Bryan Ferry, “Mamouna”, 1994

bryan ferry, mamouna, immagine pubblica blogNono album da solista per Bryan Ferry, “Mamouna” è il primo disco d’inediti che la voce dei Roxy Music ha fatto pubblicare negli anni Novanta, un anno dopo “Taxi”, che invece era una parata di sole cover. Disco sensualmente languido, spettacolarmente crepuscolare eppure irresistibilmente funky, “Mamouna” – pubblicato dalla Virgin nel settembre 1994 – non ha perso nulla della sua classe in tutti questi anni. Un piccolo classico, insomma, che personalmente ascolto ancora con grande piacere, soprattutto quando sono alla guida dell’auto.

Dieci canzoni, dall’iniziale Don’t Want To Know alla conclusiva Chain Reaction, passando per la malinconica Your Painted Smile (primo singolo estratto dall’album) e la pulsante Wildcat Days, brano che segnava il ritorno della collaborazione tra Bryan Ferry e Brian Eno. In realtà quest’ultimo non è l’unico altro componente dei Roxy Music a partecipare a “Mamouna”, giacché vi figurano infatti anche Phil ManzaneraAndy Mackay, rispettivamente chitarra e sassofono originali dei Roxy Music. A conti fatti, una sorta di reunion per la band inglese, considerando inoltre anche la presenza dello storico produttore Rhett Davies. Non mancano comunque altri ospiti illustri, com’è tipico degli album di Bryan Ferry; in questo caso possiamo annoverare i bassisti Nathan East e Pino Palladino, il chitarrista Nile Rodgers (sì, proprio lui, quello degli Chic), il batterista Steve Ferrone e altri ancora.

Il primo lavoro originale di Bryan Ferry uscito negli anni Novanta, s’è detto, eppure a quanto pare la genesi di “Mamouna” risale al 1989-90. L’album era praticamente pronto nel 1990, le canzoni erano quelle (cambiavano giusto un paio di titoli), la reunion dei Roxy Music in studio si era verificata ma poi – chissà perché – il nostro bloccò tutto. Lo fece uscire quattro anni dopo, non prima d’aver dato alle stampe “Taxi”, un album di cover come abbiamo detto. Misteri dell’industria discografica, chissà. Mi piacerebbe saperne di più. “Mamouna”, ad ogni modo, resta un disco che fa magnificamente bene il suo lavoro: intrattenerci musicalmente. E magari, perché no, farci immaginare un mondo migliore. – Matteo Aceto

Pubblicità

Pink Floyd, “A Momentary Lapse Of Reason”, 1987

pink-floyd-a-momentary-lapse-of-reason-immagine-pubblica-blogDedicandogli un post una decina d’anni fa, avevo espresso rivalutazione per un disco che fino a poco tempo prima consideravo trascurabile. Si tratta di “A Momentary Lapse Of Reason”, l’album che nel 1987 resuscitò i Pink Floyd dopo il sofferto abbandono di Roger Waters avvenuto due anni prima.

Contestualizzato nella gloriosa storia della band inglese, “Momentary Lapse” è certamente un lavoro minore, tuttavia, preso per quel che è – un album di professionale pop-rock di fine anni Ottanta – risulta essere un ascolto molto godibile. C’è da dire che il nome Pink Floyd è in questo caso un semplice marchio: ridotta ufficialmente a duo – David Gilmour e Nick Mason – ma praticamente un trio col ritrovato Richard Wright (cacciato da Waters durante la lavorazione di “The Wall“), la formazione è qui composta da Gilmour con una bella schiera di preziosi collaboratori, con Mason e Wright che hanno suonato qua e là dove più serviva il loro tocco (e serviva poco, a quanto pare).

Da tali fatti si dovrebbe considerare “A Momentary Lapse Of Reason” un disco solista di David Gilmour, e non un’opera dei Pink Floyd. Detto fra noi, dopo anni di discussioni con fan e ammiratori floydiani, tutto ciò è un discorso che non voglio affrontare più: Pink Floyd o David Gilmour, quel che ormai m’interessa è soltanto la musica, ed è di quella che parleremo vedendo questo “Momentary Lapse” più da vicino.

L’inizio dell’album, affidato allo strumentale Signs Of Life, è davvero sorprendente: siamo su una barca al largo d’un fiume, sentiamo gli scricchiolii del legno e i remi che si tuffano in acqua e poi si sollevano. Ricordo che all’epoca, quando sentii per la prima volta questo suono, in macchina di mio zio con lo stereo a tutto volume, anche se ero un bambino ne rimasi incantato. Il brano prosegue quindi con uno scambio di fraseggi tra chitarra elettrica (così tipicamente gilmouriana) e sintetizzatore, in un’atmosfera sonora che ricorda vagamente la prima parte di Shine On You Crazy Diamond.

La successiva Learning To Fly, primo singolo estratto, è un gradevole e robusto pop-rock, scandito dalla calda voce di Dave, dai cori femminili e dai placidi assoli di chitarra, con un bell’interludio in cui par di viaggiare fra le nuvole. Un’ottima canzone da ascoltare mentre si è alla guida, forse ancora meglio se si è in volo. Le voci che si sentono a metà del pezzo sono infatti gli istruttori che conversano con Mason e Gilmour, all’epoca alle prese con vere lezioni di pilotaggio aereo.

Mentre Learning To Fly sfuma, ecco il minaccioso ringhiare (elettronico) d’un cane, che ci porta all’ancor più minacciosa introduzione del terzo brano, The Dogs Of War; se il testo è un pallido tentativo di Gilmour d’eguagliare quei temi anti-guerra che Waters aveva espresso tanto bene in “The Wall” e “The Final Cut“, la musica è comunque interessante: un possente rock-blues con tanto di voce cattiva & graffiante, cori femminili in bella mostra, assoli di sax e batteria pestante.

La successiva One Slip è una delle canzoni che più m’esaltano fra quelle contenute in questo disco, specie quando sono al volante su una strada ampia dalla vista spaziosa. Scritta da Gilmour con Phil Manzanera (chitarrista dei Roxy Music, che ha collaborato a più riprese con Dave nel corso degli ultimi trent’anni, fino al recente “Rattle That Lock“), One Slip presenta un ritmo medio-veloce scandito da una bella batteria e dalle inconfondibili linee di basso di Tony Levin, frequente collaboratore di Peter Gabriel (ascoltare le gabrieliane Red Rain o I Don’t Remember per opportuni confronti). Molto bella tutta la parte vocale di Gilmour, alle prese con un testo che sembra una confessione personale.

Di bene in meglio con On The Turning Away, probabilmente la vetta artistico-espressiva di “A Momentary Lapse” e senza dubbio il pezzo più tipicamente floydiano offertoci qui. Siamo infatti alle prese con una calda ballatona rock (anche se l’atmosfera complessiva mi pare decisamente invernale, soprattutto nella prima parte) sullo stile di Comfortably Numb. Qui il buon Dave si prodiga nei suoi celeberrimi assoli e, se suonata ad alto volume, On The Turning Away è sempre portatrice di grandi emozioni.

A parte la sua rimbombante introduzione, un po’ prolissa, Yet Another Movie è un’altra delle mie favorite presenti qui. Un’atmosfera decisamente più dark delle precedenti, vagamente inquietante, anche nel testo: trovo molto suggestiva la frase ‘the vision of an empty bed’, dopo la quale Dave urla ed entra un placido ma sofferto assolo nelle nostre orecchie. A metà della sua durata, il pezzo si fa più imponente, la batteria assume un ritmo più veloce e l’assolo di Gilmour diventa inconfondibilmente straziante. Poi il tutto torna alla fase dark iniziale, come se avessimo assistito alla reazione d’un uomo violento negli intenti ma impotente nell’agire. Una gran bella atmosfera, fra le cose migliori mai create da David Gilmour, secondo me. La conclusione dell’intensa Yet Another Movie è affidata a un breve strumentale per chitarra e sintetizzatore, Round And Round, per un’appendice forse inutile.

A New Machine è il pezzo in scaletta che meno amo: poco più d’un minuto dove ascoltiamo l’aggressiva voce di Gilmour distorta elettronicamente. Il tutto, più che altro, serve da introduzione al brano successivo, Terminal Frost, seguito a sua volta da una ripresa della stessa A New Machine; infatti il brano in questione è diviso in Part 1 e Part 2 ed è appunto intervallato da Terminal Frost, il secondo e ultimo strumentale in programma. Suona quasi come una composizione di Vangelis in chiave rock, con tanto di assoli di chitarra e di sax; l’atmosfera complessiva è buona, forse gli avrebbe giovato una durata inferiore.

Sorrow, brano conclusivo dell’album, è invece un massiccio e ombroso pezzo rock, con un memorabile assolo di chitarra introduttivo, dal tono decisamente cupo. Cantato da Dave con efficace impassibilità, Sorrow è diventato un classico negli ultimi due tour mondiali dei Pink Floyd, così come Learning To Fly, tuttavia la sua atmosfera epicamente sconsolata lo integra meglio nel repertorio storico del gruppo, mentre Learning To Fly suona come una mera divagazione pop.

Prodotto dallo stesso David Gilmour con Bob Ezrin, storico co-produttore di “The Wall”, come già detto “A Momentary Lapse Of Reason” si avvale di preziosi collaboratori, fra i quali troviamo il già citato Tony Levin (suona il basso nella maggior parte delle canzoni), i batteristi Jim Keltner e Carmine Appice, John Halliwell dei Supertramp al sax, il chitarrista Michael Landau, il tastierista Patrick Leonard (noto ai fan di Madonna per aver prodotto alcuni dei suoi album migliori) e lo stesso Bob Ezrin, sempre alle tastiere.

Di recente, quasi trent’anni dopo la sua prima edizione, “A Momentary Lapse Of Reason”, è stato ristampato in vinile dopo opportuna remasterizzazione. Non ho avuto modo di ascoltarlo, per cui non saprei dire quanto suoni meglio rispetto alla mia edizione in ciddì degli anni Ottanta. Sono però convinto che sia di una resa sonora superiore. Anche in questo caso, sono tentato dall’acquisto. Strano, nevvero? – Matteo Aceto

David Gilmour, “Rattle That Lock”, 2015

David Gilmour Rattle That LockRestando ancora nell’orbita Pink Floyd, oggi vorrei occuparmi d’un disco recente del quale volevo parlare già da qualche mese. Si tratta di “Rattle That Lock” di David Gilmour, pubblicato dalla Columbia nello scorso settembre. E’ un album del quale il nostro sta ancora curando la promozione con l’inevitabile tournée internazionale, visto che ha già annunciato nuove date italiane (tra cui un paio nella storica location degli scavi di Pompei) per quest’estate.

Devo però ammettere di non essere stato particolarmente impressionato da questo “Rattle That Lock”, già a partire da questo titolo abbastanza impronunciabile per chiunque non sia di madrelingua inglese. Il primo singolo estratto, inoltre, chiamato proprio Rattle That Lock, non mi sembra nemmeno un pezzo riconducibile a David Gilmour: la prima volta che l’ascoltai, in radio, senza nemmeno sapere chi ne fosse l’interprete, pensai che stessi sentendo qualche canzone anni Ottanta a me sconosciuta, qualcosa che avesse a che fare col sound dei Roxy Music. E in effetti è proprio uno dei Roxy Music, il chitarrista Phil Manzanera, il collaboratore principale di Gilmour in questa sua ultima fatica discografica, per cui le mie prime impressioni non erano del tutto infondate. Inoltre nel pulsante brano Rattle That Lock, un pop-rock piacevolmente stradaiolo, più che in ogni altro pezzo dell’album, la voce del nostro appare decisamente più spenta (un po’ “sfiatata”, se vogliamo); ecco perché a un primo ascolto non riuscii a ricondurre a David Gilmour la canzone che stavo ascoltando.

Il resto del disco, tuttavia, presenta a mio avviso episodi ben più significativi di Rattle That Lock, come le tre ballate A Boat Lies Waiting (memore di alcuni dei momenti più quieti di “The Division Bell”), Faces Of Stone (più dolente) e In Any Tongue (forse il pezzo più floydiano di tutti e forse, non a caso, il pezzo migliore del disco). Ma è tutto ciò che “Rattle That Lock” ha di buono da offrire, secondo la mia modestissima opinione, con il resto dell’album che ci offre canzoni in cui il nostro prova a mischiare goffamente il suo caratteristico sound con sonorità più jazzate (Dancing In Front Of Me e soprattutto The Girl In The Yellow Dress), oltre a strumentali che non suonano propriamente compiuti (il roxymusichesco Beauty e l’iniziale e placido 5 A.M., il cui tema viene poi ripreso nel conclusivo And Then…). Non si distingue particolarmente neanche Today, un robusto pop-rock venato di reggae edito come secondo singolo estratto dall’album, anch’esso con qualche eco di troppo proveniente dalla musica da classifica degli anni Ottanta.

Devo tuttavia ammettere che forse questo “Rattle That Lock” è uno di quei rari dischi che migliorano ascolto dopo ascolto, magari anche anno dopo anno, per cui devo dirvi che riascoltato oggi – in occasione di tale recensione – mi è sembrato migliore di quanto l’avessi trovato all’indomani del mio acquisto nel giorno della sua uscita. Fra vent’anni, del resto, un disco come “Rattle That Lock” potrebbe benissimo essere considerato un classico e noi avremo modo di riparlarne sotto tutt’altra luce.

Menzione finale, prima di terminare il post, per i musicisti che hanno suonato nell’album: sono per lo più “vecchie” conoscenze nell’opera gilmouriana, come il già citato Phil Manzanera (produzione, chitarra e tastiere varie), Guy Pratt (basso), Andy Newmark (batteria), Jon Carin e Jools Holland (pianoforti), Polly Samson (testi e voce), Robert Wyatt (corno), David Crosby & Graham Nash (voci… sì, proprio quelli di C. S. N. & Y.) e Zbigniew Preisner (orchestrazioni). – Matteo Aceto

Ristampe, ristampe, ristampe!!!

Michael Jackson Off The Wall immagine pubblicaDa una decina d’anni a questa parte, s’è definitivamente consolidata fra le case discografiche – major o meno che siano – l’abitudine di ristampare il vecchio catalogo in riedizioni più o meno meritevoli di tornare a far capolino nelle vetrine dei negozi accanto alle ultime novità.

Spesso si festeggiano i ventennali, i venticinquennali, i trentennali o addirittura il mezzo secolo di dischi famosi, riproposti in appariscenti confezioni, con tanto di note biografiche e foto d’epoca, meglio ancora se con inediti e/o rarità (che poi, almeno per me, sono le uniche motivazioni nel comprarmi una riedizione d’un disco che magari già posseggo), a volte addirittura in formato cofanetto.

E’ notizia di oggi che entro l’anno verrà ristampato “Off The Wall”, uno dei classici di Michael Jackson, edito appunto trentanni fa. In base a un accordo fra la Sony, la EMI (che non ho capito che c’entra…), gli esecutori testamentari & gli eredi del grande cantante, da qui a dieci anni dovremmo avere altre ristampe (di sicuro “Bad”, probabilmente pure “Dangerous” e tutti gli altri) e altri dischi con brani inediti. Inediti che dovrebbero comunque figurare anche nella ristampa di “Off The Wall”, fra l’altro ripubblicato già nel 2001, così come gli stessi “Bad” e “Dangerous”.

C’è da dire che le ristampe, a volte, sembrano solo una scusa per propinarci un disco del passato alla cifra non proprio popolare dei diciotto/diciannove euro: penso alla riedizione di “Dark Side Of The Moon”, il classico dei Pink Floyd, uscita nel 2003 in occasione del trentennale dell’album. Si trattava d’un ciddì in SuperAudio, col suono distribuito in cinque canali per impianti surround… vabbene, moltobbello, ma le canzoni erano quelle, non c’era uno straccio di brano aggiuntivo, e il tutto si pagava a prezzo pieno.

Si tratta comunque d’una sgradita eccezione perché il più delle volte le ristampe sono ben meritevoli d’essere acquistate. Nel 2007, ad esempio, sono stati riproposti i tre album da studio dei Sisters Of Mercy con belle confezioni cartonate, note tecniche/critiche, foto & preziosi brani aggiuntivi. L’anno dopo, la stessa operazione è stata replicata (tranne per le confezioni, non di carta ma di plastica) per i dischi dei Mission, band nata da una costola degli stessi Sisters Of Mercy. Anche i dischi di David Sylvian usciti per la Virgin – compresi quelli a nome Japan e Rain Tree Crow – sono stati riproposti in lussuose confezioni cartonate, corredate di canzoni aggiunte; ne ho comprate diverse di queste ristampe sylvianiane, come “Tin Drum” dei Japan, pubblicato in uno stupendo cofanetto con disco aggiuntivo & libretto fotografico, un lavoro davvero ben fatto e pagato la modica cifra di sedici euro. Un altro lavoro lodevole che merita l’acquisto a scatola chiusa da parte dell’appassionato è la ristampa del 2004 di “London Calling” dei Clash, comprensiva di ciddì audio con interessante materiale aggiuntivo e divuddì con documentario & videoclip.

Recentemente, l’etichetta Legacy (di proprietà della Columbia, a sua volta controllata dalla Sony), ha riproposto il primo album di Whitney Houston, ovvero quel disco che portava il suo nome, pubblicato nel 1985 con grande successo in tutto il mondo. “Whitney Houston” è stato così ristampato per il suo venticinquennale con brani aggiuntivi e un divuddì contentene videoclip, apparizioni televisive e nuove interviste. Ancora la Legacy, ad aprile, immetterà sul mercato due interessanti ristampe: una per “This Is Big Audio Dynamite”, l’esordio di Mick Jones come leader dei B.A.D. (originariamente pubblicato anch’esso nell’85), e un’altra per il classico degli Stooges, “Raw Power”, che oltre a proporre esibizioni dell’epoca, inediti & rarità figurerà anche l’originale mix di David Bowie del 1973.

Negli ultimi anni s’è ristampato davvero di tutto, spaziando un po’ fra tutti i generi musicali: “What’s Going On” di Marvin Gaye, “Tommy” degli Who, “Pet Sounds” dei Beach Boys (anche in cofanetto da tre ciddì), “Songs From The Big Chair” per i Tears For Fears, “All Mod Cons” per i Jam, “Our Favourite Shop” per gli Style Council, “Stanley Road” e “Wild Wood” di Paul Weller, “Steve McQueen” dei Prefab Sprout, “Night and Day” di Joe Jackson, i primi quattro album dei Bee Gees, “Guilty” della Streisand, “Songs In The Key Of Life” di Stevie Wonder, “Damned Damned Damned” dei Damned, “Ten” dei Pearl Jam (in un voluminoso cofanetto), l’intero catalogo per Bob Marley, i Doors, Siouxsie And The Banshees, Depeche Mode, Megadeth e Joy Division. E ancora: “Transformer” di Lou Reed, “All The Young Dudes” per Mott The Hoople, “A Night At The Opera” dei Queen, i quattro album da studio dei Magazine, gran parte dei dischi di Bowie, dei Genesis dei Cure e dei New Order, “The Final Cut” dei Pink Floyd, “A Love Supreme” di Coltrane e gran parte dei dischi di Miles Davis (spesso anche in lussuosi cofanetti da tre, quattro o più ciddì). Eppure si sono viste anche ristampe ben più povere, vale a dire senza brani extra e in confezioni standard, per Peter Gabriel, Roxy Music, Simple Minds, David Gilmour, Sting e The Police.

Riproposizione in grande stile, invece, per il catalogo dei Beatles: lo scorso 9 settembre, il fatidico 9/9/09, tutti gli album del gruppo originariamente pubblicati dalla EMI fra il 1963 e il 1970 sono stati ristampati (e remasterizzati) sia singolarmente che tutti insieme in costosi cofanetti (in formato stereo e mono), tuttavia nessun disco contemplava i succosi inediti ancora custoditi in archivio.

Per quanto riguarda i solisti, già nel 1993 la EMI ristampò tutto il catalogo di McCartney nella serie “The Paul McCartney Collection”, mentre fra il 2000 e il 2005 è toccato agli album di John Lennon. Spesso ognuno di questi album include i brani pubblicati all’epoca sui lati B dei singoli e alcune ghiotte rarità. Anche il catalogo di George Harrison è stato rilanciato di recente; qui ricordo in particolare la bella ristampa di “All Things Must Pass”, uscita nel 2001 e curata dallo stesso Harrison. Per quanto riguarda Ringo Starr, l’americana Rykodisc ha ristampato già nei primi anni Novanta i suoi album del periodo 1970-74 con diversi brani aggiuntivi, tuttavia l’operazione s’è conclusa lì e le copie a noi disponibili erano solo quelle d’importazione. Insomma, il catalogo solista di Starr meriterebbe anch’esso una riscoperta, almeno per quanto riguarda i suoi album più antichi.

In definitiva, povere o ricche che siano, tutte queste riedizioni stanno ad indicare che la musica incisa a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino ai primi Novanta è ormai giunta alla sua storicizzazione, forse perché si è ormai capito che, musicalmente parlando, quello è stato un periodo straordinario & irripetibile che evidentemente ha ancora molto da dire… e da far sentire!

– Matteo Aceto

(ultimo aggiornamento: 18 marzo 2010)

La musica del 2009 tra realtà e sogni

depeche modeEccoci così al 2009! Prima di cominciare, però, lasciatemi augurarvi buon anno, di cuore. Non possiamo dire come sarà l’ultimo anno di questo decennio, ovvio, ma possiamo già tracciare i contorni della musica che ascolteremo nei prossimi mesi. Ecco quindi una breve rassegna della musica che verrà…

Album
Per me il più atteso è il nuovo dei Depeche Mode, previsto in primavera e al momento ancora senza titolo: la band inglese (nella foto) ha anche girato il video di Wrong, il singolo apripista… sono molto curioso, non vedo l’ora di vederlo! Pare che questo nuovo capitolo depechiano dovrebbe recuperare delle sonorità retrò. Intanto usciranno anche i nuovi album di Bruce Springsteen (a giorni), Peter Murphy (il cantante dei Bauhaus), Prince, David Sylvian, Morrissey, Neil Young, Megadeth, P.J. Harvey, Green Day, Devo, Roxy Music, U2, No Doubt e Robin Gibb. Forse anche il nuovo di Michael Jackson e forse – udite udite – anche il secondo album dei redivivi Sex Pistols, che darebbero quindi un seguito al celeberrimo “Never Mind The Bollocks” del 1977.

Concerti
Per quanto riguarda gli appuntamenti live previsti nel nostro paese, per ora segnalo solo i Depeche Mode, gli Eagles, i Metallica, gli Ac/Dc, i Judas Priest, i Megadeth, i Lynyrd Skynyrd e gli odiosi Oasis. Mi piacerebbe tantissimo vedere il concerto degli Eagles… ma suoneranno a Milano… per me sarà difficile starci. Spero anche che i Verve recuperino l’unica tappa del loro tour del 2008 – quello che segnava la reunion dopo quasi dieci anni dallo scioglimento – che avevano programmato in Italia: dovevano suonare a Livorno ma la loro esibizione saltò perché Richard Ashcroft aveva la laringite.

Reunion
Dopo le innumerevoli reunion degli ultimi anni, nel 2009 si attendono i ritorni – sul palco e/o in studio – di Blur (nella originale formazione a quattro), Magazine, Ultravox (nella formazione condotta da Midge Ure), The Specials, The Faces (sì, proprio il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood, scioltosi nei primi anni Settanta!) e forse anche Faith No More, Smiths (ma qui ci credo poco… sarebbe un miracolo!), Stone Roses e Spandau Ballet. Voci incontrollate parlano anche dei Jackson 5

Ristampe
“Odessa” dei Bee Gees uscirà fra pochi giorni, il 12, in un bel cofanetto con tanto di rarità & inediti (… e io ho già la bava alla bocca!) in occasione del quarantennale della sua edizione. A marzo sarà invece la volta di “Ten”, il classico dei Pearl Jam. Dovrebbero uscire anche gli ultimi capitoli della bella serie di remaster dei Cure, in particolare dell’album “Disintegration” che nel 2009 compie ventanni. In autunno, secondo alcune indiscrezioni, dovrebbero uscire anche i ciddì rimasterizzati di tutti gli album dei Beatles… chissà, io lo spero vivamente, a patto, cazzo, che vi siano inclusi degli inediti!

Film
In questo 2009 dovremmo vedere il benedetto film sulla vita di Bob Marley, in cantiere almeno dal 2003. Pare che quest’anno sia la volta buona, chissà, certo è che al momento non se ne conoscono molti particolari. Don Cheadle dovrebbe dar vita al suo film sull’immenso Miles Davis, in attesa almeno dal 2007. Si attendono anche film biografici su Freddie Mercury e Kurt Cobain, annunciati anch’essi alcuni anni fa. Correrei subito al cinema per vedermi quello su Mercury, si era parlato di Johnny Depp per la sua interpretazione, chissà.

Questo quello che è stato confermato, in maniera più o meno ufficiale da parte dei diretti interessati o da chi per loro. Ora passo brevemente alle mie aspettative per quest’anno:

  • spero in un ritorno sulle scene del grande David Bowie, magari anche solo per dei concerti, ovviamente con transito obbligatorio in Italia;
  • una cazzutissima ristampa di “The Wall” dei Pink Floyd in occasione del trentennale di quello che resta il mio album rock preferito;
  • un nuovo album da studio di Sting che, a parte la divagazione medievale di “Songs From The Labyrinth”, non mi pubblica un album con canzoni sue dal 2003;
  • un nuovo album e/o tour per i Tears For Fears con tassativo passaggio live in Italia;
  • la pubblicazione d’un cofanetto di Miles Davis con le sue collaborazioni con Prince (si parla comunque d’un nuovo cofanetto davisiano della sua discussa produzione anni Ottanta);
  • almeno un concerto in terra italiana per Paul McCartney;
  • un nuovo album per Roger Waters, che non pubblica un disco d’inediti dai tempi di “Amused To Death”.

Questo è quel che le mie antenne sono riuscite a captare nell’aria; se non altro si prefigura un 2009 abbastanza interessante sotto il profilo musicale. Per tutto il resto, come sempre, staremo a vedere! – Matteo Aceto

Japan, “Gentlemen Take Polaroids”, 1980

japan-gentlemen-take-polaroids-immagine-pubblicaEcco uno di quegli album dei quali volevo parlare fin da quando ho iniziato a scrivere sul blog… però poi, si sa, passa oggi & passa domani… ma comunque eccolo qui senza più indugi, “Gentlemen Take Polaroids”, il disco capolavoro pubblicato dai Japan nell’ormai lontano 1980.

“Gentleman Take Polaroids” segna al contempo un punto d’arrivo e un punto di partenza nella vicenda artistica & umana dei nostri: è il primo album distribuito dalla Virgin (mentre i primi tre – “Adolescent Sex”, “Obscure Alternatives” e “Quiet Life” – erano usciti per la Hansa) ma è anche l’ultimo che vede la formazione dei Japan in quintetto.

Vale a dire il leader David Sylvian, il fratello batterista Steve Jansen, quel mago di bassista di Mick Karn, il tastierista d’origini italiche Richard Barbieri e il chitarrista Rob Dean, che lascerà quindi i Japan di lì a poco.

Proseguendo sulla strada stilistica già magnificamente tracciata dal precedente “Quiet Life”, in quest’album Sylvian e compagni giungono alla completa maturazione artistica, proponendoci otto lunghi brani perfettamente bilanciati fra sonorità funky, techno-pop, sperimentali, ambient e di raffinato pop d’autore, grazie a perle quali Swing, Methods Of Dance (forse la canzone dei Japan che più mi regala emozioni), Gentlemen Take Polaroids, Taking Islands In Africa (prima delle tante & notevoli collaborazioni fra David Sylvian e Ryuichi Sakamoto), Burning Bridges e Nightporter. Più trascurabili ma assolutamente indispensabili nell’economia dell’album sono la pulsante My New Career e l’esotica cover di Ain’t That Peculiar di Marvin Gaye.

Evidenti influenze in “Gentlemen Take Polaroids” sono le musiche prodotte da David Bowie durante il suo periodo berlinese e il morbido & sensuale soul-pop dei Roxy Music: tuttavia le composizioni scritte da David Sylvian, e affidate a quell’ottima band che all’epoca erano i Japan, brillano di luce propria grazie ad uno stile che già a quel punto della loro carriera era diventato un marchio di fabbrica. Inconfondibile, del resto, la bellissima voce di David, alla quale fa da grandioso contrappunto l’eccezionale lavoro al basso di Mick.

Nel 2003 la Virgin ha ristampato gli album dei Japan e di David Sylvian compresi fra il periodo 1980-1991 in eleganti confezioni cartonate ed impreziosite da alcuni brani aggiunti. Per quanto riguarda “Gentlemen Take Polaroids”, oltre a una diversa posa dell’immagine glam di David in copertina, figurano in aggiunta due suggestivi brani ambient del periodo, gli strumentali The Experience Of Swimming e The Width Of A Room, oltre che un ottimo remix della sakamotiana Taking Islands In Africa.

Un’ultima curiosità: sul retro copertina delle primissime stampe dell’album, nel 1980, al posto di Burning Bridges figurava la struggente ballata Some Kind Of Fool, poi scartata all’ultimo momento per mix insoddisfacente (ed infatti era presente la non accreditata Burning Bridges). Il brano originale resta tuttora inedito, anche se David Sylvian lo ha proposto nella sua eccellente raccolta “Everything And Nothing” (2000) dopo averne ricantato tutta la parte vocale. – Matteo Aceto

Eagles

eagles-glenn-frey-don-henley-joe-walsh-timothy-b-schmidtCon molto piacere ho sentito che “Long Road Out Of Eden”, il primo album da studio dei grandissimi Eagles dopo “The Long Run” del 1979, è al 1° posto di numerose classifiche internazionali, fra cui quella del paese che più compra musica, ovvero gli USA. Più in là, magari come regalo natalizio, andrò anch’io a comprarmi la mia bella copia di questo doppio ciddì a prezzo speciale… nel frattempo, ecco un post che scrissi mesi fa sul vecchio blog.

La storia di oggi riguarda gli Eagles, uno dei gruppi che più apprezzo e ascolto. Semplicemente, ho sempre trovato gradevolissima quella fusione di country e rock: per me è il solo modo di ascoltare quel genere musicale, il country per l’appunto, così tipicamente americano. Per me gli Eagles hanno il merito di aver reso molto più appetibile questo stile, inventandosi a loro volta uno stile unico al mondo, perfettamente riconoscibile, grazie all’impeccabilità dei loro arrangiamenti, alla loro abilità come musicisti, al loro innato senso melodico e ai loro inconfondibili effetti corali. E allora vediamo un po’ cosa hanno combinato questi Eagles nel corso della loro fortunata carrierra discografica.

La band si forma a Los Angeles nei primi anni Settanta, costituita da Glenn Frey (chitarra), Randy Meisner (basso), Bernie Leadon (chitarra) e Don Henley (batteria). La cosa più interessante da notare è che tutti e quattro i membri della band sono in grado di cantare e che tutti si alterneranno alla voce solista, anche se il principale cantante resterà Don Henley.

Gli Eagles debuttano con l’omonimo album nel 1972: “Eagles” è il disco che contiene il loro primo successo, Take It Easy, scritto da Glenn Frey con Jackson Browne, ma pure la deliziosa Peaceful Easy Feeling. Nel ’73 esce uno dei loro dischi migliori, “Desperado”, album che non solo contiene la stupenda Desperado (secondo me una delle canzoni più belle di sempre) ma anche la westerniana Doolin Dalton e la magnifica Tequila Sunrise. Nel ’74 è la volta di “On The Border”, un album che forse segna un passo indietro ma che comunque contiene una memorabile ballata da 1° posto in classifica, The Best Of My Love. “On The Border” segna anche l’ingresso in formazione d’un quinto membro, il chitarrista Don Felder, in modo da rafforzare l’aspetto rock delle performance dal vivo della band.

Gli Eagles tornano alla grande già nel 1975, col fantastico album “One Of These Nights”, disco che contiene alcune delle migliori canzoni dei nostri – ovvero One Of These Nights, Lyin’ Eyes, Take It To The Limit e After The Thrill Is Gone – e che vola ovviamente al 1° posto della classifica americana riservata agli album. Per celebrare il momento di grazia, la casa discografica pubblica una raccolta del periodo 1972-75, intitolata “Thier Greatest Hits”, raccolta che a tuttoggi è il disco più venduto di sempre negli USA. Tuttavia, sul finire dell’anno, gli Eagles accusano l’abbandono del gruppo da parte di Bernie Leadon anche se la cosa, per fortuna, non inficia sul momento di grazia della band, anzi. Nel 1976 gli Eagles se ne escono infatti con un altro album numero uno, il celebrato & celeberrimo “Hotel California”. Il brano omonimo è semplicemente sensazionale ma tutte le altre tracce del disco sono stupende… qui mi limito a citare Wasted Time, New Kid In Town e Life In The Fast Lane. C’è da segnalare che in “Hotel California” il posto di Leadon è preso dal nuovo acquisto, il grande chitarrista Joe Walsh.
Dopo “Hotel California” e il relativo tour, al termine del quale anche Randy Meisner lascia la band, gli Eagles si prendono per la prima volta un periodo di pausa, interrotta nel novembre 1978 dal singolo natalizio Please Come Home For Christmas. Qui fa la comparsa il nuovo quinto membro della band, il bassista Timothy B. Schmit, in fuga dai Poco.

In quel periodo, comunque, la band è impegnata in studio con un nuovo album: le sessioni si prolungano a causa di manie di perfezionismo e di attriti crescenti fra i membri del gruppo. Il lavoro che ne esce, “The Long Run”, pubblicato nel corso del 1979, è comunque notevole: supportato da tre singoli eccezionali come la scanzonata Heartache Tonight, la dolcissima I Can’t Tell You Why e l’omonima The Long Run, l’album vola anch’esso al 1° posto della classifica. Il primo disco dal vivo ufficiale degli Eagles, “Eagles Live”, viene pubblicato nel 1980 ma nel corso del 1981 la band si scioglie con ogni membro apparentemente ansioso di cimentarsi con la propria carriera solista.

Durante gli anni Ottanta, l’amore del grande pubblico per gli Eagles non diminuirà affatto, tanto che saranno diverse e fortunate le raccolte pubblicate in quel decennio. La band torna trionfalmente per un tour mondiale nel corso del 1993, immortalato nell’album “Hell Freezes Over” – che contiene anche alcune nuove canzoni, le prime da oltre dieci anni – edito nel 1994. La reunion è però provvisoria, dopodiché ognuno torna a curare i suoi affari personali. E’ significativo però che la prima raccolta di Glenn Frey sia intitolata “Solo Collection”, a testimonianza che, nonostante dieci anni di carriera solista, il buon Glenn si senta ancora parte di una band. Un buon auspicio.

Gli anni Duemila segnano infatti una nuova reunion degli Eagles, tanto che il gruppo torna a calcare i palcoscenici internazionali nel corso di due distinte tournée. La band ha anche modo di tornare in studio, dando così vita al singolo Hole In The World, ispirato ai tragici fatti dell’11 settembre 2001. Il brano è contenuto in una stupenda, doppia raccolta antologica pubblicata nel 2003, “The Complete Greatest Hits”, un acquisto che consiglio vivamente a tutti gli amanti del rock. Per la cronaca, l’ultima reunion degli Eagles non ha visto la partecipazione di Don Felder, per cui, come all’inizio, la band è tornata ad essere un quartetto.

Per il 2007 si vocifera che ci sarà sia un nuovo tour da parte degli Eagles e sia un nuovo album da studio, il primo dal 1979. Considerando che quest’anno segnerà il ritorno dei Genesis, degli Stooges, dei Roxy Music e dei Police, un ritorno in grande stile degli intramontabili Eagles ci sta benissimo. – Matteo Aceto

Roxy Music, “Avalon”, 1982

roxy-music-avalon-immagine-pubblicaLa storia di oggi riguarda uno dei dischi più belli pubblicati negli anni Ottanta, “Avalon”, l’ultimo album da studio dei Roxy Music. Già la sua epica copertina è uno spettacolo: da tempo la mia copia in elleppì di “Avalon” fa bella mostra di sé sul comò di camera mia, a mo’ di quadro… penso che sia una delle più belle copertine mai realizzate per un disco.

Ora passiamo però alla musica, che è la cosa che qui c’interessa maggiormente. In “Avalon” abbiamo dieci canzoni che vedremo brevemente una ad una. Si parte con una delle canzoni più belle e famose degli anni Ottanta, More Than This, ed è già tutto un programma. Sono convinto che chiunque ascolti i primi secondi di questo indimenticabile brano poi dica ‘ah, questa, bella’. Non aggiungo altro, che dire, più di così… Segue The Space Between, con la base ritmica (basso massiccio, batteria secca e decisa, uso sapiente delle percussioni) in bell’evidenza, e con il sax e il discreto uso del synth che ne fanno uno dei brani più scintillanti e suadenti dei Roxy Music, soprattutto una volta che è entrata la voce di Bryan Ferry.

La successiva Avalon è l’altro brano famoso del disco, inserito in molte compilation dedicate agli anni Ottanta: un placido ritmo percussivo dal sapore caraibico, la voce rilassatissima di Ferry, la chitarra pigra e avvolgente di Phil Manzanera, la voce d’angelo della corista. Arte sopraffina per un pezzo di classe!

India, un breve brano strumentale, sembra più un abbozzo di canzone che un lavoro compiuto: l’irresistibile ritmo percussivo, unito ad un synth marpione, ne fanno comunque una canzone melodicamente valevole (stiamo pur sempre parlando di un gran disco, questo non dimentichiamolo). Poi è la volta della malinconica While My Heart Is Still Beating, arricchita dalle percussioni che contribuiscono ad alleviarne il senso di nostalgia incombente.

Abbassando la puntina del giradischi sulla seconda facciata del vinile, ecco entrare prepotentemente The Main Thing, una delle mie canzoni preferite dei Roxy Music: qui tutto è in bell’evidenza, dalla potente e trascinante base ritmica (un basso pulsante che sembra cantare da solo, delle percussioni fantastiche, una batteria secca e scandìta), i fraseggi di chitarra che danno un tocco d’esotico al tutto, la voce calda di Ferry. Un brano davvero molto sexy, eccellente anche se sì è alla guida (come del resto un po’ tutto “Avalon”).

Il pezzo successivo è Take A Chance With Me, che si apre con un’introduzione lenta e scandìta dai colpi (o meglio, dai tonfi) della grancassa e che poi procede con un ritmo simile all’iniziale More Than This. Un bel brano pop di classe, non c’è che dire. To Turn You On è maestosa: un ritmo medio-lento pieno di effetti percussivi, di basso saltellante, di voce piaciona di Ferry, di synth vaporoso (ma sempre discreto, davvero usato con maestria… lo suona Ferry). Gran bella canzone, bella davvero.

La successiva True To Life è semplicemente magnifica: una delle più belle di questo disco, una delle più belle dei Roxy Music, una delle più struggenti & potenti al contempo che io abbia mai sentito. Magnifica, non avrei altro aggettivo per sintetizzarla. A concludere questo straordinario calderone d’emozioni musicali che è “Avalon” ci pensa il breve strumentale di Tara, perlopiù un assolo del sax di Andy Mackay sorretto dalla tastiera di Bryan Ferry.

Come detto prima, “Avalon” è l’ultimo disco inciso in studio dai Roxy Music, che da qualche album a questa parte erano un trio composto dal superlativo Ferry, dall’ottimo Manzanera e dall’inconfondibile Mackay (nei primi due album del gruppo figurava Brian Eno, uscito dalla formazione per seguire impervie ma affascinanti vie sperimentali). Meritano comunque un plauso gli eccellenti musicisti che indubbiamente hanno contribuito (e non poco, direi) alla grandezza di questo disco: il batterista Andy Newmark, i bassisti Alan Spenner e Neil Jason e il percussionista Jimmy Maelen… a tutti un bell’undiciellode per il lavoro compiuto.