Tears For Fears, “Songs From The Big Chair”, 1985

Tears For Fears Songs From The Big Chair immagine pubblicaGravitando ancora per un po’ attorno all’orbita dei Tears For Fears, volevo scrivere quattro parole su quello che probabilmente resta il loro album più famoso, ovvero quel “Songs From The Big Chair” pubblicato la bellezza di trentadue anni fa e che ancora oggi fa capolino in praticamente tutte le rivendite di dischi, da quelli presenti nei centri commerciali agli scatoloni degli ambulanti nei mercatini rionali.

Davvero un disco popolare, questo “Songs From The Big Chair”, è quell’album che vanta una delle più famose (e potenti) canzoni degli anni Ottanta, quella Shout che credo proprio conoscano anche le pietre. Io, che all’epoca avevo sette anni, il power-pop di Shout me lo ricordo benissimo; di fatto sono trentadue anni che lo ascolto. Che poi il pezzo tratto da “Songs From The Big Chair” che più amo è in verità un altro: Everybody Wants To Rule The World, altro singolo di successo, del quale io ricordo benissimo anche il videoclip che guardavo sul programma “Deejay Television”, in onda su Italia 1. Mi piaceva da matti quella musica irresistibilmente propulsiva abbinata alle immagini on the road di Curt Smith che guidava una Morgan.

Da “Songs From The Big Chair” vennero estratti altri tre singoli: due non proprio fortunatissimi come I Believe (un brano insolitamente soul scandito dal piano) e Mothers Talk (pulsante e rocambolesco elettrorock), e uno più celebre come Head Over Heels (un pezzo pop raggiante e corale che vanta il video più divertente per i nostri), mentre nel corso del 1986 uscì una riedizione di Everybody Wants To Rule The World chiamata Everybody Wants To Run The World, associata a una maratona benefica patrocinata da quello stesso Bob Geldof che un anno prima aveva dato avvio al progetto Live Aid.

Ad ogni modo, “Songs From The Big Chair” fu un successo straordinario in tutto il mondo (1° posto in classifica nella nativa Gran Bretagna e 2° posto nella classifica USA, tanto per dire), facendo dei Tears For Fears una delle band più popolari dei pianeta. Successo che però fu mal digerito dai nostri: Roland Orzabal e Curt Smith non sono mai stati (e mai si sono sentiti) dei divi pop, e Smith in particolare ha sofferto a tal punto la popolarità da chiamarsi fuori dall’avventura Tears For Fears già dopo il tour promozionale per l’album “The Seeds Of Love“, seguito di “Songs From The Big Chair” e – manco a dirlo – terzo album di fila per i nostri a raggiungere la vetta delle charts britanniche.

Prodotto da Chris Hughes con Dave Bascombe già tecnico del suono (sarà quindi proprio quest’ultimo il produttore di “The Seeds Of Love”), l’album “Songs From The Big Chair” figura anche la maestosa The Working Hour, cantata magnificamente da Orzabal e impreziosita dal sax di Mel Collins, la frenetica Broken (appropriatamente spezzata in due, in una sorta d’introduzione e di chiusura di Head Over Heels) e la conclusiva Listen, un pezzo stranamente somigliante alla produzione dei connazionali Japan (quelli di David Sylvian, ve li ricordate?) affidato alla voce di Smith. – Matteo Aceto

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Tears For Fears, “The Seeds Of Love”, 1989

tears-for-fears-the-seeds-of-love-immagine-pubblica-blogA lungo mi proposi di dedicare un post a “The Seeds Of Love” dei Tears For Fears, e più volte iniziai una bozza che puntualmente cancellavo dopo poche righe. Infine, il 2 febbraio 2010, sulla prima versione di Immagine Pubblica fece capolino il fatidico post che qui vado a riproporre, con le dovute aggiunte e revisioni del caso.

Allora come adesso, ritengo “The Seeds Of Love” il miglior album dei Tears For Fears, forte di tre famose canzoni come Sowing The Seeds Of Love, Woman In Chains e Advice For The Young At Heart che ancora oggi vengono programmate con una certa frequenza dalle radio italiane. E che ancora oggi continuano a emozionarmi.

Terzo album per il gruppo inglese, “The Seeds Of Love” potrebbe tuttavia essere considerato il primo da solista per Roland Orzabal, dato che il suo partner storico, il bassista/cantante Curt Smith, partecipa solo in alcune delle otto composizioni che formano il disco. Lo stesso Smith, nelle note di copertina, accenna a ‘un periodo di crisi’: crisi che prima lo condurrà al divorzio dalla moglie e poi, nel 1991, al divorzio (artistico) da Orzabal. “The Seeds Of Love” è quindi un album scritto, cantato e suonato da Roland col supporto prezioso di ospiti più o meno illustri, fra cui Phil Collins, Robbie McIntosh, Neil Taylor, Pino Palladino, Jon Hassell, Luis Jardim, Manu Katché e una giovane scoperta degli stessi Tears For Fears, ovvero la cantante/pianista Oleta Adams. La parte da leone la fa comunque la bravissima tastierista Nicky Holland, vera partner artistica di Orzabal per questo progetto, la quale firma con lui ben cinque delle otto canzoni qui presenti.

L’album parte subito in grande stile, con quell’autentico classico degli anni Ottanta chiamato Woman In Chains, una stupenda ballata dove si fa grande spolvero di chitarre arpeggiate e dove Roland duetta magnificamente con Oleta. Pubblicata anche come singolo, Woman In Chains è una canzone delicata & possente a un tempo, sulla condizione della donna nel mondo, la quale resta tristemente un tema di grande attualità. Badman’s Song, chiaramente nata da una jam session in studio, è il brano più lungo del disco: otto minuti & mezzo lungo i quali Roland e Oleta duettano ancora una volta fra cambi di tempo a cavallo fra rock, blues e raffinato pop d’autore.

Altro celebre classico con Sowing The Seeds Of Love, edito come singolo apripista: gioiosa & squisita collaborazione Orzabal-Smith (quindi un brano puramente tearsforfearsiano) per una rivisitazione della I Am The Walrus dei Beatles incentrata sulla situazione sociopolitica dell’Inghilterra di quegli anni. Segue una delle mie canzoni preferite in assoluto, Advice For The Young At Heart: stavolta alla voce troviamo proprio Curt, in quello che sarà il suo ultimo contributo vocale a un brano dei Tears For Fears prima del misconosciuto “Everybody Loves A Happy Ending” del 2004. Con quell’arrangiamento tanto elegante quanto coinvolgente e col suo invito ad aprire i nostri cuori all’amore prima che il tempo ci ricordi che ormai è troppo tardi, Advice For The Young At Heart è una canzone a me molto cara, che mi ricorda inoltre quei giorni in cui mi recavo a piedi alla scuola media, mentre la ascoltavo col walkman.

Standing On The Corner Of The Third World presenta un sound che si discosta parecchio dalla produzione tipica del gruppo: come immersa in una dimensione onirica, è una suadente ballata dai toni africaneggianti che poi termina con accenni progressive. Swords And Knives è invece un pop-rock anch’esso caratterizzato da alcuni cambi di tempo, fra i quali s’annidano parti strumentali dai suoni più disparati. Con Year Of The Knife torniamo in territori pop-rock più abituali e lo facciamo fin da subito, grazie a quella travolgente chitarra elettrica che introduce la canzone; al resto ci pensano una batteria pestante, i cori femminili e una versatilissima parte vocale ad opera di Roland. La conclusiva Famous Last Words – edita anch’essa su singolo benché non sia propriamente un pezzo radiofonico – inizia in modo alquanto minimale, con la voce di Orzabal ridotta a poco più d’un sussurro e adagiata su un tappeto d’effetti tastieristici e orchestrali; segue un rockeggiante interludio dove Roland ritrova tutta la potenza della sua voce, prima di tornare all’atmosfera iniziale del brano che va quindi a chiudere il disco.

Prodotto dagli stessi Tears For Fears con Dave Bascombe, nel 1989 “The Seeds Of Love” volò al primo posto della classifica inglese, così come fecero i precedenti “The Hurting” (1983) e “Songs From The Big Chair” (1985), confermando il duo Orzabal-Smith come uno dei gruppi di maggior successo di quel decennio. Un successo vissuto in modo contraddittorio dai nostri, che a Smith in particolare pesava sempre più e che lo portò presto a dire addio alle luci della ribalta. E anche alla stessa Inghilterra.

E se, a partire dal 2013, prima “The Hurting” e poi “Songs From The Big Chair” sono stati riproposti dalla Universal in sontuose edizioni cofanettate, stessa sorte non è toccata al mio amato “The Seeds Of Love”. Nell’attesa (e io continuo a sperarci) vale quindi la pena di segnalare ancora una volta la riedizione in ciddì del 1999, arricchita dai quattro lati B dei singoli estratti dall’album: il placido strumentale Music For Tables, la latineggiante Always In The Past, l’eccentrica Johnny Panic And The Bible Of Dreams e la percussiva Tears Roll Down, che poi verrà successivamente rielaborata dal solo Orzabal come primo tassello della storia dei Tears For Fears senza Smith, Laid So Low. – Matteo Aceto

Autoreferenze musicali: accuse, rimorsi e nostalgia

George Harrison All Those Years AgoUn altro aspetto della musica che mi ha sempre affascinato riguarda i riferimenti – espliciti o meno – di un artista verso uno o più componenti della sua stessa band. La storia del pop-rock è piena d’esempi, con testi che, da semplici sentimenti di nostalgia per qualcuno che purtroppo non c’è più, vanno ad accuse al vetriolo verso chi non s’è comportato bene per i motivi più disparati. Di seguito riporto quelli che per primi mi sono venuti in mente, riservandomi il diritto d’aggiornare il post in seguito, magari anche col contributo dei lettori.

Partiamo come sempre dai Beatles: già con You Never Give Me Your Money, Paul McCartney si lamentava delle beghe finanziare dell’ultima fase del celebre quartetto. In Two Of Us, invece, Paul ripensa malinconicamente a John Lennon e alla tanta strada che i due hanno fatto insieme. McCartney riuscì comunque a trovare sollievo nella consolatoria Let It Be, dopo i suoi ‘times of trouble’. I riferimenti all’uno o all’altro Beatle sono aumentati dopo lo scioglimento del gruppo: e così abbiamo Ringo Starr che in Early 1970 commenta l’amara fine dei Beatles, George Harrison che sfoga un suo litigio con Paul in Wah Wah, mentre McCartney e Lennon si scambiano accuse, rispettivamente, con Dear Friend e How Do You Sleep?. Altre frecciate da parte di George, verso Paul ma anche John, si trovanon in Living In The Material World. Altre beghe contrattuali e giudiziare in Sue Me Sue You Blues, ancora con Harrison, che tuttavia è l’autore della prima canzone-omaggio a Lennon, All Those Years Ago (nella foto, la copertina del singolo), cosa che anche McCartney farà con la sua Here Today. Invece la morte prematura dello stesso George sarà ricordata da Ringo in Never Without You. Altri riferimenti espliciti ai Beatles in quanto tali si trovano in God di John, in I’m The Greatest di Ringo e in When We Was Fab di George.

In realtà i riferimenti all’uno o all’altro Beatle sono molti di più: ricordo la tesi d’uno studente australiano che affermava come la maggior parte delle canzoni dei Beatles scritte da John e Paul fosse un continuo botta & risposta fra i due: e così, per esempio, se John sceglieva di cimentarsi con la cover di Money (That’s What I Want), Paul rispondeva con la sua Can’t Buy Me Love. Altri riferimenti a McCartney si trovano in You Can’t Do That e Glass Onion, mentre pare che il bassista fosse anche il destinatario di Back Off Boogaloo, uno dei primi pezzi solisti di Ringo, e nella conciliatoria I Know (I Know) di John. E’ un aspetto molto interessante nel canzoniere dei Beatles che meriterebbe un post tutto per sé… per ora andiamo avanti, con esempi presi da altre discografie.

Passando ai Pink Floyd, abbiamo l’arcinota Shine On You Crazy Diamond che ci ricorda Syd Barrett con struggente nostalgia, così come Wish You Were Here e Nobody Home. Ma è dopo la dolorosa defezione di Roger Waters che i componenti dei Floyd iniziano a battersi con le canzoni: e così per un David Gilmour che, rivolgendosi al burbero bassista, canta You Know I’m Right, abbiamo un Waters che replica in Towers Of Faith… ‘questa band è la mia band’. In seguito Gilmour cercherà di essere più conciliante ma Waters seppe solo mandarlo affanculo… è quanto sembra emergere fra le righe di Lost For Words. Altri riferimenti a Barrett e allo stesso Waters si ritrovano in Signs Of Life, brano d’apertura di “A Momentary Lapse Of Reason”.

Risentimenti vari anche in casa Rolling Stones: Mick Jagger e Keith Richards se li sono scambiati a vicenda negli anni Ottanta con, rispettivamente, Shoot Off Your Mouth e You Don’t Move Me. Rabbia verso altri (ex) partner musicali si trovano anche in F.F.F. dei PiL (indirizzata a Keith Levene, solo pochi anni prima affettuosamente ritratto in Bad Baby), in This Corrosion dei Sisters Of Mercy (l’indirizzo è quello di Wayne Hussey), in Fish Out Of Water dei Tears For Fears di Roland Orzabal (il destinatario è ovviamente Curt Smith) e sopratutto in Liar dei Megadeth, ovvero una scarica di pesanti insulti verso l’ex chitarrista Chris Poland.

In casa Queen siamo invece addolorati per la morte di Freddie Mercury: ce lo cantano Brian May con la sua Nothin’ But Blue (alla quale partecipa pure John Deacon) e Roger Taylor con Old Frieds. Ma trasudano tristezza anche Wish You Were Here dei Bee Gees e Knock Me Down dei Red Hot Chili Peppers: nella prima si piange la morte prematura di Andy Gibb, fratello più giovane di Barry, Robin e Maurice, nella seconda si piange invece quella del chitarrista Hillel Slovak. Ancora in casa Chili Peppers, fra l’altro, in Around The World del 1999 viene citato anche il sostituto di Slovak, il più noto John Frusciante.

Sentimenti di rivalsa invece con Don’t Forget To Remember dei Bee Gees, Solsbury Hill di Peter Gabriel, We Are The Clash dei Clash, Why? di Annie Lennox e No Regrets di Robbie Williams: la prima è un monito a Robin Gibb (in quel momento fuori dai Bee Gees), la seconda parla del perché Peter ha deciso di mollare i Genesis, la terza è rivolta da Joe Strummer contro Mick Jones, la quarta è indirizzata a Dave Stewart, partner della Lennox negli Eurythmics, mentre la quinta è rivolta al resto dei Take That, per i quali Robbie non prova ‘nessun rimorso’.

Altri riferimenti più o meno velati ai propri (ex) compagni di gruppo si trovano in Dum Dum Boys di Iggy Pop, Public Image dei PiL, The Winner Takes It All degli Abba, Should I Stay Or Should I Go? dei Clash, The Bitterest Pill dei Jam, In My Darkest Hour dei Megadeth. Ne conoscete degli altri? Sono sicuro che ce ne sono molti ma molti di più! – Matteo Aceto

(ultimo aggiornamento il 2 marzo 2009)

Roland Orzabal, “Tomcats Screaming Outside”, 2000

roland-orzabal-tomcats-screaming-outsideNel 2000 due ghiotte notizie risvegliarono prepotentemente il mio interesse per i Tears For Fears: Curt Smith e Roland Orzabal s’erano finalmente riappacificati e avevano preso a scrivere del nuovo materiale insieme, con Orzabal intanto nell’imminenza di pubblicare un album solista.

In realtà gli ultimi due album dei Tears For Fears – i magnifici “Elemental” (1993) e “Raoul And The Kings Of Spain” (1995) – erano già due lavori solistici per Roland Orzabal e il fatto che desse alle stampe un nuovo disco a suo nome faceva ben sperare per un imminente ritorno dei Tears For Fears. Insomma, mettendo il suo nome su un album, Roland dava ad intendere che il marchio Tears For Fears sarebbe riapparso solo con Curt Smith nei ranghi. E così fu, con lo splendido “Everybody Loves A Happy Ending”, pubblicato dopo non poche peripezie nel 2004.

Ma torniamo al 2000: pare che Roland Orzabal, dopo essersi dilettato a produrre un album per Emiliana Torrini, stia per pubblicare un disco a suo nome pesantemente influenzato dai ritmi jungle e drum ‘n’ bass. Alla notizia resto perplesso… Roland che fa drum ‘n’ bass?! Però è anche vero che Orzabal, almeno a nome Tears For Fears (ma anche a nome Graduate, come scoprirò in seguito), non ha mai sbagliato un colpo, per cui attendo fiducioso il risultato finale. Ma pure questo disco, intitolato “Tomcats Screaming Outside”, non ha vita facile: la casa discografica voleva pubblicarlo a nome Tears For Fears ma Orzabal intendeva giustamente farlo uscire come un progetto solista; e così, coraggiosamente, il nostro cede i diritti a una piccola etichetta, la Eagle Records, che pubblicò finalmente “Tomcats Screaming Outside” nel 2001.

Andai a comprarlo a scatola chiusa, pagandolo non poco, tuttavia ne ben valse la pena: il buon Roland, cheddiolobbenedica, ci ha azzeccato anche stavolta! Fortunatamente non è un disco drum ‘n’ bass come si vociferava… certo, un paio di canzoni sono influenzate da quelle sonorità e l’elettronica non manca in nessun brano però, per molti aspetti, “Tomcats Screaming Outside” è l’album più rockeggiante ad opera nel nostro.

Appena inserito il disco nel lettore, i primi secondi dell’iniziale Ticket To The World mi introducono in una bella dimensione rock lievemente spruzzata d’elettronica che subito m’esalta, anche se stentavo a riconoscere la voce di Roland a causa del suo timbro basso. Credo che non l’avrei riconosciuto se non sapessi chi stavo ascoltando, tuttavia, appena la canzone si avvicina al ritornello, la bella voce orzabaliana si erge con tutta la sua carica. Per il resto Ticket To The World è una delle cose più potenti pubblicate dal nostro, col finale quasi heavy e il basso in grande spolvero per tutta la durata del brano… brano che in poco tempo è diventato uno dei miei preferiti nel repertorio dell’artista inglese!

Ancora meglio fa la successiva Low Life, pubblicata come singolo apripista: su una base vagamente dance si staglia una canzone tanto tesa quanto rock, per un brano veloce e assai coinvolgente. Di fatto, Low Life è il brano che più preferisco fra quelli presenti in questo disco e spesso & volentieri l’ascolto una seconda volta prima di procedere con le altre canzoni. E’ inoltre un pezzo molto intenso se ascoltato in cuffia e particolarmente adatto mentre si è al volante.

Hypnoculture è un pulsante brano col basso in bella mostra: la prima parte della canzone è perlopiù strumentale, salvo dei campionamenti di canti tribali, poi, sul finale, entra la morbida voce del nostro a caratterizzarla inconfondibilmente come una sua creatura. In definitiva, Hypnoculture suona quasi come un brano di world music in chiave techno-rock.

La potente Bullets For Brains, anch’essa così tipica dello stile del nostro, potrebbe essere stata scritta durante le incisioni di brani tearsforfearsiani altrettanto potenti come Laid So Low e Break It Down Again: è comunque un arrembante brano pop-rock venato d’elettronica, con un’ottima performance vocale da parte di Orzabal.

La successiva For The Love Of Cain presenta un andamento ben più disteso, anche se dal ritornello ampio, arioso e cantabilissimo. For The Love Of Cain è un pezzo che non avrebbe sfigurato in nessun disco dei TFF e forse basterebbe la sua sola presenza per giustificare l’acquisto di “Tomcats” ad un fan della band inglese.

Con Under Ether inizia quella che considero la seconda parte di quest’album, un lato più sperimentale dove Roland si diverte a giocare con diverse strutture sonore. In questo caso troviamo un pezzo ipnotico e psichedelico, piuttosto lungo, con le chitarre ben in evidenza. Sulle prime, Under Ether non mi piacque molto ma ascolti successivi me l’hanno rivelata come una delle opere orzabaliane più affascinanti (ascoltare, in particolare, il tono morbido e al contempo impassibile che Roland infonde alla sua versatile voce).

A seguire troviamo Day By Day By Day By Day By Day, una lenta dalla melodia decisamente triste, tuttavia una bella canzone impreziosita dall’ennesima fantastica prova vocale ad opera di Orzabal. La rockeggiante Dandelion è invece un’altra divagazione del nostro in territori più heavy. Un altro buon brano, forse un po’ troppo corto (coi suoi tre minuti e tre è infatti il più breve presente qui) che avrebbe reso di più con l’aggiunta d’un altro interludio chitarristico.

Hey Andy! è piuttosto atipica nel panorama complessivo della musica tearsforfearsiana. Abbiamo infatti una base jungle sulla quale s’innestano gli atmosferici sintetizzatori, il discreto basso e la versatile voce di Roland, che è più pacata nella sequenza delle strofe e più potente & aperta nei ritornelli.

Kill Love è l’esperimento più simile alla drum ‘n’ bass (soprattutto dopo il primo ritornello) contenuto in “Tomcats”, ma la malinconica melodia cantata dal nostro riporta tutto nella giusta prospettiva. Ascoltando Kill Love per la prima volta ho avuto la netta impressione che Roland Orzabal potrebbe destreggiarsi con qualunque sonorità restando spettacolarmente se stesso.

Segue Snowdrop, altro brano alquanto atipico per gli standard del nostro: una melodia calda e rilassata poggiata su una base elettronica leggermente jungle. La melodia si fa più imponente nei ritornelli, rendendo Snowdrop molto più coinvolgente, tuttavia credo che l’arrangiamento elettronico impiegato qui abbia un po’ penalizzato quella che poteva essere un’altra interessante ballata.

La pacata e riflessiva Maybe Our Days Are Numbered, canzone conclusiva, è quella che meno amo fra quelle presenti nell’album. Tuttavia, con ascolti successivi, ho imparato ad apprezzare pure la sua circolare atmosfera elettronica, ipnotica ma anche calda, e la suadente performance vocale di Roland. In fin dei conti, Maybe Our Days è una gradevole chiusura per un album che mi piace molto.

Prodotto dallo stesso Roland Orzabal col fido Alan Griffiths, bravissimo chitarrista e polistrumentista, collaboratore del nostro fin dai primi anni Novanta (in pratica da quando Smith è uscito dai TFF), “Tomcats Screaming Outside” è un disco che piacerà a ogni fan tearsforfearsiano e che perciò mi sento di consigliare vivamente a tutti loro. Inoltre, la sua originale (e riuscitissima) fusione di elementi pop, rock, techno ed elettronici dovrebbe rendere quest’album molto interessante anche ad un casuale appassionato di musica. – Matteo Aceto

Tears For Fears, “Everybody Loves A Happy Ending”, 2004

tears-for-fears-everybody-loves-a-happy-endingNei primi mesi del 2003 viene dato l’annuncio ufficiale che i Tears For Fears, vale a dire Roland Orzabal e Curt Smith, sono tornati finalmente insieme e che si apprestano a pubblicare un nuovo album da studio, il primo da “Raoul And The Kings Of Spain”, datato 1995, ma soprattutto il primo da “The Seeds Of Love” del 1989, l’ultimo album della band inglese a figurare Smith in formazione.

Passa oggi e passa domani e la pubblicazione del disco, intitolato “Everybody Loves A Happy Ending”, viene rinviata a data da destinarsi, con ogni probabilità nel corso del 2004. La cosa mi sembra assurda perché i Tears For Fears hanno firmato per la Universal, una delle quattro major discografiche, e non riesco a capire il motivo di tanto ritardo, considerando che il primo singolo, la stupenda Closest Thing To Heaven, è in rotazione nelle programmazioni radiofoniche. Per me sono mesi lunghissimi, come forse si saprà i Tears For Fears sono fra i miei gruppi preferiti e attendevo questo ritorno da molto tempo, dato che se ne parlava fin dal 2000.

Arriva così il fatidico 2004, passano i mesi, uno dopo l’altro, e del disco non si sa nulla, finché, si dice, “Everybody Loves A Happy Ending”, è uscito nel solo mercato nordamericano. Poi, in un tetro pomeriggio di dicembre, vedo il nuovo disco dei Tears For Fears esposto nella vetrina d’un negozio di Pescara! Entro immediatamente e controllo il disco: è una stampa canadese etichettata dalla NewDoor, una branca della Universal, e venduta alla non modica cifra di ventitrè euro. Macchissenefrega, penso io allegramente, sono anni che aspetto e chissà quanto altro tempo dovrà passare prima che ‘sto ciddì esca pure in Italia!

Con mia somma gioia scopro che “Everybody” non è soltanto un bel disco ma è anche uno dei migliori mai proposti dai Tears For Fears. E’ un vero peccato che un album del genere abbia avuto una distribuzione tanto tribolata; tuttavia, nei primi mesi del 2005, il disco è finalmente disponibile anche nel mercato europeo, con due nuovi brani in aggiunta. Lo compro di nuovo… per regalarlo ad un amico che ha preso l’agognata laurea. Chiusa questa lunga ma spero divertente introduzione, passo a recensire le singole canzoni dell’album, dodici in tutto.

Si parte con l’omonima Everybody Loves A Happy Ending, sorta d’introduzione a tutto il disco, un brano piuttosto teatrale dai continui cambiamenti di tempo e d’atmosfera cantato da Roland. Segue la magnifica Closest Thing To Heaven, primo singolo estratto dall’album: il brano presenta un’evidente somiglianza con Sowing The Seeds Of Love, successo dei nostri datato 1989, ma la canzone in sè è una delle migliori mai offerte dal gruppo.

Call Me Mellow è un delizioso pop rock, altamente orecchiabile e melodicamente irresistibile, tanto da essere stato pubblicato anch’esso come singolo. Con Size Of Sorrow ritroviamo finalmente la voce solista di Curt Smith in un disco dei Tears For Fears dopo la bellezza di quattordici anni! Un brano piuttosto meditabondo, eseguito e cantato con infinita dolcezza per quello che è uno dei momenti migliori dell’album.

La successiva Who Killed Tangerine? presenta due tempi distinti: un’atmosfera più drammatica e vagamente psichedelica caratterizza la sequenza delle strofe, cantate da Roland, mentre il ritornello è un’autentica esplosione corale, con la voce di Curt in bell’evidenza. Segue la rockeggiante Quiet Ones, un brano che sembra uscito dalle sedute di registrazione di “Elemental” (1993), quando il gruppo era lo pseudonimo artistico del solo Orzabal; in realtà la presenza di Smith in questa coinvolgente canzone è forte e chiara.

Ancora Curt è il protagonista della dolce e melodica Who You Are, un brano originariamente pensato per il suo “Halfway, Pleased“, un album solista pubblicato soltanto nel 2007. Con la successiva The Devil ritroviamo la voce di Roland in primo piano, per un’atmosfera dolente ed epica al tempo stesso; un brano più atmosferico ma dal sicuro impatto sull’ascoltatore.

Secret World, una delle canzoni più belle e orecchiabili del disco, ricorda molto le sonorità di Paul McCartney al tempo dei suoi Wings, specie un brano come Let ‘Em In. E’ comunque un altro dei momenti salienti di quest’album. La successiva Killing With Kindness è un’altra magnifica canzone: la sequenza delle strofe è più grave e dolente, mentre lo spazioso ritornello è alquanto liberatorio… l’atmosfera complessiva mi ricorda alcune sonorità tipiche del pop anni Settanta.

Ladybird è una canzone molto interessante: al cullante ritmo nelle strofe, con Roland che sembra cantare ad occhi chiusi, seguono due ritornelli (‘there’s a room somewhere…’ ad opera di Roland e ‘ladybird fly away…’ ad opera di Curt), mentre il bridge ricorda alcune atmosfere presenti in “Pet Sounds” (1966), il capolavoro dei Beach Boys. Il tutto sembra trasportarci via in una dimensione di sogno. Con Last Days On Earth siamo così giunti all’ultima canzone di “Everybody”: un brano vitale, ottimo se suonato mentre si è al volante, ma al contempo suadente e rilassato.

Fin dal primo ascolto ho avuto la certezza di trovarmi alle prese con un gran bel disco, dove si sente chiaramente che per Orzabal e Smith è stato un vero piacere poter tornare a fare musica insieme, infischiandosene delle mode e traendo spunto dagli artisti che più li hanno ispirati: Beatles e Beach Boys sopra gli altri, ma mi pare anche di ravvisarvi qualcosa del compianto Barry White. Purtroppo, come ho cercato di spiegare sopra, la distribuzione di “Everybody Loves A Happy Ending” non è stata delle più felici e forse i continui ritardi di pubblicazione hanno finito col confondere le aspettative di molti potenziali acquirenti. Ma in fondo la questione non m’importa più di tanto: da fan dei Tears For Fears posso assicurare che questo è uno dei loro dischi migliori.

Tears For Fears: storia e discografia

tears-for-fears-immagine-pubblica-blogDa bambino vedevo sempre Bim Bum Bam su Italia 1, veniva addirittura condotto da Paolo Bonolis e Licia Colò. Siccome io non dormivo mai di pomeriggio e la mia trasmissione preferita iniziava alle 16, d’estate mi piazzavo davanti alla tele già verso le 14 e mi vedevo un’altra trasmissione musicale chiamata Dee Jay Television, ideata da Claudio Cecchetto se non sbaglio. Beh, fu probabilmente grazie a quella trasmissione che mi appassionai alla musica. Ricordo chiaramente quando, era il 1985, iniziarono a trascrivere in basso la traduzione del testo che il cantante straniero di turno stava cantando: ricordo ancora due canzoni e due video che amavo, Russians di Sting e Such A Shame dei Talk Talk.

Comunque, fu in quell’anno e nel corso di quella trasmissione che vidi un video che mi colpì molto: Everybody Wants To Rule The World dei Tears For Fears. Vedere quel cantante in occhiali da sole che percorreva le inconfondibili strade americane a bordo di una fantastica Morgan (credo che si tratti di una Morgan, è un’auto inglese per chi non lo sapesse) mi fece già capire tutto: è quello che voglio fare da grande, dissi, cos’altro chiedere alla vita?! E la musica? Beh, quella canzone era (ed è) fantastica, un ritmo incredibilmente trascinante, una voce suadente, un assolo di chitarra perfetto… e quel nome curioso, Tears For Fears, al quale rimasi sempre legato.

Oggi sono un fan dei TFF, ho tutti i loro dischi ma soprattutto posso garantirvi che non hanno mai fatto cilecca: prendete i loro album o anche uno da solista, non ci crederete ma li hanno fatti uno più bello dell’altro, veramente. Iniziamo però dal 1980, con l’album “Acting My Age”, quando il gruppo si chiamava Graduate, un quintetto inglese proveniente da Bath. Già all’epoca, però, i membri più in vista erano Roland Orzabal (cantante, chitarrista e principale autore delle canzoni) e Curt Smith (cantante e bassista). Furono proprio questi due a fondare, l’anno dopo, i Tears For Fears che, a parte un paio di singoli pubblicati fra l’81 e l’82, debuttano nel 1983 con l’album “The Hurting”. Sorretto da singoli incredibili come Change, Pale Shelter, Mad World e Suffer The Children, questo primo album dei TFF volò al 1° posto della classifica inglese. In “The Hurting” tutte le canzoni sono scritte da Roland mentre la maggior parte di esse è cantata da Curt.

I ruoli si confondono nel successivo “Songs From The Big Chair“: l’album dei TFF più famoso, se non altro perché contiene Shout e la già citata Everybody Wants To Rule The World. Anche questo disco vola al 1° posto della classifica di casa (e in USA al 2°) ma Roland e Curt sono ragazzi semplici, l’esatto contrario della tipica pop-star anni Ottanta… davvero non c’entrano nulla con quei cliché. Del resto scelsero la musica come riparo dalle loro situazioni famigliari difficili e, soprattutto nel caso di Orzabal, per sfuggire ai propri demoni personali. La stessa espressione ‘tears for fears’, lacrime dovute alle paure, è un’espressione coniata dallo psicologo Arthur Janov, inventore della terapia del ‘primal scream’, che ebbe una notevole influenza su testi e tematiche dei nostri.

E così, in qualche modo, il gioco inizia a stancare e Curt sembra ritirarsi in se stesso. L’attività del gruppo procede quindi con Roland Orzabal che si fa carico della maggior parte del lavoro (avvalendosi di collaboratori straordinari, come Phil Collins, Pino Palladino, Neil Taylor, Manu Katché, la bravissima Nicky Holland, ecc): il disco che ne risulta vede la luce nel 1989, “The Seeds Of Love“, che secondo me rappresenta il capolavoro dei TFF nonché uno dei dischi pop-rock più belli di sempre. Supportato da quattro singoli uno-più-bello-dell’altro (Sowing The Seeds Of Love, Advice For The Young At Heart, Famous Last Words e la stupenda Woman In Chains, un duetto con la scoperta tearsforfearsiana Oleta Adams), anche questo terzo album dei TFF, manco a dirlo, raggiunge il 1° posto della classifica inglese.

Dopo tre dischi numero uno (e soldi a palate, presumo), nel 1990 Curt Smith emigra in America e decide quindi di abbandonare i Tears For Fears, lasciando Roland praticamente da solo. Nel ’92 esce così la prima raccolta dei TFF, “Tears Roll Down (Greatest Hits 1982-1992)” nella quale Roland ripropone con una nuova formula anche un B-side del 1989, Laid So Low. Il brano, pubblicato come singolo, è una delle canzoni più memorabili degli anni Novanta e la raccolta è davvero eccellente, permettendo magnificamente ad Orzabal di chiudere un cerchio.

Giunge il ’93 ed esce “Soul On Board”, il primo album solista di Curt Smith: un gran bel disco, non c’è che dire. Nello stesso anno c’è però la risposta di Roland Orzabal che pubblica a nome Tears For Fears lo stupendo album “Elemental”, supportato dal noto singolo Break It Down Again (nell’album c’è anche un’amara frecciata verso Curt, Fish Out Of Water). Nel ’95 vede la luce il quinto album dei Tears For Fears, lo splendido “Raoul And The Kings Of Spain”, sempre realizzato dal solo Orzabal. Nel 1996, intanto, Curt Smith unisce le forze al polistrumentista Charlton Pettus e fonda un nuovo gruppo, i Mayfield: il primo album omonimo dei Mayfield esce nel ’98 e… mi manca, non riesco a trovarlo… dovrei provare con eBay. Tra il 1999 e il 2000, tuttavia, Curt pubblica un mini album a suo nome, ovvero “Aeroplane” (anche per questo… vale quanto scritto per “Mayfield”). In questo periodo, comunque, Roland e Curt si riavvicinano, hanno modo di chiarirsi e in seguito anche di scrivere nuove canzoni.

Nel 2001 esce “Tomcats Screaming Outside“, il primo album a nome Roland Orzabal: è stato inciso nel 2000 ma la casa discografica voleva pubblicarlo a tutti i costi a nome Tears For Fears. Roland ha tenuto duro, l’ha fatto uscire per una piccola etichetta, la Eagle, e si è tolto la soddisfazione personale d’aver realizzato uno dei dischi più belli di questo decennio. Nel 2002, finalmente, prende avvio la lavorazione del nuovo, vero album dei Tears For Fears, ad opera del ritrovato duo Orzabal-Smith. Il nuovo disco, “Everybody Loves A Happy Ending“, vede la luce nel 2004 (Curt, cavallerescamente, mette da parte il suo bel album solista “Halfway, Pleased“, pubblicato tre anni dopo) e contiene uno dei pezzi più belli del duo, Closest Thing To Heaven, edito anche su singolo.

Sebbene da allora la band sia stata molto attiva, soprattutto dal vivo, e soprattutto in America, non ha più pubblicato nessun disco di inediti. Qualche canzone nuova è sì apparsa di tanto in tanto in occasione dei Record Store Day e con la pubblicazione delle raccolte (vedi QUI, per esempio) ma per vedere il seguito di “Everybody Loves A Happy Ending” si dovrà attendere probabilmente il 2018 [

DISCOGRAFIA

The Hurting (1983)

Songs From The Big Chair (1985)

The Seeds Of Love (1989)

Elemental (1993)

Raoul And The Kings Of Spain (1995)

Everybody Loves A Happy Ending (2004)

 

…vedi anche…

Rule The World: The Greatest Hits (2017)

Halfway, Pleased (2007, Curt Smith solo)

Tomcats Screaming Outside (2000, Roland Orzabal solo)