

La verità arriva il 23 novembre, quando Freddie fa diramare un comunicato ufficiale in cui ammette di aver contratto il virus dell’HIV. La morte lo coglie nella sua casa il giorno dopo, alle sette di sera. Il cordoglio è grandissimo in tutto il mondo, mentre con gli anni la fama di Freddie Mercury assurge alla statura di mito assoluto nell’olimpo rock. – Matteo Aceto