Dopo aver ripubblicato un post su “London Calling” dei Clash non potevo certo non rioccuparmi anche di quanto scrissi – e pubblicai nel lontano 4 dicembre 2006 su Parliamo di Musica – a proposito di “Never Mind The Bollocks”, il solo e unico album dei Sex Pistols.
E’ un disco che più punk non si può, anzi, “Never Mind The Bollocks” è la quintessenza stessa della musica punk. E come potrebbe essere altrimenti? Quale altro album punk – ma pure rock, a ben guardare – contiene dodici brani così incendiari, abrasivi, dissacranti e anticonformisti messi così, l’uno dopo l’altro? E quale altro disco suscitò così tante & tali controversie in un momento in cui i mass media non erano certo così capillarmente invasivi come oggi? Un album pubblicato in ritardo di alcuni mesi perché le etichette discografiche – la EMI prima e la A&M dopo -facevano lo scaricabarile e alcuni rivenditori tentarono il boicottaggio. E ciò nonostante, il debutto dei Sex Pistols a trentatrè giri volò al 1° posto della classifica inglese, sul finire di quel fatidico 1977. Un risultato ancor più straordinario se si pensa che, di lì a poco, un altro fortunatissimo album, la colonna sonora del film “Saturday Night Fever” – con brani disco da manuale firmati Bee Gees – riscosse un successo senza precedenti. Essì, i tempi erano davvero cambiati, pareva proprio che il pubblico inglese ne avesse ormai le palle piene degli hard rocker progressivi capelloni che avevano dominato la scena musicale nella prima metà degli anni Settanta. A tal punto che alcuni osservatori dissero in seguito che gli anni Ottanta erano iniziati proprio nel fenomenale 1977.
“Never Mind The Bollocks” è un disco selvaggio & indomito, introdotto da quella minacciosa marcia militare con cui inizia la travolgente Holidays In The Sun, edita anche su singolo nell’ottobre ’77. Una canzone – il cui testo riflette le impressioni d’un breve soggiorno berlinese del gruppo – che annuncia già tutto il tono dell’album, col drumming squadrato di Paul Cook (mi piace, in particolare, il modo in cui Paul colpisce i piatti), la chitarra ridondante e tagliente di Steve Jones, il basso nervoso di Glen Matlock (il buon Glen, cacciato per far posto al molto meno esperto Sid Vicious, suona alcune parti di basso, diverse delle quali sono però state eseguite da Jones, per cui m’affido al beneficio del dubbio) e la voce inconfondibile di Johnny Rotten, sempre al limite della stonatura, volgare, tanto irriverente quanto divertente.
L’album procede spedito con Bodies, uno dei brani migliori, puro punk al cento per cento, quindi con No Feelings, cattiva & egoistica, con Liar, una frecciata contro Malcolm McLaren, il manager-mentore dei Pistols (già allora in rotta di collisione con Rotten), finché non si giunge alla mitica God Save The Queen. Pubblicata su singolo nel maggio ’77, strategicamente in occasione del giubileo della regina d’Inghilterra, God Save The Queen può essere ritenuta la canzone punk per antonomasia; è quella col celeberrimo ‘no future’, con un testo migliore di qualsiasi trattato sociologico nel descrivere tutto il disagio dei giovani britannici in quella seconda parte dei Settanta.
Seguono la tagliente Problems, superbamente punk, e l’autocompiaciuta Seventeen, prima d’imbattersi in Anarchy In The U.K., primo singolo estratto da “Never Mind The Bollocks” (addirittura un anno prima, nel novembre ’76). Anche in questo caso siamo alle prese con una pietra miliare del rock: mai una band d’esordienti poco più che ventenni aveva opposto un tale oltraggioso criticismo verso la propria nazione, all’epoca un grande impero coloniale ormai in decadenza. E poi, lasciatemelo dire, ‘your future dream is a shopping scheme’ è un verso grandioso che da solo assolve tutto l’album.
Submission è un po’ più atipica rispetto al resto dell’album, con un ritmo meno tirato e un che di vagamente reggae nell’arrangiamento, anche se i Sex Pistols hanno dichiarato che il brano prendeva qualcosa dai Doors e lo rallentava. Pretty Vacant, edito su singolo nel luglio ’77, è un altro dei pezzi forti del disco, con quei rabbiosi ‘and we don’t care!’ ringhiati da Johnny alla faccia della precarietà lavorativa (un tema ancora tristemente attuale).
Le conclusive New York e E.M.I. sono praticamente due sequele d’insulti: la prima è contro la scena punk americana, che s’arrogava il diritto d’aver dato vita al ‘movimento’; la seconda è contro la casa discografica, la EMI per l’appunto, che aveva messo sotto contratto i Pistols nel ’76 ma che infine, spaventata dalle critiche e dal comportamento strafottente del gruppo stesso, aveva preferito pagare una lauta penale pur di liberarsene.
Come detto, “Never Mind The Bollocks” doveva vedere la luce alcuni mesi prima, anche perché, oltre a essere stati mollati dalla EMI, i Pistols vennero scaricati anche dalla A&M, che pure aveva già pubblicato God Save The Queen (quell’edizione, oggi, vale una fortuna!). Invece – com’è noto – fu la giovane (all’epoca) etichetta di Richard Branson, la Virgin, ad editare “Never Mind The Bollocks” nel novembre ’77 e a goderne i benefici di album scalaclassifica.
Nel 2007, in occasione del trentennale dell’album, la Virgin (che nel frattempo è stata comprata dalla EMI, per cui tutto torna) ha ristampato su vinile sia “Never Mind The Bollocks” che i suoi quattro formidabili singoli. Io sono riuscito a farmi scappare il tutto, specie l’album che veniva riproposto fedelmente con tanto di poster e di quarantacinque giri aggiuntivo, contenente uno dei pezzi escluso per errore e aggiunto all’ultimo minuto con tale espediente. Lo ammetto, non volevo spendere soldini preziosi per della musica che avevo e apprezzavo da tempo. “Never Mind The Bollocks” è stato però ristampato diverse altre volte negli ultimi anni, e altre stampe arriveranno in futuro (pensate che nel 2017 non ne festeggeranno il quarantennale?), per cui sono certo che saprò recuperare.
Ancora due parole sulla copertina del disco, ormai una vera icona: nel bel mezzo degli anni di piombo, i Sex Pistols fecero debuttare la loro musica con una grafica che richiamava le lettere anonime dei gruppi terroristici. Provocatori fin da subito! E il curioso titolo dell’album? ‘Never mind the bollocks’ vuol dire ‘freghiamocene delle stronzate’, un’espressione di stizza usata da un esasperato Steve Jones mentre si discuteva su quale titolo dare al disco. – Matteo Aceto