Sex Pistols, “Never Mind The Bollocks”, 1977

Sex Pistols Never Mind The BollocksDopo aver ripubblicato un post su “London Calling” dei Clash non potevo certo non rioccuparmi anche di quanto scrissi – e pubblicai nel lontano 4 dicembre 2006 su Parliamo di Musica – a proposito di “Never Mind The Bollocks”, il solo e unico album dei Sex Pistols.

E’ un disco che più punk non si può, anzi, “Never Mind The Bollocks” è la quintessenza stessa della musica punk. E come potrebbe essere altrimenti? Quale altro album punk – ma pure rock, a ben guardare – contiene dodici brani così incendiari, abrasivi, dissacranti e anticonformisti messi così, l’uno dopo l’altro? E quale altro disco suscitò così tante & tali controversie in un momento in cui i mass media non erano certo così capillarmente invasivi come oggi? Un album pubblicato in ritardo di alcuni mesi perché le etichette discografiche – la EMI prima e la A&M dopo -facevano lo scaricabarile e alcuni rivenditori tentarono il boicottaggio. E ciò nonostante, il debutto dei Sex Pistols a trentatrè giri volò al 1° posto della classifica inglese, sul finire di quel fatidico 1977. Un risultato ancor più straordinario se si pensa che, di lì a poco, un altro fortunatissimo album, la colonna sonora del film “Saturday Night Fever” – con brani disco da manuale firmati Bee Gees – riscosse un successo senza precedenti. Essì, i tempi erano davvero cambiati, pareva proprio che il pubblico inglese ne avesse ormai le palle piene degli hard rocker progressivi capelloni che avevano dominato la scena musicale nella prima metà degli anni Settanta. A tal punto che alcuni osservatori dissero in seguito che gli anni Ottanta erano iniziati proprio nel fenomenale 1977.

“Never Mind The Bollocks” è un disco selvaggio & indomito, introdotto da quella minacciosa marcia militare con cui inizia la travolgente Holidays In The Sun, edita anche su singolo nell’ottobre ’77. Una canzone – il cui testo riflette le impressioni d’un breve soggiorno berlinese del gruppo – che annuncia già tutto il tono dell’album, col drumming squadrato di Paul Cook (mi piace, in particolare, il modo in cui Paul colpisce i piatti), la chitarra ridondante e tagliente di Steve Jones, il basso nervoso di Glen Matlock (il buon Glen, cacciato per far posto al molto meno esperto Sid Vicious, suona alcune parti di basso, diverse delle quali sono però state eseguite da Jones, per cui m’affido al beneficio del dubbio) e la voce inconfondibile di Johnny Rotten, sempre al limite della stonatura, volgare, tanto irriverente quanto divertente.

L’album procede spedito con Bodies, uno dei brani migliori, puro punk al cento per cento, quindi con No Feelings, cattiva & egoistica, con Liar, una frecciata contro Malcolm McLaren, il manager-mentore dei Pistols (già allora in rotta di collisione con Rotten), finché non si giunge alla mitica God Save The Queen. Pubblicata su singolo nel maggio ’77, strategicamente in occasione del giubileo della regina d’Inghilterra, God Save The Queen può essere ritenuta la canzone punk per antonomasia; è quella col celeberrimo ‘no future’, con un testo migliore di qualsiasi trattato sociologico nel descrivere tutto il disagio dei giovani britannici in quella seconda parte dei Settanta.

Seguono la tagliente Problems, superbamente punk, e l’autocompiaciuta Seventeen, prima d’imbattersi in Anarchy In The U.K., primo singolo estratto da “Never Mind The Bollocks” (addirittura un anno prima, nel novembre ’76). Anche in questo caso siamo alle prese con una pietra miliare del rock: mai una band d’esordienti poco più che ventenni aveva opposto un tale oltraggioso criticismo verso la propria nazione, all’epoca un grande impero coloniale ormai in decadenza. E poi, lasciatemelo dire, ‘your future dream is a shopping scheme’ è un verso grandioso che da solo assolve tutto l’album.

Submission è un po’ più atipica rispetto al resto dell’album, con un ritmo meno tirato e un che di vagamente reggae nell’arrangiamento, anche se i Sex Pistols hanno dichiarato che il brano prendeva qualcosa dai Doors e lo rallentava. Pretty Vacant, edito su singolo nel luglio ’77, è un altro dei pezzi forti del disco, con quei rabbiosi ‘and we don’t care!’ ringhiati da Johnny alla faccia della precarietà lavorativa (un tema ancora tristemente attuale).

Le conclusive New York e E.M.I. sono praticamente due sequele d’insulti: la prima è contro la scena punk americana, che s’arrogava il diritto d’aver dato vita al ‘movimento’; la seconda è contro la casa discografica, la EMI per l’appunto, che aveva messo sotto contratto i Pistols nel ’76 ma che infine, spaventata dalle critiche e dal comportamento strafottente del gruppo stesso, aveva preferito pagare una lauta penale pur di liberarsene.

Come detto, “Never Mind The Bollocks” doveva vedere la luce alcuni mesi prima, anche perché, oltre a essere stati mollati dalla EMI, i Pistols vennero scaricati anche dalla A&M, che pure aveva già pubblicato God Save The Queen (quell’edizione, oggi, vale una fortuna!). Invece – com’è noto – fu la giovane (all’epoca) etichetta di Richard Branson, la Virgin, ad editare “Never Mind The Bollocks” nel novembre ’77 e a goderne i benefici di album scalaclassifica.

Nel 2007, in occasione del trentennale dell’album, la Virgin (che nel frattempo è stata comprata dalla EMI, per cui tutto torna) ha ristampato su vinile sia “Never Mind The Bollocks” che i suoi quattro formidabili singoli. Io sono riuscito a farmi scappare il tutto, specie l’album che veniva riproposto fedelmente con tanto di poster e di quarantacinque giri aggiuntivo, contenente uno dei pezzi escluso per errore e aggiunto all’ultimo minuto con tale espediente. Lo ammetto, non volevo spendere soldini preziosi per della musica che avevo e apprezzavo da tempo. “Never Mind The Bollocks” è stato però ristampato diverse altre volte negli ultimi anni, e altre stampe arriveranno in futuro (pensate che nel 2017 non ne festeggeranno il quarantennale?), per cui sono certo che saprò recuperare.

Ancora due parole sulla copertina del disco, ormai una vera icona: nel bel mezzo degli anni di piombo, i Sex Pistols fecero debuttare la loro musica con una grafica che richiamava le lettere anonime dei gruppi terroristici. Provocatori fin da subito! E il curioso titolo dell’album? ‘Never mind the bollocks’ vuol dire ‘freghiamocene delle stronzate’, un’espressione di stizza usata da un esasperato Steve Jones mentre si discuteva su quale titolo dare al disco. – Matteo Aceto

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Public Image Ltd., “First Issue”, 1978

pil-public-image-ltd-first-issue-immagine-pubblica-blogLa recente notizia de il ritorno dei Public Image Ltd., prevista per il prossimo dicembre, ha risvegliato il mio interesse per la musica del gruppo inglese capeggiato da Johnny Rotten. Volevo parlare in particolare del primo album dei PiL, “First Issue”, soltanto che l’avevo già fatto in un altro post e l’avevo dimenticato. Mi limito allora a riproporre quel mio vecchio scritto con le dovute aggiunte del caso.

Nel gennaio del ’78, un Rotten disgustato dagli usi & costumi del rock ‘n’ roll decide di abbandonare la sua famigerata band, i Sex Pistols: tempo pochi mesi e il cantante mette in piedi una delle più formidabili formazioni inglesi, i Public Image Ltd. per l’appunto (peraltro abbastanza sconosciuti in Italia). Il loro primo disco, anticipato dal trascinante singolo Public Image, esce alla fine dell’anno: la copertina in stile magazine gli vale il soprannome di “First Issue” ma l’immagine d’un Rotten quasi imborghesito ne tradisce enormemente il contenuto. Le otto canzoni che compongono il debutto dei PiL sono infatti molto lontane dallo stile dei Pistols, inaugurando un percorso artistico per molti versi sorprendente. Se infatti “Never Mind The Bollocks” aveva suggellato il momento d’oro del punk, questo “First Issue” ne celebra già il funerale, dando quindi vita a quel genere che verrà definito post-punk e successivamente new wave.

Il debutto su album dei PiL – forte d’un sound che colpisce come un pugno allo stomaco anche oggi – è un album drammaticamente cupo, dissonante, intransigente, folle e a suo modo geniale & visionario. A detta di Rotten, tutte le canzoni sono state scritte da lui mentre girava l’America in bus durante l’ultimo tour dei Sex Pistols; tuttavia un album come “First Issue” non sarebbe mai nato senza l’inestimabile supporto che Johnny ha ricevuto dai tre musicisti che contribuirono a fondare i PiL: Jim Walker con la sua batteria secca e ossessiva, Jah Wobble col suo basso pulsante e prominente, ma soprattutto Keith Levene con la sua chitarra tagliente e intrusiva, qui in grande rivalsa dopo la sua breve militanza nei Clash.

“First Issue” comincia con la disturbata & disturbante Theme, nove minuti nei quali dobbiamo fare i conti col muro chitarristico che Levene ci oppone, il lugubre basso di Wobble, i poderosi colpi di Walker e soprattutto la voce straziata di Johnny. Probabilmente, all’epoca non s’era mai sentito nulla di simile: lontane influenze dub, noise a non finire, atmosfera desolante e dark, testo nichilista. Religion I è invece l’asciutta recitazione da parte di Johnny di quello che costituisce il testo del brano seguente, Religion II; e così, dopo un minuto e mezzo di sola voce, ecco cinque minuti buoni di pesante dub-rock, resi ancor più insofferenti da un’infelice distribuzione spaziale nel canale stereo (basso e batteria compressi sul destro, volume che in alcuni punti tende ad abbassarsi, eccetera).

Annalisa presenta invece sonorità più ortodosse, tanto che si può tranquillamente affermare che la canzone – il cui testo parla della vera storia di una ragazzina che è stata fatta morire di fame perché la si credeva posseduta dal demonio – è un duro pezzo punk. La successiva Public Image, unico singolo estratto dall’album, è la canzone più orecchiabile e melodica: davvero una bella prova grazie al basso poderoso, al coinvolgente riff chitarristico e all’inconfondibile canto di Rotten (che sembra riferirsi direttamente alla sua esperienza nei Pistols), il tutto sorretto da un’ottima batteria. Simile nel ritmo e nella struttura melodica, è la seguente Low Life, sebbene abbia un’indole più selvaggia.

L’aspra Attack sembra quasi uno scarto di “Never Mind The Bollocks”, se non fossero per le sue prominenti linee di basso così tipicamente piliane, mentre la conclusiva Fodderstompf è un delirante punk-funk della durata di quasi otto minuti. Qui, su una ripetitiva drum machine, Wobble tesse un movimentato giro di basso, mentre Rotten e lo stesso Wobble urlano in falsetto ‘volevamo solo essere amati’, oltre che una lunga serie d’improvvisazioni gridate e/o parlate su tutto quello che passava loro per la mente.

In definitiva, “First Issue” è un debutto strabiliante & insolito che si ritaglia uno spazio tutto suo nella discografia inglese. Non esistono altri lavori, neppure gli album a venire dei PiL, che suonano come questo. – Matteo Aceto

Public Image Ltd: ritorno e discografia

public-image-ltd-2009Il sospetto che, dopo aver rimesso insieme i Sex Pistols, quel soggettone di John Lydon tornasse ad incarnare anche l’anima dei Public Image Ltd. era nell’aria già da qualche anno. Il fatto di leggere, poche ore fa, che questa reunion è stata ufficialmente annunciata mi ha però riempito di stupore & contentezza. E allora eccola, la grande notizia: i PiL torneranno insieme a dicembre, quando s’esibiranno fra il giorno 15 e il 21 per cinque concerti nella nativa Gran Bretagna. I biglietti saranno già in vendita da venerdì prossimo.

La formazione del gruppo è così composta: John Lydon (o Johnny Rotten che dir si voglia) alla voce, Lu Edmonds alla chitarra e alle tastiere, Bruce Smith alla batteria, e il nuovo acquisto, Scott Firth, al basso. Se per me il buon Firth è un totale sconosciuto, Smith ed Edmonds erano stati componenti dei PiL nella seconda metà degli anni Ottanta. Stupisce che al basso non vi sia più Allan Dias, mentre il chitarrista John McGeoch è purtroppo morto qualche anno fa.

Sono molto contento di questa reunion, la prima dal 1992, anche se – data la ‘scusa’ ufficiale dell’evento, il trentennale d’un album fenomenale come il “Metal Box” – avrei gradito un ritorno sulle scene al fianco di Lydon di Keith Levene e di Jah Wobble, rispettivamente il più geniale chitarrista e il più inventivo bassista coi quali Johhny abbia mai lavorato. Io mi accontento, per carità – e spero tantissimo che nel 2010 i PiL possano intraprendere un tour vero e proprio, magari pure con puntatina tutta italiana – ma per una reunion Lydon-Levene-Wobble avrei prenotato il volo per Londra oggi stesso! – Matteo Aceto

DISCOGRAFIA

First Issue (1978)

Metal Box / Second Edition (1979)

Flowers Of Romance (1981)

This Is What You Want… This Is What You Get (1984)

Album (1986)

Happy? (1987)

9 (1989)

That What Is Not (1992)

This Is PiL (2012)

What The World Needs Now (2015)

La musica del 2009 tra realtà e sogni

depeche modeEccoci così al 2009! Prima di cominciare, però, lasciatemi augurarvi buon anno, di cuore. Non possiamo dire come sarà l’ultimo anno di questo decennio, ovvio, ma possiamo già tracciare i contorni della musica che ascolteremo nei prossimi mesi. Ecco quindi una breve rassegna della musica che verrà…

Album
Per me il più atteso è il nuovo dei Depeche Mode, previsto in primavera e al momento ancora senza titolo: la band inglese (nella foto) ha anche girato il video di Wrong, il singolo apripista… sono molto curioso, non vedo l’ora di vederlo! Pare che questo nuovo capitolo depechiano dovrebbe recuperare delle sonorità retrò. Intanto usciranno anche i nuovi album di Bruce Springsteen (a giorni), Peter Murphy (il cantante dei Bauhaus), Prince, David Sylvian, Morrissey, Neil Young, Megadeth, P.J. Harvey, Green Day, Devo, Roxy Music, U2, No Doubt e Robin Gibb. Forse anche il nuovo di Michael Jackson e forse – udite udite – anche il secondo album dei redivivi Sex Pistols, che darebbero quindi un seguito al celeberrimo “Never Mind The Bollocks” del 1977.

Concerti
Per quanto riguarda gli appuntamenti live previsti nel nostro paese, per ora segnalo solo i Depeche Mode, gli Eagles, i Metallica, gli Ac/Dc, i Judas Priest, i Megadeth, i Lynyrd Skynyrd e gli odiosi Oasis. Mi piacerebbe tantissimo vedere il concerto degli Eagles… ma suoneranno a Milano… per me sarà difficile starci. Spero anche che i Verve recuperino l’unica tappa del loro tour del 2008 – quello che segnava la reunion dopo quasi dieci anni dallo scioglimento – che avevano programmato in Italia: dovevano suonare a Livorno ma la loro esibizione saltò perché Richard Ashcroft aveva la laringite.

Reunion
Dopo le innumerevoli reunion degli ultimi anni, nel 2009 si attendono i ritorni – sul palco e/o in studio – di Blur (nella originale formazione a quattro), Magazine, Ultravox (nella formazione condotta da Midge Ure), The Specials, The Faces (sì, proprio il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood, scioltosi nei primi anni Settanta!) e forse anche Faith No More, Smiths (ma qui ci credo poco… sarebbe un miracolo!), Stone Roses e Spandau Ballet. Voci incontrollate parlano anche dei Jackson 5

Ristampe
“Odessa” dei Bee Gees uscirà fra pochi giorni, il 12, in un bel cofanetto con tanto di rarità & inediti (… e io ho già la bava alla bocca!) in occasione del quarantennale della sua edizione. A marzo sarà invece la volta di “Ten”, il classico dei Pearl Jam. Dovrebbero uscire anche gli ultimi capitoli della bella serie di remaster dei Cure, in particolare dell’album “Disintegration” che nel 2009 compie ventanni. In autunno, secondo alcune indiscrezioni, dovrebbero uscire anche i ciddì rimasterizzati di tutti gli album dei Beatles… chissà, io lo spero vivamente, a patto, cazzo, che vi siano inclusi degli inediti!

Film
In questo 2009 dovremmo vedere il benedetto film sulla vita di Bob Marley, in cantiere almeno dal 2003. Pare che quest’anno sia la volta buona, chissà, certo è che al momento non se ne conoscono molti particolari. Don Cheadle dovrebbe dar vita al suo film sull’immenso Miles Davis, in attesa almeno dal 2007. Si attendono anche film biografici su Freddie Mercury e Kurt Cobain, annunciati anch’essi alcuni anni fa. Correrei subito al cinema per vedermi quello su Mercury, si era parlato di Johnny Depp per la sua interpretazione, chissà.

Questo quello che è stato confermato, in maniera più o meno ufficiale da parte dei diretti interessati o da chi per loro. Ora passo brevemente alle mie aspettative per quest’anno:

  • spero in un ritorno sulle scene del grande David Bowie, magari anche solo per dei concerti, ovviamente con transito obbligatorio in Italia;
  • una cazzutissima ristampa di “The Wall” dei Pink Floyd in occasione del trentennale di quello che resta il mio album rock preferito;
  • un nuovo album da studio di Sting che, a parte la divagazione medievale di “Songs From The Labyrinth”, non mi pubblica un album con canzoni sue dal 2003;
  • un nuovo album e/o tour per i Tears For Fears con tassativo passaggio live in Italia;
  • la pubblicazione d’un cofanetto di Miles Davis con le sue collaborazioni con Prince (si parla comunque d’un nuovo cofanetto davisiano della sua discussa produzione anni Ottanta);
  • almeno un concerto in terra italiana per Paul McCartney;
  • un nuovo album per Roger Waters, che non pubblica un disco d’inediti dai tempi di “Amused To Death”.

Questo è quel che le mie antenne sono riuscite a captare nell’aria; se non altro si prefigura un 2009 abbastanza interessante sotto il profilo musicale. Per tutto il resto, come sempre, staremo a vedere! – Matteo Aceto

Altre canzoni, altre citazioni musicali

Stevie Wonder Sir Duke immagine pubblicaDopo un post che riportava alcune autoreferenze musicali fra (ex) componenti d’una stessa band, ora vediamo quali brani si riferiscono – più o meno direttamente – a cantanti, gruppi o componenti di band esterne all’artista che canta e/o scrive la canzone.

Citazioni che esplicitano i Beatles si trovano in All The Young Dudes dei Mott The Hoople, Born In The 50’s dei Police, in Ready Steady Go dei Generation X e in Encore dei Red Hot Chili Peppers, mentre i Clash sfottono la beatlemania in un verso dell’ormai classica London Calling. In realtà, nel periodo in cui i Beatles erano attivi e famosi in tutto il mondo, comparvero diverse canzoni di artisti meteore che citavano i quattro per i motivi più disparati: ricordo, ad esempio, una canzone rivolta a Maureen Starkey, prima moglie di Ringo Starr, che doveva ‘trattare bene’ il batterista, ma anche una rivolta a John Lennon, che, secondo il suo autore, s’era spinto troppo oltre con la celebre sparata dei ‘Beatles più famosi di Cristo’. Anche noti artisti italiani hanno citato i Beatles, come Gianni Morandi in C’era Un Ragazzo Che Come Me… e gli Stadio in Chiedi Chi Erano i Beatles.

Alla prematura & sconvolgente morte di Lennon fanno invece riferimento Empty Garden di Elton John, Life Is Real (Song For Lennon) e Put Out The Fire dei Queen, Murder di David Gilmour, ma anche la famosa Moonlight Shadow di Mike Oldfield. John vivo & vegeto viene invece citato da David Bowie nella sua celebre Life On Mars? del 1971… Bowie che a sua volta viene citato – con Iggy Pop – in Trans Europe Express dai Kraftwerk. Esiste tuttavia una canzone chiamata proprio David Bowie, pubblicata dai Phish… che poi, a dire il vero, le citazioni riguardanti Bowie sono molte di più: uno dei più acclamati biografi di David, Nicholas Pegg, dedica alla questione un intero paragrafo nella sua notevole enciclopedia.

Anche i Rolling Stones sono stati oggetto di diverse citazioni, fra le quali le stesse C’era Un Ragazzo Che Come Me…, All The Young Dudes e Ready Steady Go viste sopra, ma anche I Go Crazy dei Queen e She’s Only 18 dei Red Hot Chili Peppers. Il solo Mick Jagger viene invece citato da David Bowie nella sua Drive In Saturday e ritratto in altre canzoni del suo “Aladdin Sane” (1973), mentre i Maroon 5 hanno addirittura creato una Moves Like Jagger.

Billy Squier ci ricorda Freddie Mercury con I Have Watched You Fly, così come ha fatto anche il nostro Peppino Di Capri in La Voce Delle Stelle, mentre a commemorare Kurt Cobain ci hanno pensato Patti Smith in About A Boy e i Cult con Sacred Life. Riferimenti a Elvis Presley si trovano in diverse canzoni di Nick Cave, così come in Angel degli Eurythmics, mentre i Dire Straits lo invocano in Calling Elvis. Nella sua God, John Lennon dice invece di non crederci più, in Elvis, così come in Bob Dylan. Dylan che viene esplicitamente citato in Song For Bob Dylan di Bowie e in Bob Dylan Blues di Syd Barrett ma che tuttavia viene sbeffeggiato in alcuni inediti lennoniani come Serve Yourself.

Citazione-omaggio per Brian Wilson dei Beach Boys da parte dei Tears For Fears in Brian Wilson Said, dove la band inglese rifà anche il verso ad alcuni tipici effetti corali dell’indimenticata surf band americana. Invece al celebre tenore Enrico Caruso hanno reso omaggio, oltre a Lucio Dalla con la struggente Caruso, anche gli inglesi Everything But The Girl con The Night I Heard Caruso Sing. Il grande Duke Ellington ci viene ricordato da Stevie Wonder con la famosa Sir Duke (nella foto in alto, la copertina del singolo), ma il pezzo più impressionante dedicato al duca è di Miles Davis che, con He Loved Him Madly, realizza uno straordinario requiem in stile fusion per il suo idolo musicale. Un altro grande artista nero, Marvin Gaye, ci viene invece malinconicamente ricordato in un successo dei Commodores, Nightshift, mentre trent’anni dopo il giovane Charlie Puth si è fatto notare con una canzone chiamata proprio Marvin Gaye.

A Jonathan Melvoin, tastierista degli Smashing Pumpkins morto d’overdose nel ’96, Prince ha dedicato la bellissima The Love We Make (Jonathan era amico di Prince, giacché questi era stato fidanzato a lungo con sua sorella, Susannah Melvoin). Invece il truce rapper The Notorius B.I.G. è stato omaggiato dalla fortunata I’ll Be Missing You, un duetto fra Puff Daddy e Faith Evans basato sulle note di Every Breath You Take dei Police.

Oltre ai ricordi dolorosi, però, ci sono anche sentimenti d’amicizia e di stima, simpatie, accuse e sfottò… ecco quindi i Police che si fanno beffe di Rod Stewart in Peanuts e i Sex Pistols che, in New York, deridono tutta la scena punk americana che sembra averli preceduti. La scena punk inglese viene invece omaggiata da Bob Marley in Punky Reggae Party, dove il grande artista giamaicano cita i Clash, i Jam e i Damned. I Pink Floyd rimpiangono invece Vera Lynn in Vera, tratta dal loro monumentale “The Wall”. In She’s Madonna, Robbie Williams, oltre a farsi accompagnare dai Pet Shop Boys (citati anch’essi in un altro pezzo di Robbie), esprime il suo apprezzamento per… Madonna. E se Wayne Hussey dei Mission canta la sua vicinanza a Ian Astbury dei Cult in Blood Brother, gli Exploited urlano l’innocenza di Sid Vicious in, appunto, Sid Vicious Was Innocent. Altri riferimenti alla parabola di Sid (e della compagna Nancy Spungen) li possiamo trovare in I Don’t Want To Live This Life dei Ramones e in Love Kills di Joe Strummer. I Sex Pistols in quanto tali sono invece citati in una canzone dei Tin Machine, così come in un’altra di quel gruppo capeggiato da David Bowie viene citata Madonna.

Non è mai stato chiarito da Michael Jackson se la sua Dirty Diana si riferisca all’amica Diana Ross o meno, ma per completezza ci mettiamo anche questa, così come non è chiaro il destinatario di You’re So Vain, il più grande successo di Carly Simon (secondo i più è indirizzata a Mick Jagger che, in realtà, contribuisce ai cori della canzone stessa). Di certo una curiosa immagine di Yoko Ono ci viene invece offerta da Roger Waters nella sua The Pros And Cons Of Hitch Hiking.

Per quanto riguarda gli italiani, mi vengono in mente La Grande Assente di Renato Zero (un omaggio all’amica Mia Martini), No Vasco di Jovanotti (non so se il titolo è esatto, comunque il riferimento è Vasco Rossi) e quella buffa canzone di Simone Cristicchi che cita di continuo Biagio Antonacci.

Quali altri esempi conoscete? Di certo, oltre a quelli che non conosco io, ce ne sono molti altri che ho dimenticato di citare [ultimo aggiornamento, 7 aprile 2011]. – Matteo Aceto

Ritorni parziali

alice-in-chainsMai come negli ultimi anni si sono visti ritorni (più o meno illustri) di band attive in un passato più o meno recente. Ha fatto clamore, per esempio, la reunion dei Police nel 2007, generando un fortunatissimo tour mondiale conclusosi lo scorso agosto. La formazione dei Police era quella classica, quella storica di sempre, vale a dire Stewart Copeland, Sting e Andy Summers. Stessa cosa si può dire dei Sex Pistols, che nella formazione originale composta da John Lydon, Steve Jones, Paul Cook e Glen Matlock è tornata a proporre dal vivo il suo punk irriverente in giro per il mondo.

Negli ultimi anni si sono riviste in azione le formazioni originali anche nel caso dei Duran Duran, degli Eagles (vabbé mancava Don Felder ma non se n’è accorto nessuno), dei Genesis formato trio, dei Cream, dei Verve, degli Stone Temple Pilots, ma anche dei Take That (quelli dell’ultima formazione, senza Robbie Williams), delle Spice Girls e addirittura degli Yazoo. Anche la classica formazione a quattro dei Pink Floyd, seppur per il solo evento benefico del Live Eight. Tuttavia non è stato affatto infrequente il caso di nomi celebri che, resuscitati dal passato fra mille clamori, presentavano in realtà solo alcuni dei componenti originali della band, con gli altri a volte rimpiazzati da autentici sconosciuti. E’ il caso dei Supertramp, degli Who, dei Queen, dei Guns N’ Roses, dei Cult, degli Smashing Pumpkins, dei Led Zeppelin, degli INXS e recentemente degli Alice In Chains (nella foto).

E’ proprio di questi giorni, infatti, la notizia che gli Alice In Chains, dopo essersi riformati qualche anno fa per una serie di concerti, stanno per tornare con un nuovo album di materiale inedito, il primo dai tempi dell’album eponimo del 1995: il tutto dopo aver superato lo shock della morte del cantante Layne Staley nel 2002 e l’ingaggio d’un suo sostituto, lo sconosciuto (a me) William Duvall.

Ora, da gran patito di musica ma anche di storia & storiografia, mi chiedo che legittimità abbiano queste reunion parziali, questi acclamati ritorni che figurano due o a volte anche uno solo dei componenti originali di un gruppo. A giudicare da quello che è successo ai Queen – che non solo hanno continuato senza Freddie Mercury rimpiazzandolo con Paul Rodgers, ma hanno serenamente fatto a meno di John Deacon – e dal successo che hanno ottenuto nei loro ultimi tour in giro per il mondo, penso che la differenza la faccia il celebre marchio: non importa chi vi sia dietro, quali musicisti stanno effettivamente suonando sul palco, ciò che conta è la consapevolezza che stiamo assistendo al concerto di un celebre nome del rock.

E così benvengano due Queen originali su quattro, due Who su quattro, due Doors (con buona pace di quelli che dicono che Jim Morrison sia ancora vivo) su quatro, due Smashing Pumpkins su quattro, tre Alice In Chains su quattro, ma anche un solo Guns N’ Roses su cinque. E’ ovvio che fa sempre piacere sentire dal vivo le nostri canzoni preferite anche se nel gruppo ricomposto c’è un solo ‘vecchio’ ma, non so, mi sembra che tutto questo revival sia poco dettato dalla nostalgia. Il vero motivo, secondo la mia modesta opinione, è uno solo, il più classico: i soldi. Unito ad un altro di fondo… la mancanza di coraggio, di andare avanti per la propria strada con progetti solistici che spesso & volentieri hanno molta più dignità di questi ritorni parziali. A questo punto lasciamo pure che Paul McCartney, dopo essersi assicurato Ringo Starr alla batteria, se ne vada in giro con una band facendosi chiamare The Beatles. Non se ne scandalizzerebbe quasi nessuno e gli stadi sarebbero pieni.. beh, forse in quel caso, mascherato & mimetizzato fra la folla urlante, ci sarebbe anche il sottoscritto. – Matteo Aceto

Julien Temple, “Joe Strummer – The Future Is Unwritten”, 2007

joe-strummer-film-clash-immagine-pubblicaMiracolosamente, il docufilm di Julien Temple su Joe Strummer, “The Future Is Unwritten”, è arrivato anche in una sala cinematografica abruzzese, precisamente al Massimo di Pescara. La proiezione si è tenuta ieri sera e… non me la sono fatta scappare!

Antonella & io arriviamo per tempo, alle ventiettrenta, di fronte ad un botteghino già molto affollato: un quantitativo di gente che non mi aspettavo di trovare ma che mi ha fatto molto piacere di vedere. Quando entriamo in sala riusciamo per fortuna a trovare due comodi posti nelle file centrali ma entro le ventuno, ora d’inizio della proiezione, la sala è già piena.

Il docufilm di Temple parte già alla grande, con la storica ripresa (in bianco & nero) di Joe che registra la sua voce solista sulla base strumentale – che in quel momento ascolta solo lui, in cuffia – di White Riot, il primo singolo dei Clash. Poi entra prepotentemente & selvaggiamente il resto della musica, con le immagini che stavolta passano al cortile di casa Mellor (il vero cognome del nostro) dove troviamo il piccolo Joe a giocare col fratellino maggiore David. Queste immagini iniziali sono fra le poche che mi hanno veramente emozionato: non avevo mai visto quelle sequenze amatoriali (a colori) del giovane Strummer, così come le foto e le immagini dei suoi genitori. Tutto il film scorre cronologicamente, dall’origine nella middle-class inglese alla resurrezione artistica del nostro con la sua ultima band, The Mescaleros, passando per gli anni in collegio, il periodo da squatter a Londra, l’esplosione del fenomeno punk, il suo passaggio dagli 101ers ai Clash, l’epopea di questi ultimi, gli anni di smarrimento nella seconda metà degli Ottanta.

Una storia complessa & affascinante, narrata oltre che dalle stesse parole di Joe (prese dalle sue interviste radio e/o televisive) anche da quelle persone – musicisti o tizi comuni – che più sono state in contatto con lui, fra cui: i tre ex Clash Mick Jones (in ottima forma & a suo agio), Topper Headon e Keith Levene (ma non clamorosamente Paul Simonon, chissà perché…), Tymon Dogg, Steve Jones dei Sex Pistols, Don Letts, Courtney Love, amici d’infanzia e compagni hippy e/o squatter, le sue due mogli – Gaby e Luce – più una serie d’interventi di gente che a mio avviso c’entra ben poco, come quel ruffianone onnipresente di Bono Vox. Che cavolo c’entra Bono con Joe Strummer?! Altri interventi ci mostrano invece gli attori Matt Dillon, Steve Buscemi e Johnny Depp e il regista Martin Scorsese.

E’ molto bello che la maggior parte di questi interventi si svolga attorno ad un falò sulla spiaggia, come piaceva fare a Joe per ritrovarsi e confrontarsi con gli amici più cari. Uno dei pochi che non appare di fronte al caldo scoppiettare delle fiamme è Mick Jones, che parla del suo rapporto artistico e umano con Strummer dal grattacielo in cui viveva da solo con la nonna, nella seconda metà degli anni Settanta. Grande Mick, da sempre il mio Clash preferito! Anche il manager-mentore dei Clash, il controverso Bernie Rhodes, dice la sua, col suo classico taglio polemico & aggressivo, anche se i suoi interventi sono soltanto vocali (credo telefonici), su alcune immagini di repertorio.

“The Future Is Unwritten” è quindi un ottimo documento per conoscere la vita privata & artistica di Joe Strummer, non manca nessun aspetto: il dolore per la perdita del fratello David, gli anni giovanili errabondi, la storia dei Clash ovviamente, le colonne sonore realizzate per il cinema (come “Walker”), le parti che Joe ha recitato per lo stesso cinema (come “Mystery Train” di Jim Jarmusch, che anch’egli contribuisce coi suoi ricordi attorno al falò), i suoi programmi radiofonici condotti per la BBC a cavallo fra gli anni Novanta e Duemila (spesso come colonna sonora abbiamo proprio i pezzi che Joe sceglieva, introducendoli con la sua inconfondibile voce), fino alla sua esibizione coi Mescaleros nell’autunno del 2002, per supportare la causa dei pompieri in sciopero, un’esibizione che vide anche la partecipazione (a sorpresa) di Mick Jones per un paio di pezzi dei Clash. Altre sequenze davvero emozionanti!

A parte clamorose assenze – una su tutte, come detto, Paul Simonon, ma anche i produttori Mikey Dread (peraltro morto pochi giorni fa…) e Bill Price, nonché Martin Slattery dei Mescaleros – l’unico grande punto debole che ho trovato in “The Future Is Unwritten” è la sua verbosità. Una valanga di parole, da quelle dei già numerosi ospiti attorno al falò a quelle dello stesso Joe, con la musica che quasi sempre resta un mero sottofondo. Una valanga di informazioni che danno sì un profilo abbastanza completo di Joe Strummer ma che risultano eccessivamente compresse in due ore di visione. Insomma, va pure bene la prima volta che vediamo il film, ma le altre volte? Dov’è la musica? C’è da dire che, almeno nei titoli, essa è abbastanza rappresentativa dei vari periodi artistici di Joe: ascoltiamo quindi (anche se per pochi secondi ognuna) Keys To Your Heart dei 101ers, White Riot, London Calling, Magnificent Seven, Rock The Casbah e altri classici dei Clash, estratti dalle colonne sonore di “Walker”, “Permanent Record” e “When Pigs Had Flies” (non sono sicuro che quest’ultimo titolo sia esatto, la musica resta tuttora inedita), Tony Adams , Johnny Appleseed e Willesden To Cricklewood dei Mescaleros. Insomma, i titoli non mancano ma li si ascolta veramente per pochi secondi, quasi sempre come sottofondo alle parole.

Altri aspetti che ho gradito poco – e dei quali francamente non ho visto l’utilità – sono stati gli inserti di sequenze tratte dal bel cartone animato de “La fattoria degli animali” e del film “1984”, entrambi presi dalle notevoli opere letterarie omonime di George Orwell. Potrebbero anche fare scena ma per me sono inutili.

In definitiva, penso che “The Future Is Unwritten” sia un ottimo racconto per chi vuole conoscere Joe Strummer sapendone veramente poco, o per chi volesse avere una guida visuale della sua carriera. Ma per chi conosce già la storia di Joe e consuma da anni album quali “London Calling” e “Sandinista!” questo film rappresenta solo un simpatico & gradito diversivo. A tratti pure un po’ noioso. – Matteo Aceto

The Clash: a Johnny Rotten non sono mai piaciuti

johnny-rotten-no-irish-no-blacks-no-dogsHo appena finito di leggermi questo librone di trecentocinquanta pagine buone, “No Irish, No Blacks, No Dogs”, l’autobiografia del leader dei Sex Pistols, il pittoresco John Lydon, alias Johnny Rotten.

Il libro, pubblicato nel 1994, è stato tradotto e stampato per il mercato italiano solo da poco, nel 2007, e questa la dice lunga sulla cultura rock nel nostro paese. Non posso lamentarmi se la maggior parte dei miei conterranei ritiene Ligabue o Piero Pelù delle icone del rock. A parte l’imbarazzante ritardo, comunque, ho trovato godibilissimo questo libro, anche quando Johnny racconta la sua infanzia e i suoi famigliari più prossimi, argomenti che ho sempre trovato un po’ noiosi nelle biografie dei miei idoli musicali.

C’è un passaggio in particolare che mi ha sorpreso, si trova a pagina 118: Johnny Rotten afferma chiaramente & senza alcun pelo sulla lingua che i Clash non gli sono mai piaciuti! Ma come?! Nelle interviste e nei libri riguardanti i Clash notavo sempre stima & rispetto per i Sex Pistols da parte della band di Joe Strummer, eppure John non li poteva soffrire, a quanto pare. Ecco la citazione, che riporto pari pari dall’edizione italiana dell’autobiografia, edita dall’Arcana e tradotta da Giuseppe Marano [le parentesi quadre sono mie per specificare il contesto]…

“Una volta facemmo un concerto il 4 luglio [1976] con i futuri Clash di spalla. Strummer e gli altri avevano un atteggiamento orribile in quel concerto. Keith Levene era nella band, ed era l’unico che riuscì a tenere una conversazione decente con noi. Bernie Rhodes, ex-socio di Malcolm [McLaren, manager dei Sex Pistols], gli faceva da manager ed era il loro primo concerto in pubblico. Malcolm e Bernie erano concorrenti, perciò Bernie stava aizzando la band a prendere una posizione molto anti-Pistols, come se fossero loro i veri re del punk. Non mi sono mai piaciuti i Clash. Come compositori non erano granché. A metà concerto erano già spompati perché all’inizio partivano in quarta. I Sex Pistols imparavano la dinamica sul palco. E di questo do merito a Paul [Cook, batterista del gruppo]. Sapeva spezzare il ritmo. Strummer prendeva il via e da quel momento in poi andava avanti a tutta velocità. Non va molto bene perché non basta essere veloci per comunicare qualcosa. Non puoi ballarci su, e riesci a malapena ad ascoltare. Dopo mezz’ora è sgradevole. Mi sembrava che i Clash, nell’aspetto e nel sound, urlassero contro se stessi dicendo niente in particolare: qualche slogan trendy preso qua e là da Karl Marx. I Clash introdussero l’elemento competitivo che trascinò giù un po’ tutto. Per noi non è mai stato così. Noi eravamo i Pistols e basta. Non ci siamo mai considerati parte di un movimento punk”.

Insomma, ci sono rimasto un po’ male: uno dei miei idoli punk, Johnny Rotten, che fa praticamente a pezzi una delle mie band preferite, The Clash, che s’è professata sempre ammiratrice & amica dei Pistols. Hai capito Johnny, non le risparmia per nessuno, nemmeno per i suoi colleghi… figuriamoci per gente come Mick Jagger (e gliene dice quattro nel corso del libro)!

“No Irish, No Blacks, No Dogs” è uno spasso, a tratti esilarante, spesso rabbioso, imprevedibilmente umano & anche toccante. Credo che sia il punto di vista privilegiato d’un esponente musicale che nel bene o nel male ha cambiato la faccia della musica pop-rock e della sua fruizione da parte del pubblico. E’ un libro che dovrebbe leggere ogni vero appassionato di punk music, anche se dice poco a proposito del dopo-Pistols. Pare che quello sarà il tema della seconda autobiografia che Johnny dovrebbe dare alle stampe in futuro. Prenderò senz’altro anche quel libro, sperando che la versione italiana non giunga ancora una volta con tredici anni di ritardo. – Matteo Aceto

Un anno di ritorni, il 2007… e il 2008?

john-lydon-johnny-rotten-pil-sex-pistolsIl 2007 appena trascorso s’è rivelato come l’anno dei grandi ritorni, molti dei quali del tutto inattesi. Solo un anno prima non avrei mai detto che, a distanza di pochi mesi, avrei visto dal vivo due delle mie bande rock preferite, i Genesis (con Phil Collins di nuovo nei ranghi) a Roma, e i Police a Torino… insomma, nei primi mesi del 2006 tutto questo era fantascienza per me!

L’ultima, clamorosa reunion in ordine di tempo è stata quella dei Led Zeppelin (col figlio di John Bonham a sostituire l’illustre genitore, scomparso nell’80), ma grande attenzione da parte della stampa è stata riservata ai ritorni di due celeberrime formazioni pop degli anni Novanta, i Take That (anche se privi di Robbie Williams) e le Spice Girls al gran completo. Grande attenzione da parte degli acquirenti di dischi come il sottoscritto è stata riservata invece agli Eagles che, col loro recente “Long Road Out Of Eden” (l’ho comprato per Natale… lo recensirò presto…), hanno meritatamente conquistato il 1° posto della classifica americana, vale a dire il mercato discografico più importante al mondo.

Nel corso del 2007, tuttavia, sono state parecchie le formazioni che si sono ritrovate insieme dopo molti anni, sia sul palco, sia in studio o in entrambi i casi. Qui mi limito a citare i Sex Pistols – sul palco (nella foto sopra, una rassicurante immagine del loro cantante, quel gran soggettone di Johnny Rotten) – i Verve di Richard Ashcroft – palco e studio – gli Smashing Pumpkins – studio e palco – i James (quelli di Sit Down), i Crowded House (quelli di Don’t Dream It’s Over) – palco e studio – i Jesus And Mary Chain, gli Stooges del selvaggio e carismatico Iggy Pop – studio e palco – e gli Happy Mondays, una band di sballoni proveniente da Manchester particolarmente celebre (in patria) fra gli ultimi anni Ottanta e i primi Novanta.

Pure i Queen, o ciò che ne rimane, ovvero Brian May con Roger Taylor, sono tornati in pista: a dicembre è uscito il singolo Say It’s Not True, sempre con la partecipazione di Paul Rodgers come cantante, mentre per questo 2008 si attende un album completo. Si attendono inoltre i nuovi album dei già citati Verve, dei Cure, dei R.E.M., dei Metallica e, udite udite, di Michael Jackson. Proprio il nome di Michael Jackson potrebbe essere quello più discusso in questo 2008… dovrebbe intraprendere un tour per sanare i suoi debiti e, per farlo, potrebbe resuscitare addirittura i Jacksons, la sua storica band con i fratelli. Personalmente sono molto curioso, nel frattempo a febbraio uscirà una lussuosa riedizione del suo classicissimo, l’album “Thriller” datato 1982.

Insomma, musicalmente anche questo 2008 promette bene… spero che si avranno altre piacevoli sorprese! A questo punto, per quanto mi riguarda, ora aspetto una sola reunion… quella dei benedetti Pink Floyd… ma, sia ben chiaro, senza Roger Waters non ne voglio sapere alcunché!

Buon anno a tutti, amici blogger & lettori, ci sentiamo nei prossimi giorni. Ciao! – Mat

Siouxsie & The Banshees, “Once Upon A Time/The Singles”, 1981

siouxsie-and-the-banshees-once-upon-a-timeDa tempo volevo parlare d’un altro gruppo new wave inglese che apprezzo particolarmente pur senza esserne un fan: Siouxsie And The Banshees, una band capitanata dalla inquietante ma eccentrica & sensuale Siouxsie Sioux.

Cercherò di descrivere la storia di questo gruppo basandomi sulle due raccolte pubblicate nel 1981 e nel 1992, vale a dire “Once Upon A Time/The Singles” e “Twice Upon A Time/The Singles”, contenenti, per l’appunto, i singoli pubblicati dai Siouxsie And The Banshees dall’agosto ’78 al luglio ’92.

Da quel che ho capito, i Siouxsie And The Banshees nascono nel 1976 come accolita di fan degli impetuosamente nascenti Sex Pistols, tanto che il primo batterista dei Banshees era il famigerato Sid Vicious, di lì a poco nuovo bassista (più scenico che effettivo) degli stessi Pistols. Ma oltre alla Sioux, a Vicious, e a qualcun altro che ora non ricordo, i Banshees vantavano già il bassista Steven Severin, probabilmente il vero motore musicale del gruppo.

I Siouxsie And The Banshees entrano quindi in contatto con la cricca punk più in vista di quel periodo, vale a dire i Sex Pistols, i Clash, i Damned (un altro gruppo che meriterebbe un post tutto suo…) e i Generation X, e se non ricordo male partecipano pure al famigerato Anarchy Tour del dicembre ’76.

Tutto ciò più l’impossibilità di non accorgersi del fascino sconcertante della Sioux, evidentemente, bastarono ai nostri per attirare le attenzioni della Polydor che il 18 agosto 1978 pubblica il singolo Honk Kong Garden. Prodotta dal celebre Steve Lillywhite, la saltellante & ovviamente orientaleggiante Honk Kong Garden mise subito in luce la peculiarità dei Siouxsie And The Banshees e il loro innegabile appeal artistico. Di recente, questo pezzo è stato inserito nel film “Marie Antoinette” di Sofia Coppola: lo si ascolta durante uno degli sfrenati party ai quali partecipa la volubile regina francese.

Tratto dal primo album della band, “The Scream”, ecco invece il secondo singolo, l’arrembante Mirage, pubblicato il 13 novembre; è una canzone che vede già la partecipazione della stessa band alla produzione, sempre con Steve Lillywhite.

Pubblicata il 23 marzo 1979, ecco quindi la viscerale The Staircase (Mystery), una bella canzone che risalta le doti più teatrali & drammatiche dei nostri. Segue l’altrettanto visceralteatrale ma più gotica Playground Twist, edita il 28 luglio e caratterizzata da una superba prova vocale di Siouxsie Sioux, nonché dall’uso del sassofono. Playground Twist è inoltre l’ultimo singolo della band a figurare la formazione Siouxsie Sioux/Steven Severin/John McKay/Kenny Morris.

Accreditata a Siouxsie Sioux/Steve Severin/Kenny Morris/Peter Fenton ecco quindi a settembre la martellante & irresistibile Love In A Void. Accreditata invece ai soli Sioux & Severin, ecco invece Happy House, pubblicata il 7 marzo 1980 e prodotta dai nostri con Nigel Gray, già al lavoro coi Police. È una bella canzone, Happy House, un pop molto artistico che a mio avviso marca l’inizio della fase più convincente della lunga carriera discografica dei Siouxsie And The Banshees.

Il 30 maggio è la volta d’una seconda composizione Sioux/Severin, un’altra bella canzone chiamata Christine, mentre il 28 novembre la Polydor pubblica la distesamente pulsante Israel, che secondo me è una delle dieci canzoni migliori mai registrate dai nostri. Da Israel in poi tutte le canzoni originali dei Sioxusie And The Banshees saranno accreditate secondo questa firma collettiva, mentre la formazione alternerà una schiera notevole di musicisti stabili e ospiti da qui agli anni seguenti, fra i quali Steve Jones dei Sex Pistols, John McGeoch dei Magazine (poi coi Public Image Ltd. di Johnny Rotten) ma soprattutto Robert Smith dei Cure.

Ancora con Nigel Gray alla console, il 22 maggio 1981 segna l’uscita della bella Spellbound, seguita il 24 luglio da un pezzo ancora migliore, Arabian Knights. È proprio sulle note di Arabian Knights, ultimo pezzo contenuto nella raccolta “Once Upon A Time”, che chiudiamo questo primo post dedicato ai singoli dei Siouxie And The Banshees del periodo 1978-1992. Un secondo post arriverà fra qualche giorno. – Matteo Aceto