Oggi ho finito di leggere la biografia di Jim Morrison scritta dal giornalista americano Stephen Davis. E’ un lavoro ben documentato e molto coinvolgente, quasi seicento pagine che ho letto in un soffio.
Desideravo conoscere la storia di Jim Morrison per due motivi principali: la musica dei Doors mi piace sempre più e quindi volevo semplicemente saperne di più, e poi avevo un dubbio che covavo da almeno dieci anni… ma il ritratto che Oliver Stone ne ha fatto nel suo film del 1991 era reale?
Perché Stone ci mostra un Morrison (interpretato dal comunque bravissimo Val Kilmer) più coglione che artista: è sempre fuori di testa, sembra un perfetto idiota più che una grande rockstar. Anche perché la musica che i Doors hanno inciso durante la loro breve carriera discografica è molto professionale, abbastanza raffinata tecnicamente (soprattutto il lavoro alla batteria di John Densmore)… fuori di testa fino ad un certo punto, in studio bisognava adottare professionalità & precisione e Jim Morrison mi sembra molto partecipe nei suoi dischi.
E invece Stephen Davis conferma Oliver Stone: Jim era davvero un dissolutone, uno sballone, uno che ci andava pesantissimo con l’alcol e che, in quanto a droghe, le ha provate un po’ tutte. Tuttavia non era un coglione, questo decisamente no: era un artista in tutti i sensi, uno che se ne sbatteva alla grande delle regole e della disciplina… anche del buon gusto, se vogliamo. Ci sono numerose ombre sull’infanzia di Jim, nato l’8 dicembre 1943: fino a che punto essa è stata felice? Pare che abbia subìto degli abusi sessuali da bambino… e comunque è stato sempre restìo a parlare dei suoi genitori e della sua famiglia in generale.
La sua passione principale è stata (e sarà fino alla fine) la poesia: pare che Jim leggesse tantissimo, che divorasse i libri dei poeti maledetti francesi, ma anche di filosofi e psicologi. Oltre che di romanzi. Insomma, leggeva con avidità un po’ di tutto. Durante la sua vita ha pubblicato, sia privatamente che pubblicamente, diversi volumi con i suoi scritti… quelli che al momento mi ricordo sono “The Lords” e “The Creatures”. Per quanto Jim amasse la vita e se la godesse alla grande (faceva un sacco di baldoria con i suoi amici, se la spassava con un sacco di donne… pare anche con gli uomini, beveva & fumava & si drogava tantissimo), nei suoi lavori si riflette sempre una certa angoscia, una certa caducità della vita che è sempre imminente. In uno dei brani più famosi e notevoli dei Doors, quella Roadhouse Blues che conoscerete tutti, Morrison grida chiaramente che ‘il futuro è incerto e la fine è sempre vicina’.
Un’altra passione di Jim Morrison fu il cinema, tanto che studiò cinematografia e si diplomò all’UCLA di Los Angeles, la città che più di tutte amò e che contraddistingue il suo lavoro. In realtà lui nacque nella costa opposta, in Florida, da una famiglia di origini scozzesi. La storia raccontata da Davis è davvero imponente per mole e molto appassionante: la consiglio a chiunque voglia saperne di più, non solo sul mito di Morrison, ma anche sul lavoro in studio dei Doors.
E così il gruppo realizzò un demo nel corso dell’estate ’65, un demo dal quale sarebbero state tratte le canzoni per i primi due album, ovvero “The Doors” e “Strange Days”, pubblicati entrambi nel ’67. In quel demo, tuttavia, c’erano anche versioni primordiali di brani apparsi successivamente, come Hello I Love You e Indian Summer. Dal 1967 al 1970, inoltre, i Doors eseguivano un brano che non fu mai inserito ufficialmente negli album da studio, The Celebration Of The Lizard, una sorta di poema-catarsi in musica. Il lungo brano, che poteva durare dai dieci ai sessanta (!) minuti a seconda dei concerti, del periodo e dall’indole lunatica degli stessi Doors, sarebbe dovuto comparire sul terzo album dei Doors ma, alla fine, rimase inedito (comparirà però nelle edizioni postume, ufficiali e non).
Nel libro di Davis ho letto quella che per me, appassionatissimo & fissatissimo dei Beatles, è un’autentica chicca: approfittando di una serie di concerti dei Doors, nel 1968, in Inghilterra, Jim fece visita ai quattro negli studi Abbey Road, probabilmente su invito di George Harrison. Pare addirittura che Jim partecipi ai cori di una versione di Happiness Is A Warm Gun poi rimasta in archivio. Un’altra cosa che mi ha molto colpito è che in una serie di interviste tra il 1969 e il ’70, Jim preannunciò la nascita del punk e della techno: Jim era evidentemente avanti sul suo tempo, e aveva chiara in testa l’evoluzione e la fruizione della musica contemporanea.
Approcciandomi alla lettura, nutrivo molta curiosità per il periodo parigino di Jim Morrison: il leader dei Doors si trasferì a Parigi nel febbraio 1971, restandoci fino al 3 luglio, giorno della sua morte per cause tuttora ignote. Sembra molto probabile, comunque, che Jim morì per un’overdose di eroina: non se la sparava in vena, come faceva la sua compagna ‘ufficiale’, Pamela Courson (che di overdose morirà tre anni dopo, sconvolta, pare, dai sensi di colpa), se la fumava mentre, al tempo stesso, continuava a darci sotto con l’alcol. Insomma, Jim Morrison era ben avviato, almeno fin dal 1968, sulla strada per l’autodistruzione.
Il corpo di Jim venne tumulato qualche giorno dopo nel celebre cimitero Père-Lachaise di Parigi: al funerale parteciparono in pochi (ci fu il manager dei Doors ma curiosamente nessuno dei componenti della band) e la sua tomba è tuttora una delle mete più visitate della capitale francese. Jim lasciò un testamento dove cedeva tutti i suoi beni a Pamela; alla morte di lei, tuttavia, il tutto passò ai genitori della ragazza, i coniugi Courson. Nel corso degli anni, la famiglia Morrison si è vista riconoscere una grossa fetta della lucrosa torta (dopo varie cause legali) ma i Courson hanno comunque un certo controllo artistico sull’opera morrisoniana.
Ebbene sì, la vicenda umana e artistica di James Douglas Morrison è appassionante, ricca di fascino, di musica, di poesia, di eccessi e di mistero. Il tutto, che ci piaccia o no, ne ha fatto un mito di questi tempi [ – Matteo Aceto