Queen, “News Of The World”, 1977

L’album “News Of The World”, il sesto dei Queen, usciva proprio in questi ultimi giorni d’ottobre, nel lontano 1977. E’ in qualche modo un disco atipico per i Queen, un disco che suona diversamente da tutti gli altri: solitamente maniaci del perfezionismo in studio, Freddie Mercury e compagni registrarono le undici canzoni del loro “News Of The World” in soli due mesi (contro i quattro, i sei o gli addirittura dodici di altri loro progetti) e per giunta autoproducendo il tutto. Insomma, il suono complessivo di un album come “News Of The World” è molto meno levigato del solito e la cosa – almeno per quanto mi riguarda – è un pregio e un difetto allo stesso tempo. Se, infatti, alcune canzoni hanno beneficiato della maggior spontaneità ed immediatezza, altre – con gli opportuni ritocchi che qui sono mancati – sarebbero state degli autentici capolavori.

E così, accanto a brani come We Will Rock You e We Are The Champions, due pezzi strafamosi che proprio non riesco ad immaginarmeli diversi da come sono, trovo sempre un po’ frustrante l’ascolto di pezzi come Spread Your Wings e It’s Late che, affidati alle cure abituali che i Queen riservavano alle loro canzoni, avrei magari apprezzato molto di più. Bene invece pezzi come My Melancholy Blues, una ballata insolitamente jazzata dove i nostri si concedono anche il lusso di fare a meno della chitarra di Brian May, e Fight From The Inside, un funk-rock eseguito quasi interamente dal suo autore, Roger Taylor, un brano grezzo al punto giusto, oltre che rivelatore del sound che verrà (vedi i vari Fun It, Dragon Attack, Another One Bites The Dust…).

A John Deacon, l’anima più quieta e romantica dei Queen, è invece dovuta l’innocua Who Needs You, un brano prevalentemente acustico e dalle sonorità latine che forse stona un po’ nel contesto dell’album. E se Brian May è il principale artefice di quella che probabilmente è la canzone più scarna dei Queen, la bluesy Sleeping On The Sidewalk (ma anche la sua We Will Rock You non scherza affatto in tal senso), a Freddie Mercury è stato concesso (o se l’è ritagliato lui stesso) uno spazio autoriale più esiguo del solito: appena tre canzoni, ovvero le già citate We Are The Champions e Melancholy Blues, oltre alla stralunata Get Down Make Love.

“News Of The World”, ad ogni modo, se la cavò alla grande in classifica, giungendo al quarto posto nelle charts di casa (mentre imperavano il punk e la disco, c’è da dire) e addirittura al terzo nelle charts americane. Vale la pena accennare, infine, alla corposa riedizione deluxe che i Queen superstiti hanno dato alle stampe nel 2017, in occasione del quarantennale dell’album, dove si può trovare tutta una serie di versioni alternative delle undici canzoni contenute nell’album originale: la sola versione non editata di We Are The Champions, lunga pressappoco quattro minuti e mezzo (contro i tre della versione universalmente conosciuta) basta a giustificare l’acquisto dell’intero box, che poi è anche bello da vedere e da possedere come oggetto d’arte in quanto tale. – Matteo Aceto

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Brian May, “Back To The Light”, 1992

Nel settembre 1992, quando da un tigì Rai venni a sapere che Brian May dava alle stampe il suo primo album solista, “Back To The Light”, pensai subito che il capelluto chitarrista dei Queen stesse approfittando commercialmente dell’onda lunga emotiva seguita alla morte di Freddie Mercury, avvenuta nel novembre precedente. Invece, come seppi tempo dopo, il progetto “Back To The Light” risaliva a ben cinque anni prima, a quel 1987 in cui Freddie era vivo e vegeto e si stava occupando d’un suo famoso progetto solista (vedi QUI), in un periodo in cui i Queen come band erano inattivi. E così, mentre pure Roger Taylor faceva pubblicare il suo “Shove It” a nome The Cross, anche il buon Brian stava pensando agli affari solistici suoi. Preferì comunque concentrarsi su “Talking Of Love”, un album che scrisse, suonò e produsse per l’attrice Anita Dobson (che poi sarebbe diventata la nuova signora May), rimandando il suo effettivo progetto solista a data da destinarsi.

Sarebbero seguiti due nuovi album dei Queen, “The Miracle” e “Innuendo“, svariate collaborazioni e l’invito della Ford ad occuparsi della musica d’uno spot per le sue auto prima di vedere finalmente “Back To The Light” nei negozi, quando ormai Freddie Mercury non era più di questo mondo. Mercury cui il disco di May era debitamente dedicato, assieme al padre dello stesso chitarrista, morto poco tempo prima e al quale il nostro era molto legato.

Anni di grandi vicissitudini, in quel quinquennio 1987-92, di enormi cambiamenti per Brian, tanto sul piano personale quanto su quello professionale, tutti più o meno inevitabilmente confluiti nei temi e nelle atmosfere di “Back To The Light”. Un bel disco di onesto pop-rock, quest’ultimo, dove Brian May spicca non solo come chitarrista (e la cosa non sorprende, ovviamente) ma anche come polistrumentista e soprattutto come cantante, oltre che come autore eclettico ma mai dispersivo. Non un capolavoro, “Back To The Light”, ma certamente un disco valido, il migliore che Brian ha proposto finora come solista, secondo il mio modesto avviso, forte di almeno due canzoni che ogni fan dei Queen dovrebbe apprezzare particolarmente, ovvero la struggente Too Much Love Will Kill You (un brano dei Queen praticamente pronto nel 1989 ma che solo sei anni dopo è stato possibile apprezzare con l’originale voce di Mercury) e la stessa Back To The Light, un brano che affidato ai Queen al gran completo avrebbe potuto guadagnare lo status di classico del gruppo.

In questo primo album di Brian May troviamo inoltre una formidabile cavalcata heavy con Resurrection, momenti più intimi (e perfino dolenti) come Just One Life e Nothin’ But Blue (molto somigliante a A Winter’s Tale dei Queen, fra l’altro, con tanto di John Deacon al basso), altri più scanzonati come Let Your Heart Rule Your Head (discendente della country ’39 che contribuisce al fascino d’un disco come “A Night At The Opera“), ibridi rock-blues come Love Token e perfino uno strumentale, Last Horizon, mentre l’iniziale The Dark va a ripescare parti strumentali inedite risalenti addirittura alle sedute di registrazione di “Flash Gordon“.

Due parole a parte, infine, per Driven By You, primo singolo estratto da “Back To The Light”, che curiosamente venne pubblicato il 24 novembre 1991, quando poche ore dopo giunse una notizia tristissima per tutti noi fan, la morte di Freddie. Proprio Freddie avrebbe dovuto cantare in Driven By You, con Brian alla chitarra e il resto agli altri due membri dei Queen; la Ford voleva infatti un pezzo inedito da parte della celeberrima rock band inglese ma – da un lato il lavoro su “Innuendo” e su quello che poi sarebbe diventato “Made In Heaven“, e dall’altro il progressivo peggioramento della salute di Mercury – alla fine rimase il solo Brian a portare avanti il compito. – Matteo Aceto

Queen, “A Day At The Races”, 1976

queen, a day at the races, immagine pubblica blogTra tutti gli album dei miei amati Queen, “A Day At The Races” resta quello che probabilmente ho ascoltato di meno. Meno d’una decina di volte di sicuro, considerando che ne posseggo una copia in vinile da oltre vent’anni e che nel 2011 ne ho riacquistata un’altra, in formato ciddì (remasterizzata e con brani aggiunti). Eppure niente, quella tra me e questo disco è una storia d’amore mai nata. Come per il formato mp3, insomma. E come per lo sport del calcio, fra le altre cose. Sto divagando, lo so.

“A Day At The Races” non può certo essere considerato un brutto disco, e se non altro contiene una delle canzoni più belle & rappresentative dei Queen, quella Somebody To Love che ormai dovrebbero conoscere anche gli animali domestici. Le altre canzoni, però, il modo in cui sono state incise e perfino la loro sequenza nell’album non mi hanno mai convinto appieno. “A Day At The Races” è per me il classico disco che un fan compra tanto per completare la collezione. Tolta Somebody To Love – che ho comunque sul primo “Greatest Hits” dei Queen – e tolta Tie Your Mother Down – alla quale ho sempre preferito la scatenata versione dal vivo a Wembley nel 1986 – potrei in definitiva anche farmi derubare delle mie due copie di “A Day At The Races” che forse non me ne accorgerei nemmeno.

Seguito un po’ sbiadito di “A Night At The Opera“, col quale condivide titolo (entrambi sono i titoli originali di altrettanti film dei Fratelli Marx) e veste grafica, “A Day At The Races” contiene inoltre quella che considero una delle canzoni più brutte dei Queen, ovvero Drowse, scritta dal batterista Roger Taylor (per me l’autore meno dotato tra i componenti della band, anche se a partire dagli anni Ottanta ha avuto modo di migliorarsi parecchio), mentre brani come You And I e The Millionaire Waltz mi hanno sempre lasciato indifferente. In tutte le altre canzoni ho sempre trovato un qualcosa d’artificioso che, a ben pensarci, mi ha fatto storcere il naso fin dalla prima volta che ho ascoltato questo disco, a metà anni Novanta.

Perfino quella che viene considerata una delle canzoni più belle e suggestive di Freddie Mercury, ovvero You Take My Breath Away (per certi aspetti anticipatrice del “Barcelona” che verrà), non mi ha mai appagato del tutto. Forse è un problema di produzione: con “A Day At The Races”, infatti, per la prima volta un disco dei Queen è stato prodotto da essi stessi, rinunciando a quel Roy Thomas Baker che aveva contribuito non poco al successo di “A Night At The Opera”. Ecco, secondo me i Queen non erano pronti par far tutto da soli; tant’è vero che dopo “A Day At The Races” si autoprodussero il solo “News Of The World” (dal sound più fresco, in effetti) e già con “Jazz” tornarono a chiedere i servigi del buon Baker. In seguito, pur cambiando produttore altre volte, quello della completa autoproduzione fu un esperimento che i Queen non ripeterono più.

Magari potrei aggiungere altro all’oggetto di questo post, il successo in classifica o qualche aneddoto curioso, ma in fondo a che pro? È un disco che ho ascoltato poco, come detto all’inizio, e che non è mai stato di mio gradimento. Resto comunque in attesa spasmodica di “Bohemian Rhapsody“, il biopic sui Queen diretto dal controverso Bryan Singer: uscito in gran parte del mondo ai primi del mese, in Italia verrà distribuito nelle sale a partire dal 29 novembre. In America, nonostante le critiche non sempre positive da parte degli “addetti ai lavori”, il film è già un successo. E tutto questo, c’è da giurarlo, rilancerà in classifica gran parte delle raccolte e degli album dei Queen; magari anche il mio ben poco amato “A Day At The Races”. – Matteo Aceto

Queen, “The Works”, 1984

Queen The Works, 1984 immagine pubblica blog“The Works” è stato il primo album dei Queen che ho acquistato, in formato musicassetta, al prezzo di diciottomila lire, nel 1992. Considerando che qualche tempo dopo sono andato a comprarne anche una copia in ciddì e che, all’incirca nello stesso periodo, ne ho regalata un’altra (in vinile) in occasione d’un compleanno, “The Works” è l’album dei Queen che più ho comprato. Ah, dimenticavo: nel 2011 ho anche preso la riedizione remaster con tanto di disco bonus contenente versioni alternative di alcune canzoni presenti nella scaletta originale.

“The Works” è ricordato soprattutto perché contiene due fenomenali singoli come Radio Ga Ga e I Want To Break Free, tuttora tra i brani più rappresentativi non solo dei Queen ma anche della musica pop degli anni Ottanta. Se con I Want To Break Free il suo autore, il bassista John Deacon, consolidò la sua fama di songwriter di successo dopo i fasti di Another One Bites The Dust (1980), con la sua Radio Ga Ga il batterista Roger Taylor divenne il quarto componente dei Queen su quattro ad aver scritto almeno uno dei grandi hit del gruppo. Credo che questo sia un record che nessun’altra band ha mai nemmeno eguagliato.

Gli altri due membri del quartetto, ovvero Freddie Mercury e Brian May, non furono comunque da meno: non solo firmarono gli altri due singoli estratti dall’album – It’s A Hard Life per Freddie e Hammer To Fall per Brian – ma firmarono insieme ed eseguirono da soli il brano conclusivo dell’album, quella Is This The World We Created…? che sembrava fatta apposta per suggellare la trionfale performance che i Queen avrebbero offerto nel corso del celeberrimo Live Aid (luglio ’85). E poi, se vogliamo dirla tutta, It’s A Hard Life resta la canzone più bella del disco, oltre che una delle più belle dell’intero repertorio dei Queen. Personalmente, inoltre, la ritengo la più bella che i nostri hanno pubblicato negli anni Ottanta.

Primo album dei Queen inciso (anche se non interamente) in America, in terra californiana, “The Works” ha inoltre una sua evidente qualità cinematografica: se l’album mette in bella mostra le fotografie scattate da George Hurrell, il famoso fotografo delle dive di Hollywood, il video di Radio Ga Ga mostra invece diverse sequenze tratte da “Metropolis”, il capolavoro di Fritz Lang del 1926. Senza poi contare che un brano originale dell’album, Keep Passing The Open Windows, era stato originariamente pensato come parte delle colonna sonora del film “Hotel New Hampshire” di Tony Richardson, colonna sonora che i Queen avrebbero dovuto firmare così come fecero quattro anni prima per “Flash Gordon“. Alla fine non se ne fece niente, la pulsante Keep Passing The Open Windows finì su “The Works” e il manager dei Queen, Jim Beach, restò legato al film in qualità di co-produttore.

Oltre alle canzoni che abbiamo già citato, “The Works” include anche la heavy Tear It Up, la scanzonata Man On The Prowl (con un grandissimo Fred Mandel al piano) e la futuristica Machines. Nove brani in tutto che non portano la durata complessiva dell’album a superare i quaranta minuti. Eppure, in quel periodo, i nostri furono piuttosto prolifici in studio: altri brani come Killing Time e I Cry For You (scritti da Taylor), Let Me In Your Heart Again (scritto da May), Love Kills e Man Made Paradise (scritti da Mercury) avrebbero infatti potuto far parte di “The Works” ma, per un motivo o per l’altro, sono finiti nei rispettivi progetti extra Queen dei propri autori. Senza poi contare che, alla fine di quell’estate, i Queen erano di nuovo in sala d’incisione per realizzare quello che sarebbe stato il loro primo e unico singolo natalizio, ovvero quella Thank God It’s Christmas che avrebbe visto la luce sul finire di quello stesso 1984. – Matteo Aceto

All’indomani del Record Store Day

record store day immagine pubblica blogSabato scorso ho anch’io festeggiato il Record Store Day facendo quello che c’era da fare: andare al negozio di dischi, quello vero, che vende solo quelli, e fare acquisti. E’ stato tuttavia un Record Store Day abbastanza triste per me: e non soltanto perché non sono riuscito a mettere le mani sull’ambita ristampa in doppio vinile bianco di “Dead Bees On A Cake”, l’album di David Sylvian originariamente uscito nel 1999, ma soprattutto perché ho trovato uno dei negozi storici di Pescara, Discover, drammaticamente chiuso. Qualche settimana fa era venuto a mancare il titolare e, forse, di lì a poco, la decisione di chiudere Discover è stata anche pubblicizzata da qualche parte. Io non ne sapevo niente, ormai vivo a molti chilometri di distanza da Pescara, ma venirlo a scoprire proprio nel giorno in cui si dovrebbero festeggiare i negozi di dischi ha qualcosa di tristemente crudele.

E così, già che c’ero, ho fatto comunque un paio di acquisti, nell’unico, vero, storico, negozio di dischi rimasto a Pescara, ovvero Gong. Ho così comprato il “Rubberband EP” di Miles Davis (un dodici pollici da 45 giri contenente quattro brani) e il “Journey’s End” di Roger Taylor, il batterista dei Queen (un dieci pollici da 45 giri anch’esso, contenente però due soli pezzi). Un po’ pochino, insomma. E quello che ho ascoltato non m’è piaciuto granché.

Mi sto tuttavia consolando con due acquisti che nel frattempo avevo ordinato online: l’ultimo capitolo della “Bootleg Series” dedicato dalla Sony a Miles Davis, “The Final Tour” (quattro ciddì che documentano per la prima volta in maniera ufficiale la tournée di concerti che il Miles Davis Quintet tenne in Europa nel 1960, l’ultima con John Coltrane ancora nei ranghi) e la riedizione deluxe di “Purple Rain”, il capolavoro firmato Prince & The Revolution del 1984, riproposto lo scorso anno in una versione estesa da tre ciddì più divuddì. In settimana, inoltre, dovrebbe arrivarmi anche un cofanetto di Bruce Springsteen del 2015 che tenevo d’occhio da tempo, “The Ties That Bind”, dedicato al suo celebre & celebrato album del 1980, “The River”.

Forse, di questi miei recenti acquisti discografici avremo modo di parlare più dettagliatamente in specifici post. Il prossimo comunque dovrebbe riguardare un album da studio dei Genesis che giace già da qualche settimane tra le bozze di questo blog. Insomma, avremo modo di aggiornarci presto. – Matteo Aceto

Queen, “Sheer Heart Attack”, 1974

queen, sheer heart attack, immagine pubblica blogTerzo album dei Queen, e secondo pubblicato nel solo 1974, “Sheer Heart Attack” è un lavoro che non ho mai compreso appieno. Troppo eclettico, perfino per gli standard dei nostri, poco organico rispetto a quanto il quartetto inglese aveva già fatto sentire con “Queen II” e farà sentire con “A Night At The Opera“, questo “Sheer Heart Attack” è un ascolto che mi scivola via ogni volta senza lasciarmi grande impressione. Certo, non mancano le grandi canzoni, Killer Queen su tutte le altre. Mi sono sempre chiesto però che cosa c’entrassero delle melodie pianistiche poco più che abbozzate come Lily Of The Valley e Dear Friends con pezzi più compositi e ben più rock come Brighton Rock e Flick Of The Wrist. E poi perché quella sequela di brani da uno o due minuti come Stone Cold Crazy, Bring Back That Leroy Brown, Misfire (primo contributo autoriale ufficiale di John Deacon in seno ai Queen) e le stesse Lily Of The Valley e Dear Friends? Non si fa in tempo ad apprezzarle che sono già finite, passando così alla prossima canzone quasi come un effetto sorpresa. E forse, chissà, era proprio l’effetto che i Queen volevano ottenere.

Personalmente, poi, non ho mai amato uno dei singoli estratti dall’album, quella Now I’m Here che ancora nel 1986 – anno dell’ultimo tour mondiale dei Queen – veniva eseguita di fronte a platee capaci di riempire stadi interi. Questione di gusti, ovviamente. Sempre nel 1986, i nostri eseguivano regolarmente anche In The Lap Of The Gods, ovvero uno dei momenti più alti di “Sheer Heart Attack”. Tuttavia ho sempre preferito quelle versioni dal vivo alle due contenute nell’album originale del ’74: sì, due perché nel disco troviamo due differenti versioni della stessa canzone, nate entrambe dalla penna di Freddie Mercury. Mi piacciono tutte & due le versioni ma, ancora una volta, entrambe hanno qualcosa di sgradevole che mi fa pensare puntualmente che “avrebbero potuto farle meglio”. Sto parlando di quello straniante effetto rallentato sulla voce di Freddie nella prima In The Lap Of The Gods e di quell’esplosione fragorosa (e fastidiosa) sul finale della versione Revisited, che per giunta chiude il disco. Un finale col botto, letteralmente.

Anche i due brani cantati da Brian May e da Roger Taylor, ovvero – rispettivamente – She Makes Me e Tenement Funster, non mi hanno mai convito del tutto: troppo tirata per le lunghe la prima e troppo breve la seconda, di certo avrebbero guadagnato qualcosa in più se fossero state affidate alla voce di Mercury. Restiamo però sempre nel campo delle possibilità: se avessero fatto così, se avessero modificato cosà, eccetera. Insomma, quello che sento di “Sheer Heart Attack”, anche il buono, non mi piace mai completamente.

Acclamato tanto dal pubblico (al secondo posto sia nella classifica degli album e sia in quella dei singoli, con Killer Queen) quanto dalla critica (forse l’ultimo disco dei Queen che sia stato universalmente apprezzato anche dai recensori di professione), “Sheer Heart Attack” mostra se non altro una band vivace, versatile e ricca d’inventiva. Un’inventiva che, tuttavia, sembra dover ancora trovare uno sbocco unitario, finendo per risultare piuttosto dispersiva all’ascolto. Se non altro, i Queen dimostrarono in tempi brevi di saper fare di meglio. E il resto, come si dice, è storia. – Matteo Aceto

Queen, “A Night At The Opera”, 1975

Queen A Night At The Opera immagine pubblica blogMi resta difficile stabilire quale disco dei Queen possa essere considerato il loro capolavoro assoluto. Senza dubbio, tra i fan, un album come “A Night At The Opera” è sempre stato in pole position tra i possibili candidati. E’ anche il primo album dei Queen ad essere stato riproposto in edizione deluxe, in occasione di uno dei suoi decennali (il 2005, se non erro), e questo forse dice qualcosa sull’importanza che la band e/o la casa discografica gli attribuivano all’interno della discografia ufficiale dei Queen. Eppure “A Night At The Opera” non rientra tra i miei preferiti; in tutti questi anni l’avrò ascoltato dieci volte sì & no.

Iniziamo da una caratteristica fondamentale: “A Night At The Opera” è l’album che contiene Bohemian Rhapsody, che forse è davvero la canzone più bella dei Queen. Un pezzo formidabile, una specie di suite dove rock e opera si fondono in maniera strepitosa, che probabilmente rappresenta al meglio lo stile eclettico & potente a un tempo dei Queen. Nel 2000 venne inserita al primo posto in una classifica delle canzoni più belle del Novecento; certo, ricordo anche un’altra classifica che attribuiva a Imagine tale privilegio, ma il fatto che Bohemian Rhapsody possa competere con la canzone più rappresentativa di John Lennon lascia pensare.

Prossima ai sei minuti grazie ai suoi cambi di tempo e d’atmosfera, Bohemian Rhapsody è una canzone che, quando non mi fa venire la pelle d’oca, mi fa scendere una lacrimuccia. Ad ogni modo, ogni suo ascolto è per me un’esperienza sempre emozionante, e forse solo per questo dovrei metterla al primo posto tra i brani queeniani che più amo. Non così posso dire dell’album che la contiene. Il primo motivo è che mentre sta sfumando il suono del gong che la conclude, sento già sovrapporsi il fastidioso inno nazionale inglese che chiude l’album; sì insomma, God Save The Queen mi rovina l’atmosfera, avrei preferito decisamente che “A Nigth At The Opera” terminasse proprio con quel gong che sancisce la fine di Bohemian Rhapsody. Sarebbe stata una chiusura magnifica!

L’album vanta tuttavia un’apertura magnifica, la dura Death On Two Legs, dove un inviperito Freddie Mercury ne dice di tutti i colori a quel manager che per la sua avidità stava portando i Queen sull’orlo dello scioglimento. Freddie non fa alcun nome ma il manager in questione si riconobbe talmente tanto in quel testo che portò la band in tribunale, vincendo pure la causa! Questa però è un’altra storia.

Tornando al contenuto musicale, tra quelli che reputo i due vertici assoluti di “A Night At The Opera”, ovvero Death On Two Legs e Bohemian Rhapsody, troviamo quanto segue: tre innocue canzoncine dall’atmosfera retrò (Lazing On A Sunday Afternoon, Good Company e Seaside Rendezvouz, piacevoli ma un po’ fini a sé stesse), una ruggente rock ballad (I’m In Love With My Car) che però non mi ha mai esaltato (sarà che la canta il batterista Roger Taylor, mentre con Freddie sarebbe stata tutta un’altra cosa), un secondo singolo di successo (You’re My Best Friend), un po’ beatlesiano, molto amato dai fan ma che, per quanto mi riguarda, non rientra tra i miei preferiti (quel monotono saltellare del piano elettrico che scandisce tutto il pezzo non m’è mai suonato gradito, ecco), altre cavalcate in chiave heavy (Sweet Lady), un’escursione nel country (’39) forse un po’ troppo artificiosa, e una lunga escursione di rock progressive (The Prophet’s Song) decisamente troppo artificiosa. Spicca su tutte queste canzoni una ballata che ha trovato però nell’esecuzione dal vivo la sua vera dimensione, ovvero la celebre Love Of My Life, delicata e toccante, per quella che resta una delle canzoni più belle dei nostri.

Album potente ma raffinato, barocco ma non privo d’ironia, a tratti eccessivo ma tutto sommato divertente, “A Night At The Opera” resta per produzione (Roy Thomas Baker con gli stessi Queen), esecuzione (una menzione speciale va al chitarrista Brian May) ed inventiva da studio di registrazione quanto di meglio i Queen ci hanno mai offerto dal loro debutto con “Queen” (1973) almeno fino a “A Day At The Races” (1976). Trascinato da un singolo fenomenale come Bohemian Rhapsody, che conquistò la vetta della classifica inglese dei singoli in quel lontano autunno del 1975, anche “A Night At The Opera” si piazzò al primo posto della rispettiva classifica riservata agli album. – Matteo Aceto

Bohemian Rhapsody: il film sui Queen finalmente in lavorazione

Bohemian Rhapsody Rami Malek Freddie MercuryTanto il sito dei Queen quanto quello del loro chitarrista, Brian May, ci stanno tenendo aggiornati sulla lavorazione del film “Bohemian Rhapsody”, il biopic sulla stessa band inglese, che a questo punto dovrebbe essere distribuito nelle sale nell’autunno 2018. Sì insomma, dopo dieci anni buoni di preproduzione, tra sceneggiatori & attori che andavano e venivano (per la parte di Freddie Mercury si era parlato di Sacha Baron Cohen ma anche di un certo Johnny Depp, mentre una prima stesura era stata scritta da Peter Morgan), il film a cui è stato dato il titolo della più formidabile canzone dei Queen, Bohemian Rhapsody per l’appunto, è finalmente una realtà.

Il regista è Bryan Singer, newyorkese, classe 1965, già dietro la cinepresa per i film della serie “X-Men”, oltre che per “Operazione Valchiria” e “Superman Returns”. Era stato anche coinvolto nella produzione della celebre serie “Dr. House”, se non ho capito male. E se alla sceneggiatura troviamo Justin Haythe (quello di “Revolutionary Road” di Sam Mendes) e Anthony McCarten (quello de “La teoria del tutto” di James Marsh), ad interpretare i quattro componenti originali dei Queen abbiamo finalmente il cast al gran completo: Gwilym Lee sarà Brian May, Ben Hardy sarà il batterista Roger Taylor, Joseph Mazzello sarà il bassista John Deacon e Rami Malek sarà Freddie Mercury (nella foto sopra, la prima foto ufficiale diffusa dalla produzione, anche se mi sembra un po’ ritoccata). Ci saranno inoltre Lucy Boynton e Allen Leech ad interpretare, rispettivamente, la fidanzata storica e il manager personale di Freddie Mercury. Ammetto candidamente d’ignorare tutti questi nomi coinvolti nel casting, saprei giusto dire qualche parola in più su Rami Malek, ma solo perché interpretando Freddie Mercury ha il ruolo più in vista e perciò se ne è parlato di più.

Californiano d’origine egiziana, classe 1981, il buon Malek è noto per aver interpretato il protagonista della serie tivù “Mr. Robot” (della quale non sapevo assolutamente nulla fino a qualche giorno fa), oltre che aver preso parte a un paio di film della serie “Una notte al museo”. Con ogni probabilità, insomma, il rischioso ruolo che gli è stato affidato, quello di un personaggio ormai così impresso nella cultura popolare come Freddie Mercury, sarà il ruolo della sua vita. Staremo a vedere.

Nel cast, infine, pare proprio che ci sia anche Mike Myers, già celebre tra i fan dei Queen per aver interpretato il protagonista in “Wayne’s World”, dove la stessa canzone Bohemian Rhapsody ha una parte memorabile nella buffa vicenda filmica narrata. Ammetto che negli ultimi tempi i biopic (come si chiamano ora i film che riguardano una biografia) sui protagonisti della musica non mi hanno affascinato più di tanto; tanto per dirne una, mi sono stupito della mia stessa indifferenza con la quale ho accolto “Miles Ahead”, il biopic su Miles Davis del 2015 diretto & interpretato da Don Cheadle.

Eppure tutto questo gran parlare di “Bohemian Rhapsody” attraverso i siti ufficiali legati ai Queen ha risvegliato la mia curiosità. Non so esattamente come si svolgerà la vicenda, so soltanto che riguarderà gli anni 1970-1985, quindi dalla fondazione della band a Londra, in quel lontano 1970, al trionfo del Live Aid del luglio 1985. Ed è proprio con la storica esibizione dei Queen al Live Aid che sono iniziate le riprese. Prima dell’autunno 2018, ne sono certo, avremo comunque modo di riparlarne. – Matteo Aceto

Queen, “Flash Gordon”, 1980

Queen Flash Gordon immagine pubblicaAttraverso la sua pagina facebook, ogni giorno Brian May propone una lista degli avvenimenti accaduti nel corso degli anni in quel preciso giorno del calendario, sia che riguardino i Queen, sia che riguardino la sua carriera solista. O anche altro. Lo scorso 11 gennaio, infatti, mi sono sorpreso a leggere sulla pagina facebook ufficiale di Brian May che in quel giorno di quattro anni prima moriva la “nostra” Mariangela Melato, l’attrice, come ricordava May, che ha partecipato nel 1980 a “Flash Gordon”, il film prodotto da Dino De Laurentiis per il quale i Queen avevano inciso la colonna sonora.

A parte il piacere nel veder ricordata quella che rimane una delle mie attrici italiane preferite, mi par di capire che il buon Brian abbia sempre mantenuto un legame speciale con quella sua prima esperienza cinematografica. Quella di realizzare la colonna sonora d’un film come “Flash Gordon”, per lui – laureato in astronomia e con la passione per la fantascienza – dev’essere stata un’esperienza fantastica. Sebbene sia stata composta ed eseguita dai Queen al gran completo, la colonna sonora di “Flash Gordon” figura in effetti Brian May come produttore (assieme a Mack, mentre i Queen sono accreditati come produttori esecutivi), oltre che principale autore. A lui, inoltre, si deve il tema ricorrente dell’intera colonna sonora, quella stessa Flash (o Flash’s Theme che dir si voglia) che risultò tanto un hit single quanto uno dei pezzi più noti dei Queen.

Senza poi contare, inoltre, che ancora nel 1992, alle prese col suo primo vero album da solista, “Back To The Light”, Brian riutilizzò – e in particolare nel brano The Dark – parte del materiale altrimenti inedito scartato dalla colonna sonora di “Flash Gordon”, così come fece tre anni più tardi in alcuni passaggi strumentali dell’album “Made In Heaven“, il primo dei Queen del dopo-Mercury. Insomma, quindici anni dopo e Brian May stava ancora a baloccarsi con le registrazioni audio di quel film non proprio riuscitissimo nel quale recitava pure Mariangela Melato, ricordata ancora con affetto da May in questo 2017.

Per i Queen dev’essere stato davvero un periodo fantastico, quello a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, se già all’indomani dell’uscita dell’album contenente la colonna sonora di “Flash Gordon” (EMI, dicembre 1980), un fin troppo entusiasta Freddie Mercury arrivò addirittura a proclamare quell’album come il migliore dei Queen. Un giudizio eccessivamente lusinghiero perché, a dirla tutta, per certi aspetti è vero proprio il contrario: “Flash Gordon” è l’album peggiore dei Queen. Se tuttavia consideriamo le cose da un altro punto di vista, e cioè che si tratta per l’appunto di una colonna sonora, nello specifico una musica prevalentemente d’ambiente, molto elettronica ma eseguita da un famigerato gruppo rock, “Flash Gordon” è un lavoro decisamente sorprendente.

Ogni singolo membro dei Queen, come s’è già detto, ha partecipato attivamente al progetto con brani di propria composizione, suonando tutti e quattro i sintetizzatori. Non mancano comunque gli strumenti tipici di ognuno: i tamburi di Roger Taylor si sentono ad esempio nella sua In The Space Capsule (Love Theme), il suono inconfondibile della chitarra suonata da John Deacon, lui che è un bassista, si sente invece nella sua Execution Of Flash, mentre l’inconfondibile voce di Freddie la troviamo in The Kiss (Aura Resurrects Flash). E la chitarra di Brian? Beh, la troviamo a tutto spiano in molte parti dell’album, soprattutto in quelle prove inconfondibilmente di gruppo come Football Fight (scritta da Mercury), The Hero (uno dei pezzi rock più strabilianti dei Queen, forse un po’ troppo sottovalutato, a mio modesto avviso), la stessa Flash (dove in pratica la sua voce duetta con quella di Freddie) e poi da solo nell’esecuzione della classica marcia nuziale di Richard Wagner.

Insomma, un lavoro eterogeneo questo “Flash Gordon”, eppure incredibilmente compatto e tutto sommato godibile, nel quale sono stati inseriti molti dialoghi ed effetti sonori del film originale. Tanto per dirne una, la voce stessa di Mariangela Melato, in un inglese scolasticissimo c’è da dire, si sente forte e chiara nella stessa Flash, un brano pulsante e vigoroso che io conoscevo già da bambino, prima ancora di saperne qualcosa sui Queen. Mi pare giusto ricordare poi anche il contributo alla musica dato dal compositore e direttore d’orchestra inglese Howard Blake, qui alle prese con le orchestrazioni del caso; la sua presenza c’è e si sente, contribuendo a rendere alcuni dei motivi dei Queen migliori di quel che siano in realtà. Come già accennato, non tutto il materiale registrato è poi finito nell’album e a farne maggiormente le spese è stato appunto il contributo di Blake.

Ecco, mi piacerebbe un domani poter ascoltare tutta la musica incisa per “Flash Gordon”, anche perché parte di quel materiale venne simultaneamente registrata con le canzoni per l’album “The Game”, che resta il maggior successo commerciale dei Queen, un album che in quel trionfale 1980 volò al primo posto in classifica su entrambe le sponde dell’Atlantico. Mi piacerebbe, che so, un progetto tipo “The Complete The Game and Flash Gordon Sessions 1979-80” o una roba del genere. Per ora mi sono dovuto accontentare di quanto distribuito nel 2011 con le riedizioni remaster degli album dei Queen in occasione del quarantennale della band (ne parlai QUI). Nello specifico, il bonus ciddì incluso nell’edizione limitata di “Flash Gordon” mi ha fatto scoprire una Early Version di The Kiss risalente al marzo ’80 nella quale Freddie canta ed esegue un interessante ibrido pianistico tra The Kiss e Football Fight, oltre a una stratosferica versione Revisited di The Hero risalente all’ottobre 1980 che forse da sola vale l’acquisto di tutto il remaster. – Matteo Aceto

Queen, “Queen II”, 1974

queen-queen-ii-immagine-pubblicaTornando ad occuparmi di Freddie Mercury e curiosando a tal proposito nei miei archivi segreti, scopro d’aver dedicato all’album “Queen II” (1974) ben due post nelle precedenti edizioni di questo modesto blog: l’uno datato 24 maggio 2007 e l’altro 26 febbraio 2008, mentre nel 2011 ho pubblicato un’unica revisione completa in seguito alla ristampa con bonus track edita quell’anno dalla Universal. Siccome quanto scritto allora non mi soddisfa più, proverò con questo post a rielaborare e ricontestualizzare quanto scritto a proposito di quello che resta uno dei miei album preferiti dei Queen. Seguito dell’album “Queen” (1973), questo lavoro successivo si rivela già straordinariamente maturo, ricco d’inventiva e di grandi canzoni, con i Queen già ad introdurre quello stile epico e teatrale che perfezioneranno con gli anni a venire, fino a trarne un sound inconfondibile, potente e melodico a un tempo.

Le due facciate del vinile originale di “Queen II” non erano chiamate lato A e lato B come da tradizione, bensì White Side (composto da Brian May, più una canzone di Roger Taylor) e Black Side (composto interamente da Freddie Mercury), per un totale di undici straordinari brani. Si parte dallo strumentale Procession, suonato dal solo May con una sovrapposizione progressiva di chitarra che sembra ricordare il grave suono di un’orchestra sinfonica. Basterebbe questo breve pezzo (dura poco più d’un minuto) per testimoniare tutta la grandezza e la fantasia che ha sempre caratterizzato quell’illustre chitarrista che è Brian May, all’epoca ventisettenne.

Father To Son è invece il brano più lungo dell’album: forte di oltre sei minuti, la canzone è un’eccellente fusione fra hard rock e progressive; molto bello l’intermezzo strumentale, decisamente heavy, mentre Freddie sfoggia al meglio la sua grande voce. La prolungata e corale dissolvenza di Father To Son ci conduce al pezzo successivo, la stupenda White Queen (As It Began): canzone assai malinconica ma potente in egual misura, rappresenta uno dei momenti più emozionati del disco e, detto fra noi, una delle canzoni dei Queen che preferisco.

Con Some Day One Day troviamo May alla voce solista, in una canzone che inevitabilmente fa grande uso del suo strumento: ad una vivace chitarra ritmica acustica, si sovrappone infatti una (ma in alcuni punti sono due) pigra chitarra solista elettrica; il tutto costituisce un momento più rilassato e cogitabondo in quello che altrimenti è un disco potente e brioso.

Anche la successiva The Loser In The End è cantata dal proprio autore, Roger Taylor: meno gradevole delle altre, questa canzone è comunque una delle opere meglio riuscite – o meno irritanti, dipende da che parte si vuole stare – del Taylor anni Settanta (negli Ottanta avrà modo di maturare parecchio come autore, arrivando alle celeberrime Radio Ga Ga e A Kind Of Magic).

queen-queen-ii-copertina-interna-immagine-pubblicaI nastri che scorrono impetuosamente al contrario ci introducono al Black Side di “Queen II”, con la grandiosa Ogre Battle, un tipico brano mercuryano: hard rock epico e tirato, con l’ennesima maestosa prestazione vocale da parte di Freddie. Segue The Fairy Feller’s Master-Stroke, il brano più teatrale dell’album, a riprova della grande versatilità della band: è un fantasioso brano ispirato ad un quadro altrettanto immaginifico, dipinto da Richard Dadd e a quel tempo esposto alla Tate Gallery di Londra.

La deliziosa Nevermore, una ballata guidata dal piano e dal dolce timbro vocale che Mercury vi utilizza, è un brano forse troppo breve per essere apprezzato appieno. Fa meglio la successiva The March Of The Black Queen, che resta la canzone che preferisco di “Queen II”: sorta di prova generale per quella più fortunata e celebre Bohemian Rhapsody che verrà, Black Queen non ha comunque nulla da inviarle, grazie ai suoi cambi di tempo e di atmosfera, alla solita fantastica parte vocale di Freddie e alle grandiose parti di chitarra di Brian; il tutto sostenuto abilmente dal basso di John Deacon e dalla batteria di Taylor (quest’ultimo canta anche un verso solista nella superba parte veloce del brano).

E’ quindi la volta di Funny How Love Is, una scintillante canzone pop che ricorda parecchio le sonorità più riverberate e gioiose dei Beach Boys, anche se prima passa per un’introduzione decisamente rock e tipicamente Queen. Mi sembra interessante notare la somiglianza tra Funny How Love Is e I Can Hear Music, prodotte entrambe da Robin Cable: la prima canzone sembra infatti un’originale rivisitazione della seconda, che – uscita nel 1972 sotto lo pseudonimo di Larry Lurex – è effettivamente la cover d’un brano dei Beach Boys.

La conclusiva Seven Seas Of Rhye è il singolo di maggior successo estratto dall’album (10° nella classifica inglese dell’epoca): un’epica cavalcata pop-rock a metà strada tra i Beatles e i Led Zeppelin che nel 1986, durante il loro ultimo tour, i Queen ancora proponevano. Per la cronaca, un primo abbozzo di Seven Seas Of Rhye, del tutto strumentale, appare già su “Queen”, il primo album dei nostri, mentre nell’ultimo album realizzato “con” Freddie Mercury, ovvero “Made In Heaven“, la base strumentale di Seven Seas Of Rhye compare nel mix della versione rock di It’s A Beautiful Day. A quanto pare, insomma, un pezzo decisamente centrale nella mitologia queeniana.

Nella discografia dei Queen ci sono album ben più celebrati di questo – “A Night At The Opera” (1975), “News Of The World” (1977), “A Kind Of Magic” (1986) e “Innuendo” (1991) – ma a mio avviso “Queen II” rappresenta la band di Freddie Mercury in uno dei suoi migliori momenti creativi ed espressivi. – Matteo Aceto